Per Ali Rashid Israele non deve affatto rimanere lo Stato degli Ebrei e, tra la propaganda, inserisce un'utile richiesta di spiegazioni a Prodi
Testata: Il Manifesto Data: 08 dicembre 2006 Pagina: 2 Autore: Ali Rashid Titolo: «Medio Oriente, la chiarezza necessaria»
Ad Ali Rashid, ex segretario della rappresentanza italiana dell'Autorità palestinese e deputato di Rifondazione comunista le dichiarazionidi Romano Prodi sulla necessità che Israele rimanga uno Stato ebraico sono sembrate inquietanti.
E sul MANIFESTO dell'8 dicembre 2006, chiede spiegazioni. Vuole sapere se :
"la sua dichiarazione di sabato scorso rispetto all'impegno dell'Italia per garantire un carattere ebraico allo stato di Israele contenga in sé un'implicita giustificazione per ulteriori violazioni dei diritti dei profughi palestinesi o, addirittura, per una nuova pulizia etnica che cancelli i palestinesi rimasti in Israele dopo la catastrofe del 1948. ".
Tralasciando le fantasie sulla "nuova pulizia etnica" (che nessuno progetta e che non ha un precedente storico), ci associamo alla richiesta di chiarimenti. Quello di Prodi è un generico auspicio o il nostro presidente del consiglio è disposto a trarne le conseguenze politiche, opponendosi al "diritto" al ritorno dei profughi palestinesi e dei loro discendenti in Isralele? (rivendicato dai dirigenti palestinesi appunto con lo scopo di cancellare la maggioranza ebraica in Israele)
Di seguito, il testo completo dell'articolo di Rashid:
Un passo importante quello della Farnesina, che ha scelto una persona di grande competenza come rappresentante permanente a Beirut. È il segno del riconoscimento che la situazione è fluida e richiede un monitoraggio stretto e responsabile in vista del ruolo guida che il governo italiano assumerà per il Medio Oriente nei prossimi mesi. Per il quale non sono più sufficienti i tradizionali canali di comunicazione come le informative «indirette» al governo, e che fa assumere alla missione internazionale a guida italiana in Libano un carattere prevalentemente politico e diplomatico, aperto a evoluzioni che la realtà potrebbe imporre. Altrimenti sarebbe stato inviato qualche generale in più. Tutto questo avviene nel momento in cui l'amministrazione americana ha ormai messo a nudo la propria incompetenza e la mediocrità del suo presidente e dell'intera leadership repubblicana e il rapporto Baker-Hamilton dice che gli Stati Uniti hanno sbagliato tutto, consigliando una via d'uscita che oggi non esiste. Il rapporto giunge anche alla conclusione che è necessario affrontare, e di petto, i conflitti in atto in Medio Oriente, partendo dalla questione palestinese per arrivare agli altri territori arabi, in primo luogo Siria e Libano. La stessa conclusione del ministro degli esteri D'Alema molto tempo prima della guerra contro l'Iraq. Dopo 60 anni di guerre e destabilizzazioni alla ricerca di un falso equilibrio in Medio Oriente, finalmente gli artefici e sostenitori dello strumento militare scoprono che la guerra è ormai uno strumento obsoleto. Non si dichiarano esplicitamente sconfitti, ma restano prigionieri del loro disegno di dominio, dei cosiddetti interessi vitali e delle vecchie ambizioni su una regione che non fu mai immaginata a piena sovranità. D'altra parte, lungi dall'ammettere fallita la sua strategia e per tranquillizzare gli amici su una brusca virata della politica americana in vista di una qualche apertura, già ventilata, all'Iran, il vice presidente Cheney si è recato in Arabia Saudita. Il viaggio ha coinciso con l'uccisione del ministro Gemayel in Libano e un aumento della tensione che rende il preannunciato e necessario cambiamento dell'assetto di governo a Beirut - dopo l'aggressione israeliana di questa estate - più traumatico del previsto, anche se tutti gli indizi, politici e tecnici, di questo assassinio portano a una pista interna all'alleanza filoamericana. Sembra che una parte dell'amministrazione americana punti non a una «irachizzazione» della guerra in Iraq, ma piuttosto a una «arabizzazione» del conflitto in tutta la regione, in chiave anti-iraniana e anti-sciita. E' una strategia ancora più miope, perché allargherà ulteriormente il conflitto e porterà alla destabilizzazione del resto del Medio Oriente, malgrado siano finalmente mature le condizioni per una soluzione politica. È una partita drammaticamente aperta a tutte le possibilità, dove la sinistra deve pretendere di fare la sua parte, e la prossima visita in Italia del premier israeliano Olmert rappresenta un'occasione importante per ribadire la ferma richiesta di una soluzione politica che garantisca a tutti sicurezza nell'ambito di un quadro di legalità e non di sopraffazione. Sarebbe anche legittimo chiedere al Presidente del Consiglio se la sua dichiarazione di sabato scorso rispetto all'impegno dell'Italia per garantire un carattere ebraico allo stato di Israele contenga in sé un'implicita giustificazione per ulteriori violazioni dei diritti dei profughi palestinesi o, addirittura, per una nuova pulizia etnica che cancelli i palestinesi rimasti in Israele dopo la catastrofe del 1948. Sono sicuro che il Presidente Prodi non intendeva questo, ma quella frase andrebbe comunque spiegata perché rischia di danneggiare la politica italiana in una fase molto delicata ed è ora che si cerchi di aiutare i popoli della regione senza scambiare un utile pragmatismo con scorciatoie che non esistono. Ciò che si è messo in moto in Medio Oriente, a partire dall'irrisolta ferita palestinese e a seguire la guerra contro l'Iraq e la questione iraniana, è un meccanismo molto robusto e complesso, che non verrà risolto con le leggerezze del passato, perché l'intera regione sta cercando un'identità perduta e gli elementi etnici, nazionali e religiosi hanno sconfinato al di là delle linee rette che il vecchio colonialismo aveva stabilito come confini immutabili. Parlare in questo contesto di uno stato esclusivamente ebraico senza guardare cosa c'è dentro quello stato è commettere un'altra, grande ingiustizia ai danni dei palestinesi, senza dare agli israeliani alcuna possibilità di liberarsi dalla gabbia di schemi in cui sono prigionieri di se stessi.
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