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Il Foglio Rassegna Stampa
08.12.2006 Il piano Baker é pericoloso per Israele
mentre un piano saudita potrebbe gettare sul lastrico l'Iran

Testata: Il Foglio
Data: 08 dicembre 2006
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Carlo Panella
Titolo: «Sauditi alla riscossa - Baker fa pagare a Israele il prezzo di un gioco d’azzardo con Siria e Iran»
Dal FOGLIO dell'8 dicembre 2006 una rticolo di Daniele Raineri sulle strategie saudite per contenere l'egemonia regionale iraniana:

La prossima guerra sarà quella di difesa dell’Arabia Saudita contro l’Iran. Sarà una grande guerra, ma non sarà dichiarata in modo esplicito e brucerà senza far rumore su campi di battaglia altrui. Sul modello di quella durissima che fu combattuta tra le montagne dell’Afghanistan negli anni Ottanta da Pakistan, Stati Uniti, Gran Bretagna e Arabia Saudita contro l’Unione Sovietica. Si tratta di un confronto che comincerà tra poco, perché alla corte saudita il re ha paura dello strapotere degli iraniani e dei loro alleati. Vede la mezzaluna dei nemici sciiti, da Beirut a Baghdad a Teheran, ridere ostile sopra tutta la regione del Golfo persico. Vede in Libano Hezbollah assediare il governo legittimo e armarsi di nuovo con missili iraniani nel sud. Vede in Iraq un esecutivo senza armi davanti alle milizie filoiraniane e al massacro della minoranza sunnita. E soprattutto vede in Iran la rivoluzione khomeinista al punto più alto, spinta ancora più in avanti dalla promessa di un futuro atomico. Per capire quanta paura ha il re basta tornare al luglio scorso, allo scoppio della guerra dei 34 giorni tra Hezbollah e Israele. Il ministro degli Esteri saudita – quindi di uno stato arabo che non riconosce Israele e ne boicotta le merci – Saud al Faisal prese una posizione senza precedenti contro Hezbollah: “Dev’essere fatta una distinzione tra resistenza legittima e avventure irresponsabili cominciate da ‘elementi’ interni e da chi sta dietro di loro. Quegli ‘elementi’ irresponsabili devono assumersi la responsabilità di quello che hanno fatto e risolvere da soli la crisi che hanno creato”. Per una volta, pur di mandare un sibilo di minaccia al regime iraniano – che agisce tramite Hezbollah – il solito unanime fronte arabo contro Israele non si formò. Addirittura uno degli sceicchi più influenti d’Arabia, il wahabita Abdullah bin Jabreen, lanciò un editto religioso contro chiunque intendesse dare aiuto, o unirsi, o anche soltanto pregare per Hezbollah. Nella fatwa il religioso condannò pubblicamente le ambizioni imperiali dell’Iran che usa come copertura le azioni del Partito di Dio. Per capire quanta paura ha il re basta leggere i giornali arabi. Lo dice Abd al Rahman al Rashid: “I bersagli più probabili delle armi nucleari dell’Iran sono i paesi arabi del Golfo”. Lui è il direttore rispettato della rete satellitare più seguita in medio oriente – non è al Jazeera, è al Arabiya, finanziata dalla corte saudita – e lo scrive in un editoriale intitolato “Per queste ragioni abbiamo paura dell’Iran” pubblicato su Asharq al Awsat, che è il giornale in lingua araba più venduto nel mondo. Al Rashid continua: “L’Iran potrebbe decidere di non bombardare Israele, che dopotutto dispone di uno scudo di missili e di un’artiglieria nucleare capace di sradicare tutte le città iraniane. Vuol dire che, se quell’arma sarà usata, il bersaglio che ha sono i paesi arabi del Golfo”. C’è allarme anche su al Rayah, quotidiano del regno amico del Qatar. Abdal Hamid al Ansary inquadra la stessa minaccia: “Mentre tutto il mondo si sta preoccupando la regione del Golfo appare calma e tranquilla, come se la questione non ci toccasse. Invece siamo in grande pericolo. Eppure non stiamo alzando un dito”. Ofra Bengio, analista del Moshe Dayan Center di Tel Aviv, dice che non sarebbe sorpresa se in questo momento i paesi arabi stessero cercando di persuadere gli Stati Uniti a colpire le installazioni nucleari dell’Iran; o perlomeno li stessero rassicurando che, in caso di airstrike americano, saprebbero venire a capo dell’ondata di furore delle loro piazze, comunque preferibile alla minaccia iraniana. E non è un caso che il regno impaurito si stia armando e chiudendo dentro i propri santi confini. L’Arabia sta spendendo miliardi di dollari in elicotteri, mezzi corazzati e aerei americani, francesi e inglesi. Ha stanziato 12 miliardi di dollari per rafforzare la sicurezza, e per tenere fuori la faida violentissima tra i sunniti e gli sciiti in Iraq. Il principe-viceministro degli Esteri, Ahmed bin Abdel Aziz, ha annunciato due mesi fa la costruzione di una muraglia araba di 900 chilometri, che richiederà almeno sei anni di lavoro. Due alte barriere, e in mezzo una terra di nessuno di 100 metri, con visori ultravioletti, telecamere notturne con tecnologia di riconoscimento facciale, sensori di movimenti seppelliti nella sabbia e tanto filo spinato. A intervalli regolari ci saranno eliporti, posti di comando e torrette d’osservazione. Tutti gli spostamenti da e verso la terra di mezzo irachena passeranno forzatamente per 135 cancelli sorvegliati elettronicamente. Così, anche se la corte di Riad conserva i suoi squisiti formalismi – la settimana scorsa il viceministro del Turismo saudita, Mohsen Sheikh al Eshan, in visita in Iran ha invitato i sudditi a godere di quelle splendide bellezze naturali e artistiche (ma ai dignitari rimasti a palazzo si sono rizzati i capelli in testa quando il re ha citato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad come “nostro amico”: non più “nostro fratello”) – occorre non farsi ingannare. Forse i rispettivi ministeri del Turismo continueranno a scambiarsi reciprocamente tè e pasticcini a Teheran e a Riad. Ma dalla lotta uscirà fuori il prossimo “balance of power” di tutta l’area. L’Arabia Saudita pensa già a tre fronti. Il primo è l’Iraq. Lo ha spiegato fuori dai denti Nawaf Obaid, consigliere del principe-ambasciatore saudita negli Stati Uniti Turki bin Faisal, sul Washington Post di mercoledì scorso. Se i soldati americani lasceranno il campo, i sauditi interverranno subito nel paese. E’ il contropiano ideato dai sauditi opposto a quello della Commissione Baker-Hamilton: la “risposta Abdullah” al “soft withdrawal” (ritiro, ndr) dei realisti americani che abbandonerebbe le sorti dei sunniti nelle mani delle milizie sciite. L’azione più immediata: fornire agli attuali leader militari sunniti, soprattutto ex membri del partito Baath ed ex ufficiali del disciolto esercito di Saddam ormai in stracci – che però sono la spina dorsale della guerriglia – lo stesso tipo di assistenza in petrodollari, esplosivo e appoggio logistico che l’Iran fornisce da anni ai gruppi sciiti. Se i regnanti si sono trattenuti finora dall’intervento a protezione dei loro correligionari è stato soltanto per un solenne accordo stretto con il presidente George W. Bush: niente denaro e aiuti ai gruppi della guerriglia, perché potrebbero utilizzarli per ammazzare anche soldati americani. Una seconda opzione più a medio termine è la creazione dal nulla di nuove, agguerrite brigate di sunniti per rispondere colpo su colpo agli squadroni della morte di paramilitari filo Teheran. L’Iraq diverrebbe soltanto l’arena in sfacelo per conto terzi del confronto tra una grande monarchia araba e la Repubblica dell’est degli iraniani, rivoluzionari non arabi e sciiti. Contro di loro, il re ha un’opzione non convenzionale potentissima. Molto più di qualche altra brigata di incappucciati da aggiungere alla mischia irachena. Abdullah può allagare con il petrolio arabo il mercato internazionale. Può decidere di usare le proprie risorse petrolifere – è il primo esportatore al mondo – come un’arma strategica, come ha fatto Vladimir Putin con il gas della Russia. Così farebbe crollare il prezzo del greggio e taglierebbe all’Iran – che è economicamente debole anche adesso, pur con il greggio alle stelle – ogni possibilità di investire in milizie straniere quelle centinaia di milioni di dollari che spende a fondo perduto in Iraq, in Libano e altrove nel mondo. Scetticismo su questa opzione? I sauditi hanno già studiato per tempo quella che chiamano la “Strategic Energy Initiative”. L’Initiative è nata come un semplice piano d’emergenza, per assicurare al mondo quella continuità energetica a cui sono appese le sorti di tutta l’economia anche in caso di interruzioni di fornitura da parte di paesi produttori instabili come l’Iran, il Venezuela di Hugo Chávez, la Nigeria e l’Iraq. Ma i sauditi hanno capito presto di avere tra le mani una formidabile leva di pressione politica. “Già oggi l’Arabia – dicono dalla Saudi Aramco, la compagnia di stato che controlla tutto il petrolio – esporta quattro volte la quantità esportata dall’Iran, 8,5 milioni di barili al giorno contro 2,2 milioni. E può aumentare ancora la sua capacità di 1,8-2 milioni di barili”. L’Initiative saudita è così in grado di svalutare il prezzo del greggio di Teheran, di deprimere il suo potere economico e di vuotare le casse delle milizie sterminatrici che agiscono all’estero su mandato dei pasdaran. Manca ormai poco. La Fase uno, che durerà fino al 2009, permetterà all’Arabia – se e soltanto se fosse necessario – di rimpiazzare tutta l’esportazione di petrolio dell’Iran. E nei primi mesi del 2007, con l’apertura dei pozzi di Khursaniyah, arriveranno altri 500 mila barili al giorno. Poi, tra il 2010 e il 2012, la Fase due metterà i sauditi in condizione di estrarre la prodigiosa quantità di 13 milioni di barili ogni giorno, con ancora la capacità di incrementare di 3,5 milioni di barili al giorno. A questo va aggiunto che entro il 2017 – dice la prima edizione di dicembre di Business Week – le esportazioni iraniane di petrolio rischiano d’inaridirsi e crollare fino a zero. Al momento opportuno l’Arabia Saudita potrebbe torreggiare sul mercato come il genio della fiaba, pur di ridurre l’Iran alle dimensioni di un nano senza più denaro per le sue squadracce. A breve termine, il piano petrolifero saudita dà anche grandi vantaggi alla coalizione occidentale che fa pressioni per frenare il programma nucleare di Mahmoud Ahmadinejad. A corte sanno che l’Iran, se colpito dalle sanzioni delle Nazioni Unite a causa dell’arricchimento dell’uranio, taglierà in rappresaglia la sua produzione di petrolio. Il ministro degli Esteri iraniano già minaccia che “la prima conseguenza delle sanzioni sarà un aumento fino a circa 200 dollari al barile”. Sarebbe un colpo per l’economia mondiale, che già oggi soffre con un prezzo attorno ai 60 dollari. I sauditi garantiscono di poterlo parare: e stanno investendo, anche a questo scopo, 1,7 miliardi di dollari in nuove estrazioni e ricerche. Il secondo fronte dell’Arabia si apre in Libano. Come sul mercato del petrolio, l’Arabia tiene testa all’Iran anche nell’influenza politica esercitata sulla piazza di Beirut. Teheran ogni anno investe 100 milioni di dollari in denaro e armi per il Partito di Dio e tre settimane fa ha consegnato agli sciiti libanesi altri 300 milioni di dollari per riportare la loro capacità di fare la guerra a quella che avevano prima della scorsa estate, se non a un livello ancora più alto. Riad ha stanziato un fondo cinque volte superiore. Un miliardo e cinquecentocinquanta milioni di dollari per assistenza postbellica direttamente al governo democraticamente eletto di Beirut, che in questi giorni presidia il palazzo – i ministri dormono all’interno – contro Hezbollah. Un miliardo per reintegrare le casse esauste della Banca centrale del Libano e 550 milioni per ricostruire le infrastrutture distrutte nei bombardamenti. Intanto gli Emirati Arabi Uniti, un’altra monarchia sunnita, hanno appena fornito armi e automezzi ai nuovi undicimila soldati arruolati in fretta e furia dal governo libanese per mantenere l’ordine nelle manifestazioni. Gli arabi fanno anche molto conto sull’inchiesta per l’omicidio del premier libanese antisiriano Rafiq Hariri, avvenuto nel febbraio dello scorso anno. Due settimane fa le Nazioni Unite hanno deciso di istituire – decisione prontamente approvata dal governo del primo ministro libanese Fouad Siniora, nonostante le minacce di Hezbollah – un tribunale internazionale. Ora nei piani sauditi questo tribunale – per il quale si sono molto adoperati dietro le quinte della diplomazia – minerà inesorabilmente la forza del regime baathista in Siria. Sarebbe un colpo dato con i guanti, senza spargimenti di sangue e con ampio consenso internazionale, e avrebbe lo stesso la forza di rovesciare la situazione di assedio. Damasco sarebbe obbligata a rompere la collusione maligna con gli iraniani e a tornare nel cerchio dei paesi arabi. Senza l’appoggio della Siria, l’Iran, che oggi considera come suo manifesto destino diventare leader del mondo islamico, sarebbe costretto ad arretrare almeno almeno di un passo. Per adesso invece, per evitare all’ultimo momento che il presidente iracheno Jalal Talabani volasse a Teheran per colloqui d’intesa con l’Iran e la Siria, i comandi americani sono arrivati a sigillare l’aeroporto di Baghdad “per il coprifuoco”. Per ora, la mossa più inaspettata è l’allineamento che l’Arabia Saudita sta compiendo con Israele. Alla fine di settembre è uscita l’indiscrezione, poi ripresa anche dal Sunday Times, di un incontro riservato ad Amman, in Giordania, tra il premier Ehud Olmert e alti funzionari sauditi – quasi certamente uno dei consigliori più vicini a re Abdullah, l’ex ambasciatore negli Stati Uniti il principe Bandar bin Sultan – per discutere una silenziosa ma potente intesa fra Israele e le monarchie sunnite. Secondo fonti israeliane, a quell’incontro preliminare ne seguirà presto un altro. Vuol dire che certamente nei paesi arabi la retorica antiisraeliana non si sgonfierà, e quei governi, a parole, non smetteranno la loro posa ostile. Ma entrambe le parti si stanno correndo incontro, senza troppo darne pubblicità, per formare un nuovo fronte anti Teheran. Le conseguenze alla luce del sole saranno che Olmert, come ha già accennato in un recente discorso, prenderà in considerazione un piano dei sauditi, sponsorizzato quattro anni fa dalla Lega araba, per il riconoscimento di uno stato palestinese indipendente. Subito dopo arriverebbe un trattato formale di pace con sette paesi arabi: Arabia, Bahrain, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Tunisia (quattro di questi, Arabia, Marocco, Tunisia ed Emirati il mese scorso hanno annunciato l’inizio delle loro ricerche per il nucleare civile). La contropartita reale però non è ancora conosciuta.

Di seguito, un articolo di Carlo Panella spiega perché il piano Baker è un pericolo per Israele:

Roma. Damasco trionfa, Gerusalemme si preoccupa, Ramallah e Beirut s’interrogano: il rapporto Baker premia infatti in pieno la politica di padrinato al terrorismo di Bashar el Assad e propone esplicitamente che si paghi la collaborazione di Siria e Iran alla pacificazione dell’Iraq a spese di Israele, imponendogli una drastica diminuzione della sua sicurezza. L’unica merce di scambio da offrire a Damasco e Teheran nella trattativa auspicata, com’è ovvio, è la restituzione delle alture del Golan e la tolleranza nei confronti dei progetti nucleari iraniani. Ed esattamente questo Baker auspica, non dando segno di essersi accorto che oggi Damasco appoggia la piazza che tenta di abbattere il governo Siniora né che dal Golan restituito alla Siria i guerriglieri di Hezbollah e di Hamas saranno liberi di tirare razzi sulla Galilea sottostante. Quanto all’atomica iraniana e alla volontà di Ahmadinejad di distruggere Israele, il rapporto è confuso e predica soltanto pazienza. Mai nella storia, dopo Monaco nel 1938, la rivendicata politica di appoggio al terrorismo messa in atto da due stati (Iran e Siria) è stata legittimata e premiata da un atto ufficiale di una grande nazione, come in questo caso. Il rapporto tace sul punto, ma non si può certo chiedere a Bashar el Assad di aiutare gli Stati Uniti in Iraq e poi mandargli sotto processo il fratello e il cognato per l’uccisione di Rafiq Hariri; niente processo dell’Onu, quindi, e sostanziale via libera al nuovo governo libanese con diritto di veto a Hezbollah. Il tutto, all’insegna di un attaccamento alla propria biografia, perché questo rapporto replica esattamente lo schema che Baker attuò quando era segretario di stato di Bush padre, e regalò a Hafez el Assad il controllo del Libano e all’Iran la fine di ogni azione di contenimento. E’ lo schema classico della lobby del petrolio americana che dal 1947 a oggi vede con fastidio Israele – di cui tentò di impedire la nascita – e punta a un accordo a ogni costo con gli arabi. E’ una lobby trasversale che trionfò con Eisenhower e Carter, che fu più contenuta con Nixon e Reagan e Clinton, che fu sconfitta con Truman. Una lobby che ha addirittura inserito nel rapporto quel cenno al “diritto al ritorno dei palestinesi in Israele” che pure era stato spazzato via già dall’accordo di Oslo del 1993. Musica per le orecchie di Hamas. Questo rapporto è inconcludente, ma ottiene un risultato: squalifica agli occhi degli interlocutori mediorientali l’azione che Condoleezza Rice conduce da mesi – in raccordo con Ehud Olmert – per rafforzare Abu Mazen e isolare Hamas. L’offensiva di Hezbollah e Hamas dal Libano e da Gaza del luglio scorso, sommata al dinamismo iraniano, ha infatti spinto Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Kuwait ed Emirati – col discreto supporto della Turchia – a costruire un “fronte antisciita”, che si applichi nel punto in cui più forte è l’iniziativa avversaria: la Palestina. Abu Mazen ha così accumulato un forte consenso arabo alla sua imminente decisione di dimettere il governo Hanyeh, dopo il rifiuto di Hamas di riconoscere Israele. Lo stesso, identico schieramento fornisce il massimo supporto a Fouad Siniora e al fronte 14 marzo in Libano. Ora, però, Baker mostra al mondo che gli Stati Uniti sono divisi e che se Abu Mazen e Siniora decidono la prova di forza contro la pressione terrorista siro-iraniana, ci sarà sempre qualcuno a Washington che potrebbe svenderli. Uno schema irresponsabile, che replica l’errore già compiuto da Baker nel 1991, quando fece chiamare alla rivolta da George Bush padre gli sciiti iracheni e poi lasciò che Saddam li massacrasse. Allora Baker parve non essersi accorto che l’Urss era sparita e che quindi gli Usa e Desert Storm potevano liberamente prendere la tutela di un Iraq, impedendo l’espansione iraniana. Oggi, non si rende conto che l’asse del Jihad tra Teheran e Damasco ha ormai accumulato una massa critica da piccola “superpotenza islamica” e che è disposto a trattare solo sui tempi, non sul suo scopo strategico: distruggere Israele.

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