Dal FOGLIO del 6 dicembre 2006, un articolo che indica gli errori dei giornali italiani nel raccontare la politica americana, la strategia dell'amministrazione Bush e le fortune e sfortune politiche dei neocon.
Ecco il testo:
Milano. Quanti anni sono passati, cinque? Bene da cinque anni, ogni due o tre settimane, i giornali americani – e molto, ma molto di più quelli italiani – ci raccontano nell’ordine che George W. Bush sta per cambiare idea e che la cabala dei neoconservatori sta per chiudere bottega. Sono passati cinque anni e siamo ancora qui, Bush non cambia marcia e le idee dei neocon restano sempre l’unica strategia realistica possibile per sconfiggere l’ideologia dei terroristi islamici, resa a parte. Ieri è stato un giorno esemplare sotto questo punto di vista. Siamo alla vigilia della presentazione del famoso rapporto Baker sull’Iraq, lodato dalla stampa (e dagli anti Bush) come la ricetta realista da seguire per non restare impelagati in Iraq. Bush riceverà il documento oggi pomeriggio alla Casa Bianca, ma le ampie anticipazioni che hanno riempito i giornali in queste settimane (ritiro graduale dall’Iraq, addio ai sogni democratici e coinvolgimento di Iran e Siria) sono state rigettate in modo netto e chiaro dal presidente: “Unrealistic”, le ha definite Bush. C’erano pochi dubbi, ma Bush l’ha spiegato a Riga, in Lettonia, l’ha ripetuto ad Amman, in Giordania, e l’ha ribadito nel modo più chiaro possibile alla Fox: non cambia strategia, non si ritira dall’Iraq fin quando gli iracheni non saranno in grado di fare da soli, non parla con gli ayatollah atomici se non rinunciano alla Bomba. Ascolterà con attenzione i suggerimenti di Baker, cui un anno e mezzo fa ha dato il suo beneplacito e con cui ha collaborato alacremente, ma si fida molto di più dei suoi generali e dei leader democratici iracheni. Strategia ribadita ieri al Senato dal neosegretario alla Difesa, Bob Gates, il quale pare che la pensi in modo diverso – ieri ha detto: “In Iraq non abbiamo vinto” – ma promette di fare ciò che gli dice il presidente. Eppure i giornali americani annunciano che Bush cambierà strategia e quelli italiani che i neoconservatori sono morti per la sessantesima volta, seppellendo peraltro le persone sbagliate e senza aver mai dato la notizia che le 59 volte precedenti evidentemente devono essere risorti se sono ancora qui pronti a morire. Le copertine di questa settimana delle due principali riviste americane, Time e Newsweek, segnalano la schizofrenia nel cercare un cambiamento di strategia che Bush giura di non volere. La cover di Time annuncia che “l’Iraq Study Group dice che è l’ora di una exit strategy. Ecco perché Bush ascolterà”. Newsweek, invece, dice esattamente il contrario: “Convincere Bush ad ascoltare e a cambiare corso sarà molto difficile”. Corriere della Sera e Repubblica hanno raccontato, sempre ieri, la morte dei neoconservatori, questa volta impersonati da John Bolton e dalle sue dimissioni da ambasciatore americano alle Nazioni Unite. Peccato che Bolton sia un uomo di Dick Cheney e, semmai un ex collaboratore proprio del realista Baker, ma non è servito a niente. Bolton, in effetti, ha servito l’Amministrazione attuando le idee care ai neocon, ma ai nostri giornali sfugge che possa averlo fatto perché gliel’ha chiesto Bush. E, infatti, malgrado l’articolo di Alberto Flores D’Arcais fosse perfetto, Repubblica ha titolato: “Bush perde un altro neocon”. Niente rispetto al “neocon convinto” che gli affibbia il Corriere della Sera. Sul giornale milanese, in realtà, c’erano strafalcioni peggiori in questa assurda corsa italiana a etichettare e indicare al pubblico ludibrio la lobby dei cattivi, fatti fuori i quali il mondo tornerà pacifico. Non solo l’aver fatto entrare nel gruppo anche Donald Rumsfeld né l’aver definito “politico” uno come Lewis Libby che non s’è mai candidato a niente. Nella mappetta del Corriere, tra le riviste neoconservatrici ce ne sono anche una di sinistra, una paleo-conservatrice e una chiusa da tempo. Irving Kristol è diventato direttore di Commentary, anche se al massimo ne è stato caporedattore, mentre a suo figlio Bill sono stati tolti i gradi di direttore di Weekly Standard. Un altro segnale del tramonto dei neocon.
Gerusalemme. L’onda realista non porterà con sé George W. Bush. Ne è convinto Robert Kagan, analista e saggista neoconservatore, che, alla vigilia della pubblicazione dell’Iraq Study Group di James Baker e Lee Hamilton, spiega al Foglio: “Il presidente Bush è molto determinato e non ha alcuna intenzione di ritirarsi dall’Iraq. Non credo che Baker e i suoi colleghi abbiano in mente di consigliare un ritiro. Al contrario, sembrano decisi a raccomandare l’avvio di negoziati con Iran e Siria”. Kagan è contrario ai colloqui diretti, ma è convinto che non potranno comunque avviarsi in breve tempo. “Non ci sono possibilità concrete che Bush accetti un’eventualità di questo tipo. L’Amministrazione sta compiendo una revisione tattica nei confronti di Baghdad, ma non un mutamento strategico. Se gli Stati Uniti si ritirassero dall’Iraq, ci dovrebbero tornare dopo appena cinque minuti. Che sia al Qaida o qualche altro gruppo ad assumere il controllo di larghe parti del paese, come accadrebbe in caso di ritiro americano, il paese finirebbe in una situazione ancora peggiore rispetto a quella afghana. Se Washington si ritira e si verifica quanto appena detto, nessun presidente potrebbe dire: ‘Beh, è davvero una sfortuna che al Qaida abbia conquistato una base tanto ampia dalla quale può lanciare i suoi attacchi contro di noi’. Non avverrà nulla di tutto ciò”. Eppure sono in molti a credere che gli Stati Uniti siano sulla via dello smantellamento ideologico, soprattutto dopo la vittoria dei democratici alle elezioni di midterm. Ma Kagan è convinto del contrario: “Non ci sarà alcun cambiamento sostanziale nel nostro approccio alla guerra al terrorismo. Quando criticano Bush, i democratici non dicono: ‘Perché la definisci una guerra contro il terrorismo?’. Piuttosto sostengono: ‘Non combatti questa guerra in modo efficace. L’Iraq è stata una distrazione dalla vera battaglia, che era quella di smantellare al Qaida e portare a termine la missione in Afghanistan’”. A conferma della sua tesi, Kagan osserva che le spese americane per la difesa si oggirano attorno ai 500 miliardi di dollari l’anno, e aggiunge: “Un democratico avrà forse il coraggio di dire che è troppo? No, e persino Hillary Clinton chiede un aumento del nostro contingente militare, cosa sulla quale, come è noto, sono d’accordo”. Un cambiamento però Kagan se lo augura. Su Teheran. “Bush non ha fatto abbastanza per impedire agli iraniani di procurarsi armi nucleari”, dice. Ieri sera si sono aperti a Parigi i colloqui dei cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania – il cosiddetto 5+1 – per decidere su eventuali sanzioni. L’ultimo ultimatum da parte della comunità internazionale è scaduto alla fine di agosto, nel frattempo Teheran ha detto no a ogni richiesta sulla sospensione dell’arricchimento dell’uranio. Il caponegoziatore, Ali Larijani, ha ribadito ieri che il programma di ricerca per il nucleare sarà completato entro marzo e il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, ha ripetuto che ogni azione proveniente dall’Europa sarà considerata “ostile”. Secondo Kagan “i democratici faranno la parte dei falchi contro l’Iran”, come hanno già in parte dimostrato, ma a Parigi è continuato l’ostruzionismo da parte di Mosca, che vuole annacquare la bozza per le sanzioni. “Ciò che si definiva ‘l’occidente’ è così spaccato da farmi preoccupare, soprattutto ora che assistiamo a una rinascita di forme autoritarie in seno alle grandi potenze, come la Cina e la Russia”. Kagan, autore della famosa formula secondo cui l’Europa viene da Venere e l’America da Marte, ha appena pubblicato un altro libro – “Dangerous Nation: America’s Place in the World, from Its Earliest Days to the Dawn of the 20th Century” (Knopf, 2006) – dedicato al tema della potenza. In questo primo volume del suo studio sulla politica estera americana, Kagan smantella “il diffuso mito di un’America isolazionista e che reagisce soltanto se provocata”: “Gli americani sono consapevoli del fatto che la guerra può essere necessaria per raggiungere fini morali”. Sorride, Kagan: “Sono sorpreso dagli europei convinti che, non appena si sbarazzeranno di Bush, gli Stati Uniti torneranno al multilateralismo. A loro ricordo che è stato Bill Clinton a definire l’America ‘la nazione indispensabile’ e a essere accusato dai repubblicani per avere inviato truppe oltreoceano, per essere troppo arrogante e non abbastanza realista. La verità è che la politica di Clinton seguiva il tradizionale approccio statunitense nei confronti degli affari internazionali”.
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