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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.12.2006 Meglio tenersi Saddam e gli altri tiranni arabi
un'idea non proprio nuova, già fallita

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 dicembre 2006
Pagina: 29
Autore: Sergio Romano
Titolo: «I Bush e l'Iraq. Perché il padre fu meglio del figlio»

Rispondendo a un lettore sul confronto tra prima e seconda guerra del Golfo, e tra le politiche di Bush padre e Bush figlio, Sergio Romano, sul CORRIERE della SERA   del 4 dicembre 2006, argomenta l'opportunità di tenere al potere tiranni come Saddam Hussein, per mantenere la "stabilità" regionale del Medio Oriente e l'amicizia di "alleati" arabi dell'America e dell'Occidente come l'Arabia Saudita.

A sostegno di questa tesi, Romano cita i costi umani e politici della guerra in Iraq  e la crescente difficoltà di gestire la crisi del paese.

Ma in realtà la crisi in Iraq dipende soprattutto da errori tattici  americani (l'impiego di un numero insufficiente di truppe nel controllo del paese)  e dal perdurare dell'azione destabilizzatrice dei superstiti stati canaglia della regione (Siria, Iran... )

Mentre la politica dei rapporti  di mutuo rispetto   tra Occidente e tirannie  arabe, nel frattempo, ha prodotto l'11 settembre e costanti minacce strategiche (l'Iraq, dal 91 al 2003, ha appoggiato il terrorismo e ha impeganto più volte le forze armate americane).

Ed'è per questo che l'amministrazione Bush ha dovuto abbandonarla, adottando la strategia della democratizzazione del Medio Oriente.

Se quest'ultima incontra ora le difficoltàche conosciamo, non è un buon motivo per tornare a seguire una linea di condotta che ha già dato di sé una prova disastrosa.

Ecco il testo:


  
Durante alcuni scambi di opinioni fra amici sulla guerra in Iraq, il discorso è risalito alla prima guerra, quella cioè scatenata dall'invasione, da parte di Saddam, del Kuwait. Prima domanda: fu l'Onu a inviare l'esercito americano o l'America decise da sola?
Seconda domanda: gli americani nella vittoriosa corsa si fermarono mi pare a circa 40 km da Bagdad e si ritirarono nonostante le promesse fatte agli sciiti di spodestare Saddam.
Promessa non mantenuta che costò cara al popolo sciita, lasciato solo dopo che aveva accettato di dare un certo aiuto a Bush padre. Ebbene perché non conquistarono Bagdad? Nella compagnia c'è chi sostiene che fu il Congresso americano a fermare l'esercito, chi dice invece che l'impegno con l'Onu era solo quello di creare una fascia di sicurezza fra Iraq e Kuwait, chi invece, come me, afferma che non è mai stato chiarito il vero motivo. Addirittura, ho aggiunto, è apparsa tempo fa sul Corriere una notizia in cui si affermava che fu il presidente egiziano a pretendere lo stop. Lei conosce il vero motivo di tale decisione ?
Pierantonio Pedroni
Cremona

Caro Pedroni, la prima Guerra del Golfo fu una guerra dell'Onu, combattuta con l'approvazione e sotto l'egida della maggiore organizzazione mondiale. A differenza del figlio, Bush padre costruì pazientemente il grande meccano della diplomazia internazionale e riunì intorno agli Stati Uniti, nella coalizione, alcuni dei maggiori Paesi musulmani, dall'Arabia Saudita agli emirati del Golfo, dal Marocco all'Egitto, dalla Siria al Pakistan. La decisione d'interrompere l'avanzata dell'esercito americano sulla via di Bagdad fu presa (con un certo disappunto del comandante in capo generale Norman Schwarzkopf) dallo stesso presidente. Quando venne a Milano per la riunione del consiglio di amministrazione di una società americana, due anni fa, Bush sr incontrò alcuni giornalisti che gli chiesero il motivo della decisione. Rispose che questo era il desiderio dei Paesi alleati e in particolare dell'Arabia Saudita. Credo che gli amici arabi di Bush avessero ragione e che la scelta del presidente sia stata particolarmente saggia. Se avessero completato la conquista dell'Iraq e smantellato il regime di Saddam, le forze della coalizione avrebbero dovuto scegliere fra due opzioni: abbandonare l'Iraq agli oppositori del rais o restarvi il tempo necessario alla ricostruzione dello Stato. Nel primo caso sarebbe probabilmente scoppiata una guerra di successione irachena, nello stile di quelle che furono combattute in Europa durante il Settecento quando la fine di una dinastia suscitava le ambizioni di possibili successori stranieri. L'Iraq non è uno Stato nazionale. E' il risultato di un collage, voluto dagli inglesi dopo la Grande Guerra, nel quale convivono, spesso precariamente, tre grandi gruppi etnico- religiosi: sunniti, sciiti e curdi. I tre gruppi si sarebbero contesi il controllo delle ricchezze del territorio e i Paesi confinanti sarebbero entrati in guerra per estendere la propria area d'influenza o, più semplicemente, per evitare che altri Stati concorrenti approfittassero dell'occasione. Nel secondo caso, la forze d'occupazione avrebbero dovuto affrontare, per un periodo difficilmente determinabile, tutti i pericoli di una situazione terribilmente complicata. Ma sui rischi di una lunga occupazione non è necessario spendere molte parole. E' sufficiente guardare all'Iraq d'oggi, tre anni e mezzo dopo l'inizio delle operazioni militari americane, per giungere alla conclusione che la guerra del padre fu meglio di quella del figlio. Resta la questione sciita a cui lei fa riferimento nella sua lettera. Gli americani incoraggiarono gli sciiti a ribellarsi, ma non fecero, per quanto io sappia, promesse formali. La colpa di cui si macchiarono fu un'altra: quella di permettere a Saddam la repressione della rivolta dopo la conclusione dell'armistizio. Lo fecero perché temettero che gli sciiti sarebbero divenuti la quinta colonna dell'Iran e perché ritennero che l'integrità dello Stato iracheno, dopo la liberazione del Kuwait, fosse utile alla stabilità della regione.

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