Testata: La Repubblica Data: 04 dicembre 2006 Pagina: 40 Autore: Susanna Nirenstein Titolo: «Israele L´anima grande e straziata di un Paese molto speciale»
Dalla REPUBBLICA del 4 dicembre 2006:
Se c´è un Paese al mondo che può datare con esattezza la nascita della sua arte nazionale questo è Israele. La data è il 1906, anno in cui il Movimento sionista fondò a Gerusalemme, 42 anni prima della creazione dello Stato, l´Accademia di Arti e Mestieri di Bezalel, dal nome del decoratore del Tempio di Salomone. Poco tempo dopo nacquero l´università, l´orchestra, il Teatro nazionale... mettendo insieme un meccanismo unico, che vedeva nell´arte e la cultura le basi di Israele. Cosa ne scaturì, e quali vie seguirono gli artisti negli anni a venire è ora in mostra, per la prima volta in Italia, al Palazzo Reale di Milano (fino al 7 gennaio 2007) con "Israele/Arte e vita". Un´occasione da non perdere, anche se avremmo voluto forse più opere, più luce e un percorso non a ritroso ma in ordine cronologico per capire meglio e afferrare l´anima di un Paese tanto speciale. Le premesse comunque sono chiare, come ci dice accompagnandoci, Amnon Barzel, il curatore dell´esposizione: «L´arte è sempre una testimonianza del tempo, del luogo, della società in cui si sviluppa. Ma mai come in Israele riflette "in contemporanea" ogni paragrafo di quella storia segnata da momenti sempre cruciali, rispecchia la sua natura di paese occidentale circondato da uno spazio arabo, e dall´odio». Dunque siamo nell´Accademia di Bezalel nel 1906, in cerca dell´identità dell´ebreo nuovo che Theodor Herzl e i sionisti avevano in mente, un ebreo lontano dallo shtetl, dal suo buio e dalla sopraffazione subita per due millenni, tornato nella Terra dei Padri per prendere il destino nelle proprie mani, in uno spirito di sintesi tra spirito europeo, ebraico e le lontane radici orientali. Ne scaturirono tappeti, con Menorah e sfondi arabizzanti, ceramiche di pastori con il flauto in mano e il deserto sullo sfondo, vassoi e vasi intarsiati, ebrei vestiti come arabi a lavoro sulla terra, le belle litografie su Caino, Adamo ed Eva, Mosè di Abel Pann, il tutto con un forte accento liberty. Accento che pesa anche sui manifesti Come to Palestine di Zeev Raban, che sembrano scandire "vieni in una terra perfetta, quasi come l´Eden". Siamo dopo la Prima guerra mondiale, quando inizia un´ondata migratoria che porta in Eretz Israel soprattutto giovani socialisti sionisti provenienti dall´Europa orientale. Sono i ragazzi che dissodano la terra e fondano con passione i kibbutz. Molti furono gli artisti e gli scrittori che fecero parte di quei «battaglioni di lavoro», il cui obiettivo era ancor più chiudere i conti con la storia ebraica della diaspora e con la religione, mostrare un uomo "normalizzato", con una lingua propria, erede comunque della cultura dell´Antico Oriente. Era la seconda Alyah: «Negli anni Venti, dopo le nostalgie bibliche di Bezalel, si sognava» dice Barzel, «di diventare orientali: banditi i suoni dell´esilio dai quadri, arrivano luce, agrumi, arabi magnifici e muscolosi, e ebrei a loro somiglianti». Prendiamo Nahum Gutman che si stacca da Bezalel e inaugura insieme ad altri una nuova arte israeliana caratterizzata da forme massicce e primitive e dalle influenze parigine: scrive «Non vogliamo più dipingere vecchi in preghiera davanti al Muro del Pianto»; dipinge un bel giovanotto col fez e un flauto, paesaggi di verde e di deserto con contadini in vestiti arabi e no al lavoro, giardini solari con donne velate e treni sullo sfondo, sinagoghe e case abitate che sembrano moschee. Guardiamo Reuven Rubin, la sua donna araba è splendida e misteriosa: ha con sé una piantina gravida di promesse, o Israel Paldi con quei pescatori arabi e un paesaggio carico di cipressi che assomigliano alle guglie delle moschee, o ancora Siona Tagger e i suoi "landscape" modernisti pieni di fiducia nel futuro. Poi però cambia tutto. Col massacro ad Hebron di 67 abitanti ebrei nel ´29, cambia davvero tutto. Il miraggio idilliaco arabizzante si spezza. Il punto di riferimento torna ad essere l´espressionismo francese. E´ l´ora degli ambienti chiusi e dei concerti di Aharon Avni, dell´arte in nome dell´Europa, una tendenza determinata anche dall´arrivo dei tanti intellettuali ebrei dalla Germania nazista: i gessetti di Leopold Krakauer o le matite di Anna Ticho sono più figli di Dürer che dell´Oriente. Durante la guerra, l´arte viene messa da parte. I giovani si arruolano nella Jewish Brigade inglese per combattere i nazisti. «E´ con la dichiarazione dello Stato di Israele, nel ‘48, che si volta ancora pagina: il gruppo "Nuovi Orizzonti" dichiara che l´immagine culturale del nuovo Stato sarebbe stata quella dell´avanguardia internazionale» prosegue Barzel. Furono Yosef Zaritsky e il suo sapore kandinskiano, Arie Aroch, Yehezkel Streichman, le luminose tele di Yehiel Krize a rappresentarli. Per loro era importante liberare la pittura locale dal predominio dell´espressionismo, del simbolismo, del paesaggismo, dal decorativismo orientaleggiante ebraico. Scegliere l´astratto. Ma per altri la sottolineatura delle radici ebraiche è ancora importante: Mordechai Ardon, o gli oggetti dello shtetl che Yosl Bergner mette in scena, hanno questo significato. E così anche i nuovi immigranti dipinti da Avraham Ofek: due case nel deserto, una mucca, lei seduta, lui a torso nudo di fronte ai campi arati. I moderni figurativi, come Marcel Janco, guardano straziati la guerra d´Indipendenza, oppure, come Yohanan Simon, ritraggono amorevolmente il kibbutz, o le strade "melting pot" di Israele. E la Shoah? La Shoah è un tabù, più che in letteratura. Il paese è proiettato al futuro, non vuole piangere quel che è successo ai tempi della diaspora. Solo con gli anni Ottanta, si faranno strada i simboli dello sterminio per raccontare l´angoscia dell´oggi, un´ansia esistenziale che si imporrà con gli anni Novanta dopo gli Scud di Saddam su Israele, fino ai giorni nostri caratterizzati prima dal terrorismo suicida (che ha tutto un suo filone rappresentativo seguito da Merav Sodaey, Michal Heiman, Yoav Horesh, David Tartakover...), poi dai missili di Hezbollah e Hamas, infine dalle minacce nucleari iraniane. E´ un percorso unico che in Menashe Kadishman assume la forma del Sacrificio d´Isacco, come forma della vita stessa di Israele costretto a sacrificare periodicamente i propri figli per tenere in piedi l´edificio: è questo di cui parlano le infinite pecore di Kadishman che aprono la mostra milanese insieme alla sua installazione "Shalechet", 2500 teste di ferro per terra, pronte ad essere calpestate. Angoscia e forza di vivere: ecco quel che c´è nelle opere di questi ultimi anni: i nomadismi hightech quanto sperduti di Michal Rovner; le fotografie di Sharon Ya´ari dove i nuovi immigrati russi guardano perplessi gli spazi che andranno ad abitare; i campi coltivati che diventano una moquette o lo tzunami sempre in agguato di Gal Weinsten; la spirale di cocomeri che si apre nel Mar Morto, il mare senza vita per definizione, insieme alla sua autrice Sigalit Landau. Chiare anche le fotografie di Adi Nes, dove i soldati posano per un´Ultima Cena uguale a quella di Leonardo, chiare quanto l´ansia tra l´ieri e l´oggi che sta nel video Trembling Time di Yael Bartana dove, come ogni anno, il traffico si ferma mentre suona la sirena per i soldati caduti, così come nel giorno della Shoah.