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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
01.12.2006 Le menzogne di Hezbollah
riportate senza replica

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 01 dicembre 2006
Pagina: 0
Autore: Alberto Chiara
Titolo: «La polveriera del Libano»

Famiglia Cristiana nel numero 49 on line riporta un articolo di Alberto Chiara intitolato  “La polveriera del Libano”.

 

 

Ed in effetti il Libano sta vivendo momenti drammatici dopo il recente omicidio del cristiano maronita Pierre Gemayel, nipote di Bashir Gemayel a sua volta ucciso in un attentato nel 1982.

 

L’articolo però non è obiettivo. Il giornalista si sofferma sull’ amicizia che lega i musulmani e i cristiani, sull’accoglienza che le comunità cristiane hanno offerto ai profughi lo scorso luglio, sul ruolo che le stesse hanno nel tenere unito un popolo minacciato dai forti conflitti che si generano fra le diverse fazioni.

 

Tuttavia la statistica di ciò che “i bombardamenti israeliani hanno causato” avrebbe dovuto riportare, se l’intento fosse quello di fornire un’adeguata informazione, che sono stati gli hezbollah ad attaccare Israele e non viceversa.

 

Che erano sempre le milizie armate a nascondersi fra i civili e che i missili che colpivano Israele provenivano da tunnel celati fra le abitazioni inducendo così l’esercito, nel disperato tentativo di difendere i propri cittadini, a fare vittime innocenti.

 

Ciò che stupisce ancor più è che alle menzogne dello sceicco Ali Daamoush, responsabile Esteri di Hezbollah (“Non amiamo portare armi. Non amiamo combattere. Non amiamo la guerra” ) e alle sue richieste di rilascio di prigionieri libanesi, di ritiro da parte di Israele ecc.  non ci sia un commento del giornalista che evidenzi che lo stato ebraico si è ritirato nel 2000 dal Libano e ciononostante i missili hanno continuato a colpire le cittadine israeliane, che due soldati israeliani sono ancora nelle loro mani e che il popolo israeliano aspira solo alla pace ma che da anni lotta contro un nemico che vuole solo la sua distruzione.

 

Nel corso di una trasmissione televisiva un bimbo israeliano di otto anni il cui padre era stato colpito da un missile mentre cercava di mettere in salvo i suoi operai chiedeva: Perché noi chiediamo sempre scusa quando qualcuno muore ma loro non lo fanno mai?

 

Già perché?

 

Anche su questo andrebbero informati i lettori di Famiglia Cristiana.

 

Il pullman ha macinato 155 chilometri, da Sud a Nord. E solo per un grazie. Domenica 19 novembre una quarantina di sciiti di Touline, un villaggio a cinque chilometri da Israele, sono tornati là dov’erano stati accolti, profughi, lo scorso luglio: nella cattedrale di Santo Stefano, a Batroun. Erano scappati in cinquemila fin lassù, in quella diocesi. I cattolici maroniti avevano dato loro riparo, cibo, conforto. Musulmani e cristiani si sono abbracciati, ricordando l’angoscia di quei giorni, le due comunità amiche. Mohammed, 20 anni, studente universitario di Economia, ha letto versi di gratitudine che ha composto per chi, in nome di Cristo, gli aveva testimoniato «rispetto, carità, amore gratuito». È il Libano democratico e pluralista che oggi trattiene il fiato, sperando di non finire in frantumi. Tutto, però, lascia temere il peggio, come ben sanno i comandi delle forze di Unifil II (2.400 i soldati italiani schierati) che hanno aumentato la soglia di attenzione. Sepolto Pierre Gemayel, il giovane ministro dell’Industria assassinato a Beirut il 21 novembre, l’agenda rimane la stessa. E i problemi del Libano anche. Il confronto (che da un istante all’altro può degenerare in scontro) non si gioca tanto sul terreno religioso, tra fedi contrapposte, quanto sul campo squisitamente politico (antisiriani contro filosiriani) e su quello economico (controllo delle risorse per la ricostruzione; rilancio dell’economia). Da una parte ci sono le formazioni ostili a Damasco e a Teheran, su cui puntano francesi e americani, ovvero i sunniti di Hariri, i drusi di Jumblatt, i cristiano-maroniti di Gemayel e di Samir Geagea. A questo schieramento fa riferimento il capo del Governo, il sunnita Fouad Siniora. Dall’altro, ci sono Hezbollah, gli sciiti di Amal, i cristianomaroniti del generale Michel Aoun. A questo fronte si collega il presidente della Repubblica, Emile Lahoud.

 

La morte violenta del cristiano maronita Pierre, figlio di Amin Gemayel, ex presidente della Repubblica e nipote di un altro presidente, Bashir Gemayel, a sua volta ucciso in un attentato (nel 1982), è avvenuta in un momento già delicato di suo. A partire dalla fine di ottobre, infatti, la tensione è andata via via crescendo. Aerei israeliani hanno ripetutamente violato lo spazio aereo del Libano, arrivando a un passo dal provocare la risposta armata dei caschi blu francesi. Il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha dal canto suo esposto le richieste del "partito di Dio", per ottenere le quali sono state annunciate imponenti manifestazioni di piazza: Governo di unità nazionale, nuova legge elettorale, controllo congiunto dell’economia. Un modo per riscuotere il "dividendo" politico dell’accresciuto consenso, frutto della resistenza opposta quest’estate alle truppe di Israele.

 

Con dichiarazione inusuale, la Casa Bianca ha allora reso pubblica la sua "preoccupazione" a fronte «delle prove crescenti secondo le quali iraniani e siriani, Hezbollah e i loro alleati libanesi sono preparati a rovesciare il Governo Siniora». Il 2 novembre, il ministro della Difesa Elias Murr, ha dichiarato: «Ventimila uomini dell’esercito sono già nella capitale per prevenire ogni atto ostile contro le nostre istituzioni».

 

Infine, la questione del Tribunale internazionale che deve far luce sulla morte del premier Rafic Hariri, fatto saltare in aria con la sua scorta nel cuore di Beirut il 14 febbraio 2005: lo vuole l’Onu, lo vuole il Governo Siniora, lo temono i siriani (principali indiziati come mandanti di quello e di altri omicidi, compreso quello di Pierre Gemayel). Il presidente della Repubblica Lahoud ha invece annunciato di non voler controfirmare la legge che lo istituisce giacché, a suo avviso, il Governo Siniora che l’ha varata è illegale e incostituzionale, alla luce delle sopraggiunte dimissioni dei ministri sciiti che privano l’esecutivo libanese della rappresentanza di una parte importante della società civile.

 

«Ha ragione il Papa, quando parla di forze oscure che cercano di distruggere il Paese, invitando tutti i libanesi a non farsi vincere dall’odio», osserva padre Mounir Khairallah, 53 anni, parroco della cattedrale di Batroun, e sottosegretario del Sinodo patriarcale maronita. «In Libano coabitano 18 differenti comunità religiose, 12 cristiane, 5 musulmane più gli ebrei. Nonostante un passato segnato dalla guerra civile, rimaniamo un riuscito esempio di convivenza. Cristiani e musulmani studiano, lavorano e vivono insieme. C’è chi punta a trasformare il Libano in una confederazione con quattro cantoni omogenei, uno sciita, uno cristiano, uno druso, uno sunnita. E c’è chi, come la Chiesa cattolico-maronita (a partire dal suo patriarca, il cardinale Nasrallah Pierre Sfeir), intende difendere l’unità, la sovranità, l’armonica coesistenza delle diverse componenti».

 

Proprio le comunità cristiane e i loro pastori possono essere un prezioso ago della bilancia, coltivando il dialogo e mediando tra le parti in causa. È quanto confermano il vescovo latino di Beirut, monsignor Paul Dahdah, nonché i vescovi cattolico-maroniti di Tiro, monsignor Nabil Hajj, e di Sidone, monsignor Elias Nassar. «Il fatto di aver aperto quest’estate le nostre case, le nostre scuole, i nostri oratori a quanti scappavano, in maggioranza sciiti, ha stupito positivamente i musulmani, ha aumentato la nostra credibilità e ci dà qualche spazio di manovra in più», precisa monsignor Simon Atallah, arcivescovo cattolico-maronita di Baalbek, nella Bekaa.

 

Già, la guerra. I 34 giorni di bombardamenti israeliani hanno causato in Libano oltre 1.100 morti, per lo più civili, circa 4.000 feriti e 700.000 sfollati. I danni ammontano a 3,6 miliardi di dollari. Sono da recuperare o da ricostruire 130.000 abitazioni. Risultano danneggiati o distrutti oltre cento tra ponti e cavalcavia, compreso il viadotto di Sofar, lungo la strada che porta alla valle della Bekaa e alla Siria, il più alto del Medio Oriente. «Noi abbiamo aiutato tutti, indistintamente, distribuendo cibo, medicinali, acqua, gruppi elettrogeni», spiega Georges Massoud Khoury, direttore della Caritas libanese. «Abbiamo assistito 91.000 persone. Per la prima volta alcuni Paesi islamici (Emirati Arabi Uniti, Libia, Arabia Saudita) ci hanno consegnato generi di prima necessità affinché li consegnassimo a chi ne aveva bisogno. Ora pensiamo a sostenere, con piccoli interventi mirati, la difficile ripresa economica. A causa delle ostilità risultano bloccate o fallite 700 imprese, dalle grosse fabbriche al laboratorio artigiano; 4.000 i posti di lavoro persi. Per colpa degli ordigni inesplosi molti campi agricoli sono tuttora impraticabili».

 

Silvio Tessari, responsabile del Medio Oriente per la Caritas italiana, ha compiuto diversi sopralluoghi nei posti colpiti, specialmente nel Sud, nell’area di Marjaayoun, un lungo rosario di paesini semidiroccati. «Vogliamo aiutare la Caritas libanese che prevede interventi per 6.200.000 euro», afferma Tessari. «Finora, la Caritas italiana ne ha raccolti 300.000. Si può e si deve fare di più. Intendiamo cofinanziare anche quelle attività (seminari comuni, scambi culturali) volte a consolidare le ragioni di una convivenza oggi in Libano sempre più minacciata».

 

I gesti sono studiati: pochi e solenni. Le parole, scelte con cura. Lo sceicco Ali Daamoush è il responsabile Esteri di Hezbollah. «Gli italiani stiano tranquilli», esordisce. «Abbiamo dato il benvenuto alle forze Unifil. E continuiamo a darlo. Certamente le forze dell’Onu non devono interferire nelle questioni interne del Libano e devono scrupolosamente attenersi alla risoluzione 1.701».

 

«Non amiamo portare armi», prosegue. «Non amiamo combattere. Non amiamo la guerra. Abbiamo dovuto reagire all’invasione israeliana. Rivendichiamo il diritto all’autodifesa. Hezbollah nasce per questo. Potremo parlare del nostro disarmo quando Israele si sarà ritirato da tutto il territorio libanese, fattorie di Shebaa comprese, e quando avrà restituito i 15 tra prigionieri e caduti libanesi che ha ancora in mano, taluni da ben 30 anni. Sono in corso trattative indirette per la loro riconsegna a fronte della liberazione dei due soldati israeliani da noi catturati a luglio in un’operazione militare. So che in Occidente molti pensano, dicono e scrivono che siamo terroristi. Non è vero. Siamo un movimento di massa, che suscita vasti consensi in Libano. Non siamo eterodiretti. Chiediamo un governo di unità nazionale: cosa c’entrano Iran e Siria? Quello che abbiamo fatto e facciamo, l’abbiamo fatto e lo facciamo per il Libano, non per Teheran o Damasco. Ci teniamo all’unità del Paese e alla pacifica convivenza di chi vi abita, cristiani ed ebrei inclusi. Non vogliamo creare uno Stato islamico. Anzi, vogliamo rafforzare la diversità culturale e religiosa che fa del Libano un’esperienza originale, unica. Non colpiamo i deboli, gli indifesi e i civili. Siamo addolorati per i morti di Haifa, di Nazaret e delle altre città israeliane: era però una situazione di guerra. Siamo stati aggrediti. Ci siamo difesi. Noi non facciamo attentati. Non a caso siamo nel mirino di Al Qaida più di quanto lo siano gli occidentali».

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