Dal FOGLIO del 1 dicembre 2006, un articolo di Tatiana Boutorline:
Roma. “E’ bene che vinca una certa idea dell’Iran”, ha detto la settimana scorsa Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Già, ma quale? Quale Iran emergerà il 15 dicembre dall’elezione del Consiglio degli esperti (misterioso organo composto da 86 membri eletti a suffragio universale che ha potere di supervisione sulla guida suprema Khamenei)? Il principe della nomenklatura sa di essere, ancora una volta, il cavallo su cui punta il partito trasversale che con Teheran vuole dialogare. Ma questa per lui potrebbe essere l’ultima occasione. L’uomo per tutte le stagioni, il rivoluzionario, il businessman e il pragmatico che dalla metà degli anni Ottanta lancia l’amo della “normalizzazione” se non vince, stavolta, rischia di sparire. Il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, è sceso sul suo terreno. Rafsanjani continua ad annoverarsi come il rappresentante più credibile della politica estera iraniana. Eppure i riflettori sono tutti per il suo antagonista e gli equilibri custoditi dalla leadership potrebbero saltare con la vittoria dell’ayatollah Yazdi (referente ideologico e spirituale di Ahmadinejad) al Consiglio degli esperti. Una prospettiva che inquieta le cancellerie internazionali che scommettono su Rafsanjani e Ali Larijani, per allontanare lo spettro della “ahmadinejadizzazione”. Secondo il Financial Times in questa partita decisiva l’ayatollah Khamenei avrebbe offerto la sua preziosa investitura a Rafsanjani, ma le fonti iraniane sono più caute. discepoli dell’ayatollah Yazdi hanno rimesso in campo le forze che hanno garantito l’elezione di Ahmadinejad, il consigliere del presidente Mojtaba Samereh ha avuto l’incarico di vigilare sulle operazioni di voto e la coalizione pragmatico-riformista già mette in guardia sui brogli. In più la febbre elettorale non conquista gli iraniani. Prevale l’indifferenza riguardo al futuro del Consiglio così come nei confronti dei consigli municipali (il voto sarà lo stesso giorno). L’elezione dei consigli municipali, anche se prevista dalla Costituzione, è stata ignorata per anni fino a che Mohammed Khatami non l’ha riscoperta nel ’99 allo scopo di “dare voce alla società civile”. Ma come è accaduto per altri altisonanti slogan riformisti i consigli hanno deluso le aspettative. Secondo il quotidiano (riformista) Mardom Salari, soltanto il 20 per cento dei cittadini si dichiara soddisfatto dall’operato dei suoi rappresentanti locali. Il ruolo esercitato dai consigli è circoscritto ma significativo. Tra i suoi poteri ci sono l’attribuzione di permessi edili, la gestione dei parchi e dei trasporti, la responsabilità del decoro cittadino e dell’offerta culturale, questioni che influiscono sulla qualità della vita. E’ dal consiglio municipale di Teheran che Ahmadinejad ha iniziato la sua scalata con l’elezione a sindaco della capitale. Consapevole di quale trampolino di lancio quella poltrona possa rappresentare, tra le misure adottate per arginare le autonomie locali, nel quadro del suo programma di centralizzazione, Ahmadinejad ha voluto che la selezione del primo cittadino fosse una delle prime prerogative a cadere. Restavano più o meno intatti i consigli. Alle elezioni municipali i candidati di più incerto pedigree rivoluzionario avevano finora considerato con ottimismo il laborioso processo di selezione. Lo screening dei papabili non era in mano al rigido Consiglio dei guardiani, ma a una commissione parlamentare. Circostanza che in questi mesi ha spinto i riformisti a puntare alla dimensione locale per riconquistare terreno dopo la sconfitta alle presidenziali. Conscio di queste ambizioni di riscatto, Ahmadinejad non ha voluto correre rischi: la supervisione governativa è stata rafforzata da un comitato di monitoraggio capitanato da cinque fedelissimi legislatori. Così i riformisti sono stati squalificati in massa anche da questa competizione elettorale, tanto che persino l’ayatollah Taheri ha denunciato irregolarità nell’estromissione dei candidati riformisti di Isfahan. Il 29 novembre il quotidiano Sedaye Edalat titolava: “Il governo interferisce nelle elezioni”. Ma l’accusa non ha finora risvegliato l’interesse degli iraniani. La litigiosità delle coalizioni ha stancato gli elettori e se i riformisti partono svantaggiati, i conservatori non solo non hanno ricomposto la frattura tra tradizionalisti e fondamentalisti, ma l’hanno aggravata con il braccio di ferro tra gli uomini di Ahmadinejad e la fazione vicina all’attuale sindaco di Teheran, Mohamad Bagher Ghalibaf. Per conquistare in extremis l’attenzione degli elettori Ghalibaf, Rafsanjani e Khatami stanno mettendo in guardia gli iraniani. Rafsanjani, l’ex nemico pubblico numero uno dei giornalisti, ha criticato gli attacchi alla stampa e i progetti di segregazione negli ospedali e sui campus universitari. Paladino dei diritti delle donne lui che in un’altra vita diceva: “Le differenze nei cervelli di uomini e donne devono influire sull’attribuzione di responsabilità, diritti e doveri”.
E uno di Anna Barducci Mahjar:
Riad. Nei centri commerciali di Riad non è difficile trovare esposte fotografie di Rafiq Hariri, ex primo ministro libanese assassinato nel 2005. Le relazioni tra il paese dei cedri e l’Arabia saudita sono sempre state strette e continue. La popolazione saudita ama trascorrere le vacanze e i weekend a Beirut, fumando il narghilé e bevendo alcol, proibito nel regno, nei moderni night club della capitale libanese. Il regno wahabita ha, infatti, investito ingenti somme in Libano prima della guerra civile, durata dal 1975 al 1983. Con la fine degli scontri interni, inoltre, Hariri si rivolse nuovamente all’Arabia saudita perché continuasse a spendere nel paese, favorendo così la ricostruzione del Libano. “L’obiettivo di questi investimenti da parte saudita – spiega al Foglio Pierre Akel, dissidente antisiriano a Parigi – era soprattutto diretto a mantenere il Libano indipendente dall’influenza iraniana e di Damasco”. Con l’uccisione di Rafiq Hariri, però, l’Arabia saudita, baluardo del mondo sunnita, ha perso non soltanto un alleato contro l’asse sciita, ma anche, per la seconda volta, il denaro investito negli anni in infrastrutture servizi. “La morte dell’ex primo ministro, infatti, ha segnato un periodo di instabilità per il Libano – spiega Akel – che ha peggiorato la situazione economica del paese, influenzando anche il mercato azionario saudita”. L’ultima crisi mediorientale della scorsa estate, che ha avuto per attori Hezbollah, Siria, Iran e Israele, ha inoltre esposto l’Arabia saudita come il nuovo mediatore internazionale, schierato con gli Stati Uniti e le forze del 14 marzo. Il ministro degli Affari esteri saudita, Saud bin Faisal, ha infatti avuto parole dure contro gli Hezbollah, definiti come gli unici promotori delle violenze. “Il regno wahabita teme, infatti, un rafforzamento del potere di Teheran, rivale a livello politico e religioso, che sta utilizzando il Libano come uno dei suoi campi di battaglia – dice al Foglio Yigal Carmon, presidente del Memri – L’Arabia saudita spera, inoltre, di scongiurare anche eventuali tumulti nella parte orientale del regno, in cui vive una minoranza sciita, che potrebbe identificarsi con le vittorie di Hezbollah o essere messa sotto pressione da agenti iraniani”. L’assassinio di Pierre Gemayel, ministro dell’Industria, ha ulteriormente messo in allerta il regno wahabita, che pare abbia iniziato a finanziare con ingenti somme di denaro l’opposizione antisiriana a Beirut. La morte del giovane Gemayel e le ultime dichiarazioni degli Hezbollah, che hanno definito illegittimo il governo libanese e stanno per scendere in piazza per protestare contro il governo di Fouad Siniora, fanno infatti temere a Riad la possibilità dello scoppio di una nuova guerra civile nel paese dei cedri. “I dissidenti maroniti e sunniti a Parigi – racconta Akel – stanno già facendo i bagagli per tornare a Beirut e proteggere il paese nel caso che Nasrallah, leader di Hezbollah aiutato da Siria e Iran, cerchi di prendere il potere”. L’Arabia saudita, appoggiata dagli Stati Uniti, sta pertanto cercando di creare un’alleanza sunnita per fronteggiare l’influenza iraniana a Beirut e nella regione. Lo scorso 25 novembre, il re Abdullah, sposato con una libanese, avrebbe pertanto parlato con Dick Cheney, vicepresidente statunitense, delle possibili strategie contro Teheran e del coinvolgimento di mediazione di Giordania e Egitto sia in Libano sia in Iraq . Lo scorso mese, infatti, Turki al Faisal, ambasciatore saudita a Washington, timoroso di una presa di potere iraniana anche a Baghdad, ha dichiarato che dato che “l’America è andata in Iraq senza invito, non deve andarsene via senza che le sia chiesto”. George W. Bush, presidente americano, sembra per adesso seguire i consigli sauditi. Con il suo attuale viaggio in medio oriente pare stia cercando di aiutare la formazione di un’alleanza sunnita, guidata da Riad, mentre l’Amministrazione – secondo voci di corridoio nel dipartimento di stato – ha iniziato a fornire risorse alle forze del 14 marzo in Libano, per fronteggiare gli Hezbollah. L’Arabia saudita, nel frattempo, sta preparando una propria strategia per non abbandonare l’Iraq, in caso di ritiro delle truppe statunitensi. Secondo il Washington Post, infatti, Riad si sarebbe già messa in azione per finanziare leader militari sunniti e per stabilire brigate contro le milizie filo- iraniane. Il re Abdullah vorrebbe, inoltre, aumentare la produzione di greggio e diminuire il prezzo del petrolio per mettere in difficoltà economiche l’Iran, impedendole di finanziare gruppi terroristici nella regione.
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