martedi` 22 aprile 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



Clicca qui






Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.11.2006 Robert Fisk,il coraggioso reporter amico di Saddam, stimato da Bin Laden
ombre che neanche un articolo pieno di elogi può nascondere

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 novembre 2006
Pagina: 49
Autore: la redazione
Titolo: «Fisk reporter senza paura, tenero con Saddam»

Dal CORRIERE della SERA del 30 novembre 2006, un articolo sul libro di Robert Fisk "Cronache mediorentali"  e sulla figura del giornalista antisraeliano britannico.

Un po' troppo elogiativo, l'articolo non nasconde tuttavia alcune delle ombre di Fisk.

Ecco il testo:
  

U n giornalista dal campo. Anzi, di più. Innamorato del reportage sui fatti, pronto a tutto, anche a rischiare la pelle sul serio, pur di raccontare, verificare, vivere in diretta ciò di cui poi scriverà.
Robert Fisk afferma di detestare la definizione di «inviato di guerra». Ma, se in qualche modo esiste questa professione, certo lui ne è l'incarnazione più pura. Sin dai primi anni Settanta i suoi articoli, quasi sempre dal Medio Oriente o comunque legati alle sue tematiche, sono stati un punto di riferimento costante per chiunque si occupasse di quei soggetti.
Ma anche un reporter evidentemente schierato, pronto a spiegare le ragioni degli attentatori suicidi, a puntare il dito contro gli americani, a condannare Israele e cercare invece di sostenere le posizioni palestinesi e più in generale del mondo arabo.
Tanto schierato che nei primi anni Ottanta viene ostracizzato dalla direzione del «Times» di Londra per cui lavora e costretto a cambiare giornale per essere assunto da «The Independent», legato alla sinistra laburista. Questa è sempre stata la forza di Fisk. Che scrivesse da Beirut (dove risiede dopo aver lasciato l'Inghilterra trentenne nel 1976), dalle montagne afghane, da Gaza, dall'Iran o dal cuore dei campi di battaglia iracheni, sapevi in anticipo che sarebbe arrivata una staffilata contro quelli che con linguaggio genericamente neocon potremmo definire i difensori della «causa occidentale».
Tuttavia i reportage erano tanto dettagliati, le fonti talmente accurate, i fatti raccontati tanto certamente vissuti, che ben difficilmente potevano essere ignorati. Più facile non ascoltare Noam Chmosky, dalle aule del Massachusetts Institute of Technology, mentre con il livore ideologico dell'intellettuale impegnato se la prende con l'ennesimo embargo economico contro Cisgiordania e Gaza. Ma non si può restare insensibili alla miriade di testimonianze, pareri e voci raccolti da Fisk con anglosassone precisione.
Ecco perché è importante il suo nuovo libro pubblicato l'anno scorso in inglese e ora appena tradotto in italiano per i tipi del Saggiatore. Un tomo di ben 1.180 pagine grondanti sangue, violenza, torture di ogni tipo, stupri, odio, massacri: la biografia di un giornalista appassionato, ben consapevole che la cronaca in Medio Oriente, come del resto in qualsiasi altra parte del mondo, va sempre raccontata tenendo d'occhio la storia, il passato. Un must per qualsiasi aspirante reporter. Non solo per ciò che scrive per illuminare 40 anni di storia: fondamentali i capitoli sulla guerra oggi un poco dimenticata tra Iran e Iraq (quando Saddam era visto come il miglior alleato degli americani nella regione), i ricordi dell'Algeria terrorizzata dai tagliagole, i reportage in Afghanistan al tempo della guerra contro i sovietici.
Ma soprattutto un volume ricco di insegnamenti, un appello all'impegno etico per il lavoro di giornalista. Con la sua aria scanzonata, da eterno ragazzino con lo zaino sulle spalle, sempre pronto a partire per cacciarsi dopo poche ore nel cuore di battaglie e tensioni che lo tengono lontano da Beirut per mesi e mesi, Fisk ci dice, nel modo più semplice e diretto possibile, che nell'era di Internet, delle televisioni satellitari e dell'informazione globalizzata, il ruolo del testimone in presa diretta resta più importante che mai. E per questo ci si può anche fare male, senza tante storie. Lo sa bene quando lui stesso viene quasi linciato dalla folla pashtun presso Kandahar, l'8 dicembre 2001. Ma lo aveva già imparato a spese sue da almeno due decenni. Non crede ai giornalisti «in divisa» che marciano a fianco degli eserciti. Preferisce girare solo e con traduttori locali il più possibile fidati. E se ci si ferisce, se si muore? Pazienza, fa parte delle regole del gioco. «Mi vengono i brividi quando si comincia a blaterare sui traumi che comporta il raccontare la guerra per noi scribacchini ben pagati», scrive secco. Se proprio non vuoi rischiare puoi sempre andartene: è l'immenso, incommensurabile privilegio che distingue i giornalisti stranieri dalle vittime, civili e non, sui luoghi di conflitto. Se io voglio, scrive, «se mi stanco degli orrori che vedo, posso sempre fare le valigie e tornare a casa in business class, con un calice di champagne in mano».
Non mancano le ambiguità. Fisk ci racconta dei suoi tre incontri con Osama bin Laden tra il 1994 e il 1997. Allora il leader di Al Qaeda era ancora un personaggio minore nella galassia del fondamentalismo islamico, una figura nota per lo più solo agli addetti ai lavori. Ma già estremamente sospettoso dei giornalisti e dei kaffir, i non musulmani. Lui ottiene le interviste perché è ben accetto, considerato un amico dai circoli dell'estremismo musulmano. E non solo. Nello stesso periodo e più avanti, sino allo scoppio della seconda guerra del Golfo nel marzo 2003, i dirigenti baathisti a Bagdad lo ricevono come un alleato, gli concedono il visto senza problemi. E lui balla il loro tango. Racconta a scatola chiusa delle vittime delle bombe «all'uranio impoverito», spiega le sofferenze dei bambini iracheni malati di cancro e penalizzati dall'embargo internazionale. Uno dei temi preferiti dalla propaganda di Saddam. Molto meno parla però della corruzione del regime interna e nei confronti dei reporter stranieri, dei visti negati ai giornalisti «non graditi», del fatto che la nomenklatura legata alla Guardia repubblicana avesse pieno accesso a tutte le medicine possibili. Il suo racconto delle torture americane nel carcere di Abu Ghraib non fa una grinza. Ma dimentica che a denunziarle sono stati i maggiori media del Paese invasore

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera 


lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT