martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
30.11.2006 Dossier Iraq
le incertezze dell'amministrazione Bush, la figura di Moqtada Sadr e il ruolo dell'Iran

Testata: Il Foglio
Data: 30 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca - Carlo Panella - un giornalista
Titolo: «Il caos di Washington risuona in medio oriente ma Bush resiste - L’ultimo atto di forza di Sadr a Baghdad nasce dalle lotte a Teheran - Perché Moqtada è l’uomo più pericoloso e più preoccupato in Iraq»

Dal FOGLIO del 30 novembre 2006, un articolo di Christian Rocca sul caos della politica americana verso l'Iraq: 

Milano. Le poche cose certe sulla strategia americana in Iraq e in medio oriente sono che George W. Bush continua a parlare di promozione della democrazia senza cedere nemmeno di un millimetro e che dall’Iraq non ci sarà alcun ritiro o diminuzione delle truppe, semmai un probabile aumento del contingente americano. Per il resto si inseguono le voci più disparate, molte delle quali poi vengono regolarmente smentite dagli eventi reali. L’ultimissima è quella delle dimissioni di Philip Zelikow, dopo solo 19 mesi, da vice di Condoleezza Rice al dipartimento di stato, ufficialmente per ragioni familiari ma, secondo voci interne all’Amministrazione, per l’incompatibilità di vedute sulla politica mediorientale (e nordcoreana) della Casa Bianca. L’uscita di scena di Zelikow segnala la tendenza opposta a quella delle dimissioni di Donald Rumsfeld, visto che il vice di Condi Rice è l’unico esponente di primo piano dell’Amministrazione perlomeno scettico sulla dottrina Bush. La prima grande incognita della strategia americana, infatti, è quella del possibile ritorno al realismo, cioè a una politica più pragmatica e meno idealista che provi a trovare una soluzione, qualunque essa sia, per far uscire gli Stati Uniti dal pantano iracheno. L’idea di una politica estera fondata sulla ricerca costante dell’equilibrio tra poteri piuttosto che sulla chiarezza morale è tipica della tradizione della destra kissingeriana e pre reaganiana, ma oggi è diventata di gran moda dopo la sconfitta dei repubblicani alle elezioni di metà mandato del 7 novembre. C’è addirittura qualche liberal, come Jonathan Chait, che invita apertamente la Casa Bianca a rimettere Saddam al potere e poi tornarsene a casa. La confusione ideologica è ormai il tratto comune dei due partiti e cresce sempre di più il convincimento che la colpa della situazione in Iraq sia degli iracheni (Carl Levin e Evan Bayh, senatori democratici). Tutti guardano con attenzione e speranza ai lavori della Commissione indipendente sull’Iraq guidata dall’ex segretario di stato di Bush senior, James Baker. Il rapporto Baker ancora non c’è, ma è come se ci fosse, tanto è evocato. Baker cerca una soluzione condivisibile da tutti, ma sembra più interessato a risolvere il conflitto a Washington più che a Baghdad. L’ipotesi di lavoro si basa sull’abbandono dei sogni democratici in medio oriente e il coinvolgimento di Iran e Siria per fermare la violenza. Bush non è d’accordo, anche se le dimissioni di Rumsfeld e la sua sostituzione con un membro della Commissione Baker come Robert Gates sono sembrate il sigillo alla svolta. Senonché sono accadute altre cose, quasi tutte di segno opposto. Intanto le dimissioni di Zelikow, ma anche la riconferma di John Bolton, l’ambasciatore all’Onu ed esponente della linea dura bushiana contro le centrali del terrore. I sostenitori del ritorno al realismo avevano previsto la fine dell’era Bolton, ma Bush lo ha rispedito al Senato per la conferma. Due anni fa Bolton non era riuscito a ottenere il voto favorevole e Bush s’era appellato a uno stratagemma costituzionale per nominarlo mentre il Congresso era in ferie. L’incarico di Bolton scade a gennaio e, in caso di mancata conferma, Bush potrebbe confermarlo ancora una volta sfruttando la chiusura natalizia del Congresso. Il problema è che quando un ambasciatore viene nominato due volte col Congresso in recesso non può ricevere lo stipendio dalle strutture federali, sicché in alcuni circoli conservatori c’è già chi ha proposto di organizzare una colletta. Al vertice della Nato in Lettonia, Bush ha ribadito che l’America “continuerà a essere flessibile” e che farà “i cambiamenti necessari per raggiungere gli obiettivi” ma – ha specificato – “c’è una cosa che non farò: non ritirerò le truppe dal campo di battaglia prima che la missione sia completata”. I discorsi di Bush insistono sul fatto che “gli estremisti usano il terrorismo per fermare la diffusione della libertà, alcuni di loro sono estremisti sciiti, altri sunniti, ma rappresentano facce diverse della stessa minaccia”. Se questi estremisti indeboliscono, ha ripetuto Bush, “le fragili democrazie e a cacciare le forze di libertà dalla regione, avranno campo aperto per perseguire i loro obiettivi”. Detto questo, ieri il New York Times ha pubblicato un memo segreto in cui il consigliere della Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, descriveva il premier iracheno al Maliki come inefficace e inaffidabile. Improvvisamente il vertice di ieri sera ad Amman tra Bush e Maliki è stato spostato a oggi, non si sa bene se per effetto della rivelazione del Times o se in seguito alla minaccia di Moqtada di ritirare i ministri dal governo nel caso il premier iracheno avesse incontrato Bush. Da una parte, dunque, ci sono le parole, discorsi, la dottrina di Bush e dall’altro c’è una politica e una realtà che spesso non coincidono con le enunciazioni ufficiali della Casa Bianca, tanto che Rich Lowry, il direttore della rivista iperconservatrice National Review, è arrivato a chiedersi se Bush sia davvero il comandante in capo, oppure se abbia delegato tutti i compiti operativi ai suoi consiglieri, militari e politici, che poi fanno di testa propria. David Frum ha notato che proprio mentre Bush parlava di democrazia e libertà in Lettonia, il New York Times citava alti funzionari dell’Amministrazione pronti ad affidare il destino del medio oriente ad autocrati arabi e iraniani. Il Los Angeles Times e il Christian Science Monitor di ieri, invece, si sono convinti che Bush non cambierà strategia, non aprirà a Siria e Iran e non abbandonerà la sua freedom agenda. Il gran capo degli opinionisti neoconservatori Bill Kristol ha ribadito Newsweek il concetto che “Bush è l’unico neocon al potere, anzi la verità è che c’è sempre stato soltanto Bush”. Eppure il senatore repubblicano Chuck Hagel, noto per la sua opposizione a Iraq Freedom e grande sodale di Colin Powell, crede si siano aperti spazi concreti per una sua candidatura presidenziale, un’ipotesi che prima di mid-term sembrava irreale. Ma a ogni notizia che sembra certificare il cambiamento del vento ne segue subito un’altra: Robert Gates, in teoria un realista, alle domande dei senatori che dovranno confermare la sua nomina al Pentagono ieri ha spiegato il suo sostegno alla dottrina Bush, al diritto alla guerra preventiva e alla decisione di invadere l’Iraq, criticandone semmai l’esecuzione: “Lasciare l’Iraq nel caos avrebbe conseguenze pericolose per molti anni”, ha detto Gates.

Sempre dal FOGLIO, un articolo di Carlo Panella su Moqtada Sadr

Roma. Moqtada al Sadr ieri ha ordinato ai trenta parlamentari e ai cinque ministri legati al suo movimento di “sospendere” le loro funzioni per protesta contro l’incontro ad Amman tra il premier iracheno, Nouri al Maliki, e il presidente americano, George W. Bush. E’ stata una massa obbligata, perché Moqtada sa che Bush vede Maliki oggi – e non ieri sera come previsto – dopo che per un mese la Casa Bianca ha fatto pressioni sul governo iracheno perché cessasse di tollerare le attività terroristiche che le sue milizie sviluppano per aggravare il conflitto tra sciiti e sunniti, soprattutto dopo che ieri il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha scritto una lettera a Bush in cui diceva che gli americani devono lasciare l’Iraq e smetterla con le loro bugie. Nonostante le continue smentite di Moqtada è chiaro all’intelligence americana che buona parte dei sunniti massacrati dopo la provocazione dell’attentato al mausoleo sciita di Samarra, il 22 febbraio scorso, sono opera proprio dei suoi miliziani delle Brigate del Mahdi. Moqtada Sadr dunque, è di nuovo al centro della crisi irachena, con una netta differenza rispetto al recente passato. Mentre fino a pochi giorni fa le forze politiche sciite maggioritarie – il Dawa dello stesso Maliki e lo Sciri di Abdulaziz al Hakim – ritenevano di averlo recuperato al processo democratico, ora ammettono, per bocca dello stesso premier, che “lo scontro in atto nel paese è il riflesso di uno scontro interno alle forze politiche”. In realtà non sarà facile né per Maliki né per le forze americane obbligare Moqtada a rientrare nei ranghi. La frammentazione delle sue forze, la certezza che siano ormai divise in più fazioni, il crescendo delle sue esternazioni verbali sempre più minacciose delineano un quadro complesso, in cui si comprende soltanto che la sua leadership sui miliziani è sempre più incerta e che ormai quello che pesa sono gli ordini che giungono ai vari capi fazione che comandano quelle Brigate del Mahdi da questa o quella fazione del regime di Teheran. Gli ayatollah iraniani sono oggi dilaniati da una sorda lotta intestina che presenta tutti i sintomi di una resa dei conti. Le elezioni del 15 dicembre per il rinnovo del Consiglio dei guardiani – la potente struttura che affianca la guida della rivoluzione Khamenei nella gestione del potere teocratico – segneranno il prevalere definitivo di una fazione sull’altra. Sono l’occasione in cui la componente oltranzista, guidata dall’ayatollah Ahmad Yannati (appoggiato dall’ayatollah Mesbah Yazdi, suocero di Mahmoud Ahmadinejad), tenterà di emarginare completamente non soltanto la componente riformista rappresentata da Mehdi Karrubi, già sconfitta, ma anche quella “centrista” rappresentata dal realpolitiker Ali Akbar Rafsanjani. Una volta estromesso quest’ultimo e i suoi uomini dal Consiglio dei guardiani, il blocco oltranzista di Yannati, alleato con l’apparato militare dei Pasdaran e dei Bassiji rappresentato da Ahmadinejad, avrà mano libera per occupare tutti i posti di potere nel paese e sviluppare la sua strategia aggressiva, in cui la pedina più importante è oggi il progetto atomico e il controllo su Hezbollah libanese. Dal 2003, Moqtada Sadr rappresenta il terminale iracheno del blocco oltranzista iraniano che oggi punta a incancrenire la crisi del governo di Baghdad, indebolendo così non soltanto la presa americana sul paese, ma anche la leadership religiosa del grande ayatollah iracheno Ali al Sistani, discreto, ma autorevole tutore del governo di al Maliki. Il blocco oltranzista iraniano di Yannati-Khamenei-Ahmadinejad soffre molto l’enorme prestigio religioso di al Sistani, titolare della Marjia di Najaf, in assoluto la più prestigiosa di tutto il mondo sciita. E al Sistani, dal 1979 in poi, è stato ed è il più fiero avversario della visione dell’islam dell’ayatollah Khomeini e dei suoi eredi, ha sempre avversato la Costituzione imposta da Khomeini all’Iran e ha ispirato una Costituzione irachena democratica, alternativa a quella iraniana. Quattro giorni dopo la caduta del regime di Saddam, il 13 aprile 2003, i padrini iraniani di Moqtada al Sadr, attraverso la sua guida spirituale, l’ayatollah oltranzista Kadum al Hairi, lo inviarono ad assediare la casa di al Sistani a Najaf, ordinandogli di fuggire dal paese se non voleva morire. Minaccia credibile perché lo stesso Moqtada Sadr – sempre ispirato da Teheran – tre giorni prima aveva fatto uccidere a colpi di roncola a Najaf l’ayatollah Majid al Khoei, altro avversario storico degli ayatollah iraniani, dotato di grande prestigio in Iraq e amico personale di Tony Blair, durante il suo esilio a Londra. Un anno dopo, il 5 maggio del 2004, sempre ispirato da Teheran, Moqtada Sadr ha “scomunicato” al Sistani e ha scatenato una “insurrezione sciita”, apertamente appoggiata dall’ayatollah Khamenei, che si concluse con una sconfitta dopo scontri fratricidi tra sciiti a Najaf e l’occupazione sacrilega del mausoleo di Ali. Al Sistani, in quell’occasione, conseguì una forte vittoria politica, ma Moqtada Sadr non fu travolto dalla sconfitta della sua mossa avventurista. Privo di qualsiasi prestigio teologico (è solo un mullah), ma forte della discendenza da Bagher al Sadr (suo zio) grande ayatollah alleato di Khomeini nel 1979 e di suo padre Sayyed (grande ayatollah ucciso da Saddam nel 1999), Moqtada controlla Sadr city, l’enorme sobborgo sciita di Baghdad e le periferie di Kufa e Najaf. Basato sui proventi del contrabbando, del traffico di armi e di valuta, l’impianto sociale e politico di Moqtada è quello di un ras, a metà tra Masaniello e il bandito Giuliano. Dopo la sconfitta della sua insurrezione, Moqtada ha dovuto accettare di partecipare al processo politico e alle elezioni (ottenendo un 15 per cento dei voti) e ha inviato cinque “indipendenti” nel governo. Oggi però, il regime di Teheran intende imporre all’America un suo ruolo di “dominus” della crisi irachena e scatena i suoi terminali iracheni nella spirale dei massacri, nell’evidente intento di usare anche questa carta sul tavolo del braccio di ferro sul nucleare. Oggi Moqtada, forse, non controlla più il suo stesso gioco, e il suo ruolo non è quello del protagonista, ma soltanto quello del comprimario, se non del sicario.

Di seguito, un ritratto dell'"uomo più pericoloso in Iraq":

L’uomo più pericolo in Iraq”, secondo la copertina di Newsweek, la “scimitarra” degli sciiti, il “capo di una banda di delinquenti”, per la Casa Bianca, sono solo alcune delle definizioni coniate per Moqtada al Sadr, l’enigmatico leader degli estremisti sciiti che pescano consensi nella strato più povero della popolazione. Ieri Moqtada ha messo a segno un altro dei suoi colpi a effetto sospendendo i suoi ministri dal governo di Nouri al Maliki, che l’aveva spuntata come premier per un solo voto, quello del giovane Moqtada al Sadr. La mossa destabilizzante, che prevede anche l’autosospensione dei parlamentari sadristi, è la reazione all’incontro in Giordania fra Maliki e il presidente americano George W. Bush Trentatré anni, Moqtada deve la sua fama alla figura leggendaria del padre, l’ayatollah Mohammed Sadiq al Sadr, sodale di Khomeini, ucciso dagli sgherri di Saddam. In realtà il giovane erede, a livello teologico, è solo un prete islamico di campagna, che molti chiamano “zatut”, “bambino ignorante” o mullah Atari, perché sembra che gli piaccia giocare con i videogame. No nostante ciò Moqtada ha messo in piedi una potente milizia, l’esercito del Mahdi, che è in grado di mobilitare 20 mila uomini in caso di necessità, anche se ne sta perdendo in parte il controllo. Ha quattro ministri nel governo e una trentina di parlamentari che fanno riferimento al suo movimento. I miliziani del Mahdi sono 7 mila nella sola Baghdad, annidati nella roccaforte di Sadr City, un sobborgo povero della capitale dove vivono due milioni di sciiti. I sunniti accusano gli scagnozzi di Moqtada di aver organizzato delle squadre della morte per rapire, torturare ed eliminare i nemici. Almeno 200 moschee e 260 imam, i religiosi sunniti, sarebbero finiti nel mirino dell’Esercito del Mahdi, ma a Baghdad spariscono anche 100 persone al giorno di tutte le etnie. Moqtada tende a prendere le distanze dalle vendette settarie più efferate, ma la verità è che nemmeno lui controlla i suoi uomini. I miliziani soAl Sadr, la fazione manipolata dai servizi iraniani e i delinquenti comuni che rapinano e saccheggiano utilizzando il paravento del Mahdi. Lo scorso settembre sei comandanti della milizia, compreso il famigerato Abu Dera, accusato di stragi dei sunniti, si sarebbero staccati dal movimento sadrista, considerandolo troppo moderato. Moqtada è talmente preoccupato che lo scorso mese ha licenziato 41 esponenti di rilievo della milizia e nelle ultime due settimane ha fatto circolare una lettera in cui accusa una decina di suoi importanti sostenitori come sospetti agenti di Teheran. I servizi speciali dei pasdaran hanno messo in piedi un centro formato da 30-40 operativi a Najaf per dar man forte all’esercito del Mahdi e gli hezbollah libanesi hanno addestrato un migliaio di miliziani sciiti. Gli iraniani hanno fornito trappole esplosive sempre più sofisticate ad alcune frange dell’esercito del Mahdi, che le hanno utilizzate contro gli inglesi a Bassora e probabilmente ai danni degli italiani a Nassiriyah. Moqtada si presenta come un nazionalista, contrario al federalismo voluto dagli alleati no divisi in tre tronconi: i fedeli di Al Sadr, la fazione manipolata dai servizi iraniani e i delinquenti comuni che rapinano e saccheggiano utilizzando il paravento del Mahdi. Lo scorso settembre sei comandanti della milizia, compreso il famigerato Abu Dera, accusato di stragi dei sunniti, si sarebbero staccati dal movimento sadrista, considerandolo troppo moderato. Moqtada è talmente preoccupato che lo scorso mese ha licenziato 41 esponenti di rilievo della milizia e nelle ultime due settimane ha fatto circolare una lettera in cui accusa una decina di suoi importanti sostenitori come sospetti agenti di Teheran. I servizi speciali dei pasdaran hanno messo in piedi un centro formato da 30-40 operativi a Najaf per dar man forte all’esercito del Mahdi e gli hezbollah libanesi hanno addestrato un migliaio di miliziani sciiti. Gli iraniani hanno fornito trappole esplosive sempre più sofisticate ad alcune frange dell’esercito del Mahdi, che le hanno utilizzate contro gli inglesi a Bassora e probabilmente ai danni degli italiani a Nassiriyah. Moqtada si presenta come un nazionalista, contrario al federalismo voluto dagli alleati di Teheran e deciso rivale del Supremo consiglio della rivoluzione in Iraq (Sciri), il più forte partito sciita. La brigata Badr, la milizia dello Sciri che conta su 5 mila uomini in armi, si è scontrata più volte con i miliziani del Mahdi. A Bassora il premier ha dato l’ordine di passare per le armi i miliziani del Mahdi colti con armi in pugno. La faida fra sciiti è ancora più pericolosa tenendo conto che il ministero dell’Interno è infiltrato dai miliziani delle opposte fazioni, che possono contare su 40 mila agenti a loro fedeli. Sullo sfondo, la preguerra di successione che si potrebbe profilare a causa della malattia del grande ayatollah Alì al Sistani, massima autorità sciita in Iraq. Lo Sciri vuole imporre il suo candidato, Saeed Al Hakim, zio del capo del partito, mentre Sadr punta sul suo maestro iraniano, Khadum al Hairi. Sempre più spesso, i miliziani del Mahdi pretendono il pizzo da commercianti o famiglie non allineate. Moqtada sa che il suo estremismo gli ha causato molti nemici. In una recente intervista a Repubblica ha ammesso: “Sono in troppi a volere la mia pelle”. (fb)

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT