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Giorgio Israel
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La crisi strategica di Israele 09.11.2006

Per una breve stagione, dopo il ritiro da Gaza, è sembrato che qualcosa cambiasse; che il mondo guardasse più benevolmente Israele; che ne capisse le ragioni e, in particolare, l’assurdità di creare uno stato palestinese governato da un movimento terrorista che nega il diritto all’esistenza di Israele. Oggi questo clima positivo è in frantumi e Israele fronteggia una condizione esterna e interna drammatica. Nello stesso giorno (20 ottobre) in cui Ahmadinejad intimava all’occidente di “prendere nel suo interesse le distanze da uno stato che ha perso la ragione della sua esistenza”, aggiungendo “questo è un ultimatum”, il governo francese rompeva un tabù storico, dichiarando per bocca del presidente Chirac e del ministro della Difesa che ai sorvoli di Israele sul Libano doveva essere posto fine “in un modo o nell’altro” e che, se i mezzi diplomatici non fossero bastati, si sarebbe fatto ricorso ad “altri mezzi”. Dunque l’Europa profila la possibilità di un confronto militare con Israele: a tanto siamo giunti. Mi si perdonerà l’autocitazione se dico che la previsione fatta su queste pagine (12 settembre) circa la natura perversa della “trappola Unifil” si è purtroppo avverata puntualmente. Oggi Israele è messo in pericolo da una missione fallimentare che serve da paravento al riarmo di Hezbollah e al crearsi di una tenaglia iraniana tutt’attorno, mentre non una delle condizioni previste dalla risoluzione 1701 è ottemperata: non la “liberazione incondizionata” dei soldati rapiti, non il “disarmo dei gruppi armati”, non l’esercizio esclusivo dell’autorità e la detenzione esclusiva delle armi da parte del governo libanese. Intanto piovono missili su Israele da Gaza, che si trasforma in un territorio gestito sul modello Hezbollah, senza che nessuno deplori. Nella reazione israeliana cadono tragicamente dei civili creando un clima alla Sabra e Shatila, ma con una differenza: la fragilità esterna e interna di Israele, investito da una crisi di orientamento politico e militare senza precedenti, con un ministro che chiede scusa, un altro che ribadisce la linea fin qui seguita e un terzo che blocca le operazioni militari. Che succede? Come è potuto accadere che Israele si sia cacciato in luglio in una campagna militare condotta in modo incerto e fluttuante, ricorrendo dapprima soltanto all’arma aerea e concludendola con un’offensiva che ha prodotto perdite e nessun vantaggio diplomatico? Come è potuto accadere che Israele abbia accettato di entrare nella trappola Unifil e che il suo governo, pur non ricavandone altro che la prospettiva di una nuova guerra, continui a ringraziare chi ha costruito la trappola? Come può accadere che Israele continui a non trovare il bandolo della matassa tra diplomazia e opzione militare e non riesca a definire una linea di azione univoca guidata da un governo di emergenza nazionale che renda chiaro al mondo che sta lottando per la sopravvivenza contro un nemico che ha come unico scopo di distruggerlo? La risposta l’ha data un giornalista di Haaretz, Ari Shavit, con una magistrale autocritica condotta da sinistra (“L’illusione della normalità”). E la risposta è: “Il politicamente corretto coltivato per vent’anni da un’intera generazione di dirigenti israeliani”. Israele – dice Shavit – ha finito col credere che l’occupazione dei territori sia la causa di tutti i mali e che la sua potenza sia un fatto acquisito. La spesa militare è stata ridotta e il patriottismo deriso. “Nel mondo ideale del politicamente corretto, “forza” ed “esercito” sono diventati parolacce”. “Mezzi d’informazione e intellettuali hanno portato avanti un paziente lavoro di logoramento ai danni del nazionalismo e del sionismo… istillando la pratica suicida della critica dei fondamenti esistenziali” della nazione. Israele è un frammento di occidente che vive in un contesto ostile: perdere la consapevolezza di uno di questi due aspetti è, per Israele, quanto perdere l’identità. Israele ha voluto essere Atene – prosegue Shavit – ma in quelle terre non vi è futuro per un’Atene che non sia anche Sparta. La crisi della fiducia in se stessi può significare non riuscire a trovare la via né per la pace né per la guerra. Sarebbe un grave errore pensare che questa sia un’anomalia israeliana che non ci riguarda. De te fabula narratur. Il ciglio su cui si trova Israele è il medesimo verso cui si avvia l’occidente. Il suo dramma è il paradigma di un dramma che sta nel nostro vicino orizzonte.

dal Foglio del 09.11.2006


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