Arriva "il peggior incubo di Bin Laden" Irshad Manji, dissidente dell'islam, in Italia
Testata:L'Opinione - Libero Autore: Dimitri Buffa - Barbara Romano Titolo: «In Italia Irshad Manji, la ribelle dell’Islam - «Il velo è un profilattico Impedisce di pensare»»
Da L'OPINIONE del 29 novembre 2006:
Per chi non la conoscesse Irshad Manji è la “refusenik” islamica, cioè la “rinnegata”, che è diventata famosa in tutto il mondo confutando le tesi dei barbuti fondamentalisti della sua stessa religione prendendosi la briga di misurarsi con loro sul loro stesso argomento: il Corano e le possibili esegesi dello scritto dettato da Allah all’allora povero e analfabeta Muhammad. Perché in realtà a essere eretici sono proprio i vari Fratelli musulmani o i loro concorrenti wahabiti che usano la religione come “instrumentum regni” e per assoggettare l’universo femminile. Circostanza quest’ultima che la scrittrice nata in Uganda da genitori pakistani e poi emigrata in Canada non ha mai voluto accettare. Infatti della propria diversità sessuale e dell’orgoglio femminista ha fatto un vanto. Fin da quando a tredici anni si premetteva di rispondere a tono all’imam della moschea islamica in quel di Richmond. E si confrontava con l’incosciente buonismo della politica canadese che permette alle comunità di immigrati di farsi la propria legge coranica nel proprio ghetto. Un po’ come avviene in Italia con l’Ucoii che addirittura rivendica la poligamia.
Irshad Manji per confutare i profeti della jihad ha usato un altro istituto giuridico sapienziale dell’Islam: la cosiddetta “ijtihad”. Che grosso modo vuol dire interpretazione. Delle fonti. Perché se l’Islam oggi appare persino più arretrato che ai tempi del dopo Mohammad si deve a chi negli ultimi cento anni ha fatto una testa così a tutti i religiosi fanatizzandoli sulla lettura letterale del testo. Cosa che invece non sta né in cielo né in terra. Irshad Manji fu finalmente conosciuta dagli addetti ai lavori dopo la pubblicazione del libro “Quando abbiamo smesso di pensare?”, che ieri è stato presentato a Roma nell’ambito delle lodevoli iniziative dell’onorevole Daniela Santanchè a favore delle donne islamiche in Italia. Intervistata da "El Pais" la Manji già due anni or sono aveva spiegato cosa voglia dire per una donna islamica l'emancipazione femminile e quale poteva essere il prezzo da pagare. Il suo primo libro era già stato pubblicato in 25 paesi nel 2003. In Italia è arrivato con l’editore Guanda l’anno seguente. Con poco battage pubblicitario così come si conviene con il non politically e islamically correct qui da noi.
La donna aveva raccontato al "Pais" i propri turbamenti adolescenziali, gli studi islamici intrapresi in una "madrasa" coranica di Richmond dai 9 ai 14 anni in Canada, una città con oltre 168 mila abitanti alla frontiera con gli Usa e con una forte comunità islamica e le prime domande imbarazzanti rivolte all'imam di quella madrasa. E anche l'epilogo delle sue domande indiscrete: fu espulsa quando chiese perché non potessero anche le donne diventare imam e condurre la preghiera e perché l'omosessualità, insita nella natura umana, fosse considerata un peccato quando il Corano dice che tutto ciò che Allah ha messo nell'uomo è di per sé innocente. Le risposte che le venivano date sempre più in maniera irritata erano sempre le stesse: "Allah non lo permette" e "leggi il Corano". Così la giovane Manji è dovuta diventare suo malgrado e per legittima difesa ("dovrei avere paura di una fatwa con condanna a morte ma la verità è che non ho timore di nulla") un'esperta del Corano, almeno per controbattere gli anatemi bigotti "degli uomini barbuti". E se qualcuno la uccidesse? "Prima di morire gli direi: non capisci che così fai il gioco di chi vuole discriminarti per il tuo credo religioso e per le tue idee politiche? Che così danneggi tutto l'Islam?"
Proprio Manji nel colloquio con "El Pais", aveva tirato fuori il concetto di "ijtihad", che, a leggere nel fondamentale "Oxford dictionary of Islam" redatto da John L. Esposito, viene così riassunto: "termine legale islamico che significa ragionamento indipendente, in opposizione al concetto di taqlid, che vuol dire imitazione. E' una delle quattro fonti della legge della Sunna, utilizzabile proprio quando né il Corano né la Sunna vengono in soccorso". In pratica si tratta dell'ermeneutica del Corano e della legge, shar'ia, così come tramandata da 14 secoli con sempre possibili nuove interpretazioni. La vera speranza di modernizzazione viene quindi dall'uso e dallo studio di questo istituto che chissà perché i tanti predicatori integralisti che soffocano il mondo islamico dimenticano sempre di citare. E il colmo dei paradossi, ma non tanto per chi conosce l'arabo, è che sia il lemma "ijtihad" che quello molto tristemente più noto "jihad" vengano dalla stessa radice araba trilettera cioè "giahada". Termine che significa lavorare o sforzarsi.
Questo verbo che nella terza forma verbale (l'arabo antico ne contava sino a venti, quello moderno si limita a dieci) significa anche "fare la guerra santa", nella sua ottava forma assume invece il significato di "formulare un giudizio indipendente in una questione legale o teologica". Per la cronaca tanto il sinistro termine "jihad" quanto l'altro molto più rassicurante di "ijtihad" sono degli infiniti, in arabo “masdar”, nomi verbali, delle loro rispettive forme. Così, in quello che in Occidente verrebbe senz'altro definito un bisticcio, o gioco, di parole, si può risolvere la contraddizione odierna tra l'integralismo islamico e la voglia di modernizzazione. E' chiaro, diceva infatti la scrittrice della comunità canadese al “Pais”, che se si valorizza il giudizio indipendente del singolo teologo o di una scuola di nuovi interpreti della legge coranica, tutto questo equilibrio tra dispotismi interni a ogni regime arabo-islamico e spinte rivoluzionarie fondamentaliste, potrebbe finire. Adesso che Irshad è venuta anche in Italia vedremo come sarà accolta dai vari Nour Dachan, Hamza Piccardo e compagnia cantante dell’Ucoii che sognano di ripetere in Italia l’esperienza delle banlieu parigine e del Londonistan. E vedremo anche come ne scriveranno i quotidiani comunisti i cui referenti politici sono ormai diventati di fatto le quinte colonne della jihad in Italia. Da Diliberto in giù.
Da LIBERO:
«Il peggior incubo di Osama Bin Laden», come l'ha definita il New York Times, è una donnina di un metro e cinquanta, con le mèches a spazzola, gli occhiali da gatta e la camicetta fuxia. Irshad Manji, una femminista musulmana nata 38 anni fa in Uganda e cresciuta in Canada, che ieri ha presentato il suo libro "Quando abbiamo smesso di pensare?» (Guanda) in un convegno organizzato nel Convento di Santa Maria sopra Minerva da Daniela Santanchè, di An, e l'avvocato Barbara Pontecorvo. Irshad ha lanciato la sua sfida ad Al Qaeda: una riforma dell'Islam che parte dalle donne e dalla loro emancipazione economica, per estendersi a tutti gli islamici moderati d'Occidente. Prima tappa: il congresso dei riformisti musulmani che si terrà a febbraio a Copenaghen. Come ci si sente ad essere l'incubo di Bin Laden? «Per me è un grandissimo complimento, perché io disprezzo tutto ciò che lui rappresenta. Anzi, c'è una cosa che posso dire di non disprezzare». E cosa ammira del leader di Al Qaeda? «Ho saputo che tutte le sue mogli sono molto istruite e alcune tengono delle lezioni all'università, quindi lui non è andato a scegliersi delle oche. Ma sono i suoi valori che mi trovano del tutto contraria. Lui non offre nessun tipo di riforma e liberazione, ma solo un'ulteriore dittatura che viene dal deserto e quindi essere per lui un incubo mi riempie di gioia». Lei è musulmana, perché non indossa il velo? «Molte donne musulmane dicono di indossare il velo perché non vogliono che il loro corpo diventi un oggetto sessuale, quindi lo coprono. Ma è esattamente l'opposto. Il fatto di indossarlo vuol dire che tutto il corpo è già stato reso oggetto sessuale dagli uomini. Ecco perché non lo porto». Molte difendono il velo dicendo che non è un simbolo religioso ma un oggetto della tradizione. «È vero, ma il Corano non dice che le donne debbano portare il velo o l'hijab (fazzoletto che cela orecchie, nuca e capelli, ndr). Dice semplicemente che tutti debbano vestire in modo modesto. Posso raccontarle una storia?» Racconti. «Tre anni fa ho incontrato per caso il leader della Jihad islamica, Mohammed al Hindi. Ma non avevo con me il mio hijab, quindi gli ho detto: mi scusi, non l'ho portato, però ho il mio cappellino da baseball e d'altronde, come lei sa, il Corano non dice che devo indossare il velo ma che devo vestire con modestia». E lui? «Ha riso e ha detto: ma certo che va bene». Non l'ha mai indossato? «Quando frequentavo la madrassa (la scuola religiosa) a Vancouver era obbligatorio portare proprio il chador, fatto in modo che non uscisse nemmeno una ciocca. Quando lasciavo la madrassa, il sabato, il mio spirito era afflosciato, come i miei capelli, e mi sentivo come se avessi passato la giornata con un profilattico in testa che mi mettesse al riparo da qualsiasi attività intellettuale». E quando ha deciso di strapparsi via il "profilattico"? «Appena finivano le lezioni mi strappavo tutto di dosso, ma a 14 anni sono stata cacciata dalla madrassa, dopo una lite furibonda sugli ebrei con il maestro che a un certo punto mi ha detto: o credi che gli ebrei sono cattivi o te ne vai. Io mi sono alzata in piedi e ho marciato fuori spalancando la porta con un calcio. E mentre uscivo ho gridato: "Gesù Cristo", senza redermi conto lì per lì che anche Gesù era un ebreo». Si è convertita al cristianesimo? «Ho lasciato la madrassa, ma non ho lasciato la mia fede islamica. Ho studiato per 20 anno l'Islam nella biblioteca pubblica della mia città e ho scoperto dei modelli femminili fortissimi nella storia islamica di cui nessuno mi aveva mai parlato, come Cadigia, la prima moglie di Maometto». È favorevole a una legge contro il velo? «Dipende. Quando ho saputo della legge francese ero contraria, perché mi sembrava che privasse della possibilità di scelta. Poi ho cambiato idea perché una settimana prima che la promulgassero c'è stato un sondaggio sulle donne musulmane che si sono dichiarate quasi tutte a favore». Come mai? «Avevano paura delle vessazioni che avrebbero subito dagli uomini se non avessero indossato il velo e solo sotto anonimato hanno avuto il coraggio di dire quello che pensavano. Così ho capito che l'unico modo per esprimere la loro scelta era con questa legge». Una legge contro il velo non priva di un diritto chi vuole indossarlo? «No, perché la legge si applica solo alle scuole pubbliche e fino a una certa età: è un ottimo compromesso. I musulmani d'Europa hanno la mentalità della maggioranza in una realtà in cui sono minoranza. Anch'io ne faccio parte: la mia pelle di colore, sono musulmana e sono dichiaratamente gay, ma non me ne vergogno. Anzi, ringrazio Dio, perché questo mi ha insegnato la virtù della negoziazione. Non sento i miei "handicap" come dei pesi, ma come dei doni: grazie ad essi sono riuscita a inserirmi in una società secolare come quella occidentale, mentre per loro è impossibile».
LA SCHEDA NATA IN UGANDA Irshad Manji, scrittrice musulmana, è una giornalista canadese nata in Uganda nel 1968. La sua famiglia si è trasferita in Canada quando lei aveva quattro anni. Ha studiato all'università della British Columbia, ha lavorato come consulente legislativo di un membro del parlamento canadese e ha collaborato con quotidiani e televisioni di tutto lo Stato LIBRO DI SUCCESSO Nel 2004 ha scritto "Quando abbiamo smesso di pensare? Un'islamica di fronte ai problemi dell'islam" (pubblicato in Italia da Guanda). Il suo libro ha avuto un rapido successo, tanto che è stato scaricato dal sito in lingua araba oltre centomila volte. Irshad fa della propria lotta contro l'ortodossia dell'islam, soprattutto a difesa delle donne musulmane e della loro emancipazione, la sua ragione di vita L'INCUBO DI OSAMA Il New York Times l'ha definita come «il peggior incubo di Osama Bin Laden», del quale disprezza tutto tranne il fatto di avere «mogli molto istruite». A febbraio parteciperà a Copenaghen al congresso dei riformisti musulmani
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