Il terrorismo è la causa, non l'effetto, della sofferenza palestinese una verità opposta alla retorica di Michele Giorgio
Testata: Il Manifesto Data: 29 novembre 2006 Pagina: 5 Autore: Michele Giorgio Titolo: «Islam e Jamila, le vite al limite delle donne di Beit Hanun»
La superstite della famiglia distrutta da un errore israeliano a Beit Hanun e la terrrorista di Hamas che guida gli «scudi umani» presentate sul MANIFESTO del 29 novembre 2006 come i due volti di una stessa tragedia, provocata da Israele.
In realtà, la giovane Islam Athama è anch'essa una vittima del terrorismo e del culto della morte di cui Jamila Shanti è un'adepta e un'apostola.
Senza il terrorismo non vi sarebbe la necessità per Israele di difendersi e non vi sarebbero le tragedie che colpiscono la popolazione civile palestinese.
D'altro canto, Jamila Shanti non è affatto una "resistente" all'aggressione israeliana. Una che, trovandosi nella stessa situazione di Islam Athama, ha deciso di opporsi a Israele all'interno di un organizzazione armata (sia pure senza imbracciare lei stessa un'arma).
E'un membro attivo di un'organizzazione di assassini, che ha compiuto stragi deliberate di innocenti allo scopo di rendere impossibile una soluzione di compromesso.
Attualmente, non si dedica a una forma di resistenza "nonviolenta", ma alla protezione di assassini, nel quadro di un'ideologia del martirio e della strage.
Ecco il testo:
Su di un lato interno, quello che non affaccia sulla strada, dell'edificio sventrato dalle cannonate, proprio all'ingresso della palazzina degli Athmana, domina un grande manifesto colorato. Tra versetti coranici e slogan patriottici, spiccano i volti delle vittime del cannoneggiamento israeliano di inizio mese a Beit Hanun. Solo quello degli uomini in verità, perché delle donne la famiglia non possiede immagini «appropriate». «Sui manifesti funebri le donne vengono mostrate solo con l'hijab, senza è peccato e noi non abbiamo foto delle martiri con il velo», ci spiega Azim, uno dei tanti membri della hammula degli Athmana che ha pagato con 18 morti il bombardamento israeliano arrivato alle prime luci del giorno, quando tutti dormivano. Come i piccoli Khaled e Mahmud, 9 e 12 anni, con gli zainetti colmi di libri e quaderni accanto ai letti, preparati la sera prima, per non fare tardi a scuola. Islam, 14 anni, arriva a casa intorno alle 13, poco dopo la fine delle lezioni. Il tempo di scambiare qualche battuta con le compagne di classe e poi fa ritorno a ciò che resta della sua abitazione e della sua famiglia. È timida, non ha voglia di parlare. Ma alla fine accetta di parlare del suo futuro, senza madre (uccisa dalle cannonate) e senza padre (morto un anno fa di cancro), e privata del calore di fratelli e cugini che non si sono più risvegliati da quel sonno spezzato dai proiettili di artiglieria caduti sulle case. «Non so perché sia accaduto tutto questo, io non mi occupo di politica, sono una ragazzina - dice con un filo di voce, mentre lo zio, nominato suo tutore dalla famiglia, con un sorriso la invita a parlare, a raccontare - io non so cosa sia Israele, non ci sono mai stata, per me gli israeliani sono gli aerei che sparano su Beit Hanun e le cannonate cadute sulla mia casa». Il pensiero corre alla madre morta. «Ma non mi sento sola, tante persone mi sono accanto», aggiunge. Sulla tregua dichiarata domenica mattina da Israele e dai gruppi armati palestinesi, Islam non ha molto da dire. «Ne sono felice», ma, aggiunge, «non serve a ridarmi le persone che ho perduto», commenta alzando finalmente lo sguardo. Intanto arrivano alcuni giovani. Uno di loro ha l'atteggiamento dell'attivista politico e con gesti rapidi assegna compiti ai suoi compagni incaricati di sorvegliare la strada. Il resto dei presenti invece sono tranquilli. «Siamo contenti della tregua, non potrebbe essere altrimenti», dice Ahmed Athmna, un cugino di Islam, toccandosi la spalla ferita da un scheggia durante il bombardamento israeliano, «abbiamo passato giorni terribili, prima l'arrivo dei carri armati, poi le cannonate cadute per giorni e giorni a poche centinaia di metri da Beit Hanun, infine i colpi di artiglieria sparati sulle nostre case. Adesso finalmente possiamo respirare, scendere in strada senza temere di venir colpiti». Ahmad, che è stato curato nell'ospedale Hadassah di Gerusalemme, come sua madre e tre cugini, non è fiducioso sulle possibilità del cessate il fuoco. Punta l'indice contro Israele. «(Il premier israeliano) Olmert troverà il pretesto per rompere la tregua - spiega facendo una smorfia di dolore - e allora tutto riprenderà come prima». Per le strade di Beit Hanun, che mostrano evidenti i segni del passaggio dei mezzi corazzati israeliani, sono ritornati i venditori ambulanti e le donne a passi veloci si recano ai negozi di alimentari per procurarsi generi di prima necessità. Da un autocarro della Croce Rossa Internazionale, alcuni manovali scaricano cassette di viveri e medicinali. Il clima è sereno e molti ne approfittano per andare fino alla abitazione di Jamila Shanti, responsabile per conto di Hamas delle associazioni di donne islamiche, divenuta nota come la prima palestinese a finire nell'elenco di obiettivi dell'esercito israeliano. Nelle settimane passate ha guidato le donne prima in difesa dei giovani militanti asserragliati nella moschea «Nasser», circondata dai soldati israeliani, e poi nelle azioni di «protezione» - come a Gaza chiamano gli scudi umani - delle case minacciate di distruzione dall'esercito israeliano. «Non ho paura di morire, qui a Gaza sappiamo bene che la nostra vita può terminate in qualsiasi momento, perché la politica di oppressione di Israele non ha fine. Siamo tutti bersagli dell'occupazione», ci dice Shanti, sui 40 anni e non sposata, fatto insolito per una donna di Gaza e, soprattutto, per una militante di Hamas. A Beit Hanun gode di fama e stima infinita. Adulti e ragazzi la seguono ovunque, tanti applaudono al suo passaggio. Lei sorride, saluta con un gesto della mano e invita alla resistenza. «Gli israeliani hanno usato la forza e noi abbiamo risposto con le nostre armi, alla fine Olmert ha capito che non poteva vincere e ha dovuto accettare il cessate il fuoco», proclama Shanti esprimendo una opinione molto diffusa dalla gente di Gaza. Solo la resistenza paga. Un punto sul quale è intervenuto anche il noto analista israeliano Akiva Eldar per ribadire che la politica di chiusura di Olmert verso Abu Mazen portata avanti nell'ultimo anno, ha finito per favorire Hamas ed indebolire il presidente palestinese e gli ultimi sostenitori del processo di pace nato ad Oslo. A Gaza ben pochi credono che la tregua durerà più di un paio di settimane, soprattutto se non verrà estesa alla Cisgiordania. «Se non si arresteranno i raid israeliani anche in Cisgiordania, riprenderemo a lanciare razzi», ha avverte Abu Abir, portavoce dei Comitati di resistenza popolare.
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