martedi` 22 aprile 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



Clicca qui






Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.11.2006 La difficile strada per la pace
le opinioni di Amos Oz e Gadi Taub

Testata: Corriere della Sera
Data: 27 novembre 2006
Pagina: 28
Autore: Amos Oz - Davide Frattini
Titolo: «Israeliani e palestinesi, due fronti in movimento - «Smantelliamo le colonie e lasciamo solo l'esercito»»

Dal CORRIERE della SERA del 27 novembre 2006, un intervento di Amos Oz:

La tregua tra Israele e i palestinesi, se resisterà, sarà un primo passo. A questo dovranno seguirne almeno altri tre: la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri, la formazione di un nuovo governo palestinese che non aspiri alla distruzione di Israele ma a una convivenza con lo Stato ebraico, e l'inizio di un negoziato di pace tra israeliani e palestinesi.
Sono passi che si realizzeranno a breve? Tutto dipende dal consolidamento del primo: la tregua.
Forse i palestinesi hanno imparato a caro prezzo che il lancio di razzi su centri abitati israeliani non favorisce l'indipendenza. Gli israeliani, viceversa, hanno imparato che vaste operazioni militari non fermano i palestinesi. Ci sono indicazioni che il governo di Hamas è arrivato a un vicolo cieco dopo aver portato ai palestinesi solo un embargo internazionale e israeliano, sofferenze prolungate e vittime inutili. Ci sono altrettante indicazioni che il governo israeliano ha capito che non esistono soluzioni unilaterali e non c'è altra scelta che cercare un accordo.
Forze di entità non indifferente, estremisti di entrambe le parti, continuano a fomentare gli animi e a considerare disfattismo ogni compromesso, segno di debolezza ogni negoziato. Oltranzisti palestinesi vogliono proseguire la «lotta armata» fino alla distruzione di Israele e oltranzisti israeliani chiedono al loro governo di tornare a occupare la striscia di Gaza e di abbandonare definitivamente l'idea di un ritiro dai territori occupati. La spirale di sangue e la sensazione che non si riesca a uscirne suscitano disperazione nei moderati di entrambe le parti. La debolezza di Olmert e di Abu Mazen ne accresce lo sconforto.
La sensazione di impotenza provata da molti sostenitori della pace li porta a pensare che l'estremismo sia riuscito a soffocare nel sangue la possibilità di raggiungere una riconciliazione. Ma questo loro senso d'impotenza, quest'incapacità di agire, non fa che accrescere il fanatismo dei radicali. Solo qualche anno fa i fautori della pace riempivano le piazze. Sono stati loro a far cadere il governo Shamir, il governo Natanyahu e ad aprire la strada al riconoscimento reciproco dei due popoli. Nelle ultime elezioni — pochi mesi fa — hanno mandato al potere un governo di centrosinistra che si poneva come obiettivo il ritiro unilaterale dalla maggior parte dei territori occupati. Ma ecco che in seguito a un'aggressione degli Hezbollah il neoeletto esecutivo ha sferrato un'offensiva militare in Libano, trasformando quella che doveva essere un'operazione breve, circoscritta e giustificata, in una guerra lunga e sciagurata. A seguito di questa guerra il governo Olmert ha perso la volontà di progredire verso una pace con i palestinesi, e di fatto ha perso ogni volontà che non fosse quella di restare al potere. I palestinesi, dal canto loro, sono stati trascinati dal governo di Hamas verso posizioni estremistiche e bellicose e si rifiutano di riconoscere il diritto all'esistenza di Israele: posizioni analoghe a quelle che provocarono la loro grande tragedia nel 1948.
Ma forse, in questi giorni, si sta delineando un cambiamento su entrambi i fronti. La sensazione e il timore di trovarsi in un vicolo cieco, in un circolo vizioso, è probabilmente comune a israeliani e palestinesi. Se la tregua resisterà, se a essa dovessero seguire la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri e la formazione di un governo palestinese pragmatico, non è da escludere che ci troveremo davanti a una nuova iniziativa: non a un altro vertice internazionale o a un altro piano di pace europeo, ma a un negoziato diretto fra le parti. Un negoziato su cosa? Non su un nuovo ritiro unilaterale, una nuova Hudna
(tregua) o una Tahadia (periodo di calma) ma su un accordo bilaterale comprensivo e dettagliato per una soluzione del conflitto.
Quali saranno i termini di questo accordo? Ecco, la speranza sta proprio nel fatto che israeliani e palestinesi sanno già in cuor loro quali saranno questi termini. Anche gli oppositori alla pace di entrambe le parti lo sanno. Persino chi considera un accordo un tradimento e una sciagura sa in cuor suo che in base a quest'intesa ci saranno due Stati, Israele e Palestina, entro i confini del 1967 con modifiche concordate bilateralmente, sa che Gerusalemme sarà la capitale dei due Stati, sa che non ci sarà alcun «diritto al ritorno» per i profughi palestinesi e che non vi sarà più la maggior parte degli insediamenti.
Entrambi i popoli sanno tutto questo. E questa consapevolezza provoca loro gioia? Ovviamente no. Il giorno in cui l'accordo verrà implementato israeliani e palestinesi non usciranno a ballare nelle strade. Il compromesso sarà doloroso, fatto a denti stretti. Ma la buona notizia è che entrambi i popoli non hanno dubbi che sia inevitabile. Di quanto tempo, di quanta sofferenza, di quanto sangue avranno ancora bisogno i leader israeliani e palestinesi prima di arrivare alla consapevolezza a cui i loro popoli, a malincuore, sono già arrivati? La tregua. Se resisterà, sarà forse un primo spiraglio di luce.
 (Traduzione di Alessandra Shomroni)

Sempre dal CORRIERE, un'intervista di Davide Frattini a Gadi Taub:

GERUSALEMME — Quando a fine gennaio Hamas ha vinto le elezioni, Gadi Taub era tra quegli israeliani pronti ad accettare un governo guidato dai fondamentalisti: «È meglio del caos». In questi dieci mesi, ci sono stati i lanci continui di Qassam, il rapimento del caporale Gilad Shalit, i raid militari nella Striscia di Gaza, i primi dal ritiro unilaterale di oltre un anno fa. «Abbiamo lasciato la Striscia e ci siamo posizionati sulla linea riconosciuta dalla comunità internazionale.
Stessa cosa in Libano. In cambio abbiamo ricevuto Qassam e Katiuscia».
Docente di filosofia all'Università ebraica di Gerusalemme, editorialista per il quotidiano Maariv, elettore laburista, Taub considera la strategia di Hamas, fino al cessate il fuoco, come un tentativo deliberato di bloccare il piano di convergenza, annunciato da Ehud Olmert durante la campagna elettorale. «La maggior parte degli israeliani ha votato per un progetto che prevedeva di lasciare la Cisgiordania. Olmert non ha mai presentato delle mappe, ma era pronto a concessioni in cambio dei tre blocchi di insediamenti che voleva mantenere. Il messaggio era chiaro, Hamas si è messa in mezzo».
Dopo i 34 giorni di conflitto con l'Hezbollah, l'idea è stata rinviata dal governo israeliano. «È evidente che sul lungo periodo la continua occupazione della Cisgiordania è un pericolo molto più grande della minaccia dei Qassam. Ma andarsene in questo momento significherebbe esporre tutto il Paese al lancio dei razzi. La guerra in Libano è vista come una sconfitta israeliana dagli estremisti, che cercheranno di ammassare katiusce per colpirci».
Taub propone una separazione in due tappe. «Il primo passo è smantellare gli insediamenti in Cisgiordania per dimostrare ai palestinesi e al mondo che siamo pronti a trovare un'intesa. Nei territori deve restare solo l'esercito per garantire la sicurezza della città israeliane, fino a quando non emergerà un governo palestinese in grado di garantire stabilità».

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail al Corriere della Sera


lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT