Sembra che una tregua sia imminente con l'Anp. La parola " sembra" andrebbe scritta sempre fra vorgolette, conoscendo la storia arafattiana del terrorismo palestinese. La cronaca di Davide Frattini sul CORRIERE della SERA di oggi 26/11/2006 espone correttamente i fatti. Segnaliamo che ancora stamattina 17 razzi kassam sono stati lanciati da Gaza contro Israele. Dopo la cronaca, pubblichiamo, sempre di Frattini, un articolo su alcuni territori contestati.
Ecco la cronaca sulla "tregua":
GERUSALEMME — Dopo mesi di trattative, il presidente palestinese Abu Mazen è riuscito a convincere tutte le fazioni ad accettare una tregua. Da questa mattina all'alba, dovrebbero cessare i lanci di razzi Qassam contro le città israeliane. Il leader della Mukata ha chiamato il premier Ehud Olmert per comunicargli la decisione e il governo israeliano è pronto a fermare le incursioni e a ritirare l'esercito dalla Striscia di Gaza.
Si torna al cessate il fuoco del febbraio 2005, che era stato negoziato da Abu Mazen in Egitto. «C'è un accordo firmato tra il presidente e il premier Ismail Haniyeh perché tutti i gruppi rispettino di nuovo l'intesa del Cairo», ha commentato il portavoce del raís, Nabil Abu Rudeina. I militanti avrebbero accettato anche di bloccare le operazioni kamikaze e i tunnel scavati tra la Striscia e l'Egitto per contrabbandare armi.
L'esercito ieri ha continuato le operazioni nella Striscia di Gaza. Cinque militanti sono stati uccisi negli attacchi mirati, ordinati per cercare di fermare i lanci di Qassam, che sono andati avanti: un razzo ha colpito in pieno un palazzo a Sderot, senza vittime.
Khaled Meshal, leader di Hamas che vive a Damasco, è in Egitto per trattare. Ha visto Omar Suleiman, ministro a capo dell'intelligence, per discutere della formazione del governo di unità nazionale palestinese e della liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit, rapito il 25 giugno. I mediatori egiziani — racconta il quotidiano
Al Hayat —gli avrebbero consigliato di ammorbidire le posizioni e di essere «più realistico nelle richieste per lo scambio di prigionieri».
Eppure Meshal ha lanciato un ultimatum all'Occidente. «La comunità internazionale deve trovare un vero orizzonte politico, perché c'è ora un'opportunità per la creazione di uno Stato palestinese nei confini precedenti alla guerra del 1967. Se non ci dovesse essere una risposta alle nostre richieste entro sei mesi, fermeremo ogni iniziativa e lanceremo la terza intifada e un conflitto aperto». Ha presentato un piano che non prevede tappe. «Respingiamo quanto fatto dagli altri, i negoziati a fasi e una dichiarazione di principi. Il popolo palestinese ha una sola richiesta e non ci sono trattative su questo: la fine dell'occupazione e la nascita di uno Stato, senza colonie piccole o grandi, e una vera sovranità territoriale».
Meshal ha legato la nascita di un governo di unità nazionale alla revoca dell'embargo economico e politico, imposto dalla comunità internazionale dopo l'arrivo di Hamas al potere. «Se qualcuno pensa che le pressioni, i rinvii, le false promesse cambieranno i palestinesi e li faranno allontanare da Hamas, si sbaglia». Perché europei e americani tolgano l'embargo, la piattaforma del governo deve rispondere a tre requisiti: riconoscimento di Israele e degli accordi precedenti, fine della violenza. «In ogni caso — commenta Avi Dichter, ministro per la Sicurezza interna ed ex capo dello Shin Bet — se Hamas fosse in grado di iniziare la terza intifada, lo farebbe domani».
Olmert è stato eletto sulla base di un piano di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, che è stato congelato dopo la guerra in Libano. Il primo ministro non ha mai presentato mappe e ha sempre ripetuto che alcuni grandi insediamenti, anche se al di là della Linea Verde, sarebbero rimasti sotto controllo israeliano. Un eventuale trattato di pace avrebbe dovuto definire come ricompensare i palestinesi.
Sui territori contestati, sempre di Davide Frattini, a pag.17,una cronaca che bene evidenzia i problemi sorti dal fatto che Israele, non per sua volontà, è ancora in guerra con i vicini palestinesi. Se avessero accettato uno stato entro confini condivisi, i problemi si sarebbero già risolti. Ma le richieste, di Arafat prima e di Hamas adesso, sono inaccettabili. I palestinesi devono convincersi che il loro futuro stato potrà nascere solo su territori abitati da palestinesi e non da ebrei. Sono settant'anni che perdono il treno, e le locomotive della storia vanno in avanti, non indietro. Riconoscano Israele, trattino, si siedano intorno a un tavolo, rispettino le condizioni che la Road Map gli impone, chiudano con il terrorismo ed un risulato lo otterranno. Non siamo però ottimisti, la prova di Gaza, diventato a tutti gli effeti Stato Palestinese, ha dimostrato che Hamas non ha nessuna intenzione di trattare, quello a cui mira è l'esproprio di Israele. Dato che questo non avverrà mai, l'unica risultato sarà un'altra guerra. E noi ci auguriamo che sia l'ultima.
Ecco il pezzo di Frattini:
GERUSALEMME — Rabah Abdellatif fa l'esempio dei pantaloni. «Se questi sono i miei pantaloni e questi sono i tuoi pantaloni, tu non devi prendere i miei». I pantaloni sono la sua terra. Dal 1999 — racconta il New York Times
— questo palestinese di 65 anni sta lottando per riavere indietro un campo di sua proprietà, dov'è stata costruita la sinagoga dell'insediamento di Givat Zeet. Un giudice militare gli ha pure dato ragione e il tempio avrebbe dovuto essere abbattuto.
I «pantaloni» di Rabah sono come quelli di molti altri palestinesi, almeno secondo un rapporto dell'associazione Peace Now. Che è riuscita a disegnare una mappa degli insediamenti in Cisgiordania, identificando le terre che appartengono a privati e quelle pubbliche (in genere destinate all'agricoltura). Il dossier rivela che 130 insediamenti sarebbero stati eretti (tutti o in parte) su appezzamenti privati: 3.463 edifici o il 39% dell'area totale. Maale Adumim, che dovrebbe rimanere israeliana anche nel piano, congelato, di ritiro unilaterale, si sviluppa su terreni per l'86,4% privati. Come pure il 35,1% di Ariel, che ospita 20 mila abitanti e una prestigiosa università.
«Il 40% delle zone — calcola il New York Times — che il governo intende mantenere in qualunque accordo con i palestinesi è privato. E questo rende ancora più complicata e lontana qualsiasi possibilità di intesa».
Peace Now aveva tentato di ottenere i dati, utilizzati dall'autore del rapporto, Dror Etkes, per elaborare le mappe, attraverso la Corte Suprema. Lo Stato aveva replicato che «l'oggetto della petizione è delicato e complesso, legato a questioni che toccano la sicurezza e le relazioni internazionali del Paese» e aveva chiesto tempo. Così le informazioni sono state fatte filtrare all'associazione pacifista e sarebbero le stesse utilizzate dal procuratore Talya Sasson per il suo rapporto sugli avamposti illegali. «Il problema è proprio che il dossier di Peace Now non riflette la realtà — rispondono dall'Amministrazione Civile —, perché considera alcuni avamposti illegali come se fossero insediamenti e questo stravolge le cifre».
La distinzione tra terreni privati e pubblici in Cisgiordania è difficile. Durante l'impero Ottomano, poche aree venivano registrate a specifici proprietari e spesso i contadini possedevano la terra in comune per ridurre le tasse da pagare. Sotto il mandato britannico, cominciò un tentativo di mantenere un catasto preciso e aggiornato, che andò avanti con i giordani. Dopo la guerra del 1967, l'esercito israeliano ha confiscato terreni privati palestinesi per ragioni di sicurezza, come è permesso dalle leggi internazionali in zone occupate. «Queste espropriazioni dovrebbero essere temporanee — spiega Etkes —. Ma con il sostegno di decisioni della Corte Suprema l'esercito continua a rinnovare l'ordine di confisca perché su quei terreni sono stati costruiti molti insediamenti».
Nel 1979, sono stati proprio i leader dei coloni a chiedere alla Corte Suprema di non riconoscere la natura temporanea delle acquisizioni: «Questi villaggi sono lì per rimanere, sono edificati per un ordine morale e divino». I giudici furono costretti a ribaltare le precedenti decisioni e a ordinare allo Stato di interrompere la pratica di espropriare terra dove poi venivano sviluppate le colonie.
«Il rapporto mostrerebbe — commenta Nadav Shragai su
Haaretz — che da allora gli insediamenti hanno continuato a sorgere su aree private, senza neppure gli ordini temporanei di confisca. Quando i confini permanenti dello Stato israeliano verranno definiti, questo fatto potrà rappresentare un macigno sulle trattative e sul tentativo di conservare alcuni insediamenti»
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