Sabato 25 Novembre 2006, a pagina 9, di REPUBBLICA si legge un articolo intitolato “Tra i nostri soldati in Libano a caccia di cluster bomb”. Si legge una continua difesa della missione Unifil in Libano oramai dimostratasi un fallimento. Si legge un’immagine positiva degli Hezbollah, ovvero i fautori della guerra, che vengono descritti come coloro che hanno riscattato le minoranze discriminate e perseguitate. “C’è molto da fare per i soldati” dice l’articolo, e l’accusa va ad Israele che utilizza le cluster bomb (permesse dalla Convenzione di Ginevra). Non spiega invece cosa dovrebbero fare i soldati italiani e francesi: la missione dell’Onu prevedeva il disarmo dell’organizzazione integralista Hezbollah e il rilascio dei soldati israeliani rapiti. Prodi e Chirac hanno preferito non farlo. In questo momento invece i miliziani Hezbollah si stanno riarmando sotto gli occhi dei nostri soldati per riprendere la guerra contro Israele: ma questa per Repubblica non è una notizia.
Ecco l'articolo:
TIBNIN - Il barometro della tensione appeso all´ingresso della base è fisso sul colore verde: calma di vento, direbbero i marinai. Le pattuglie di soldati italiani vanno e vengono sui loro mezzi bianchi con la scritta UN senza alcun accenno di disagio. La situazione è tranquilla nel settore occidentale del Sud del Libano, affidato alla Brigata Pozzuolo del Friuli e ai lagunari del Battaglione Serenissima. Beirut è lontana. «Dopo gli ultimi eventi abbiamo accresciuto il livello di attenzione», spiega il portavoce del contingente, il capitano Tommaso Magistretti. Come dire che l´ordine è di tenere gli occhi ben aperti, ma non più di questo.
I giorni a venire diranno se si tratta di una calma durevole. Oggi a Beirut i resti del governo Siniora si riuniranno per approvare il decreto che istituisce il Tribunale Hariri. Pare che i ministri abbiano deciso, per precauzione, di dormire al Gran Serraglio, la sede del governo. Hezbollah sembra deciso a dar vita alle manifestazioni di piazza minacciate nei giorni scorsi. Ma il fronte che ha boicottato l´istituzione del Tribunale ha perso il generale Aoun, che ieri sera alla tv s´è pronunciato a favore.
«Where are you from?», ci chiede il giovane del distributore alle porte di Tibnin. Da dove venite? «Italy», rispondiamo. «Italy? Welcome», benvenuti, dice sorridendo. Benvenuti, è´ il ritornello che sentiamo ripetere, anche a Shama e a Marakhe, le altre due basi in cui è articolata la nostra presenza nel Sud del Libano.
Anche se meno violente che in altre zone più a ridosso del confine con Israele, le ferite della guerra sono evidenti. Macerie, strade dissestate, cavi che pendono nel nulla. Sui pali della luce, i poster con le foto dei "martiri", come vengono chiamati i combattenti uccisi, sembrano chiedere alla popolazione un perenne tributo di riconoscenza.
Questo è il regno degli sciiti libanesi. Da qui è cominciato il lento riscatto di una minoranza che in passato ha conosciuto la discriminazione e la persecuzione. La chiave di questo successo politico è oggi nelle mani di Hezbollah, il partito di Dio che con le sue attività a favore della popolazione, la sua politica sociale, la sua forza militare, la sua opposizione irresoluta sopravanza di gran lunga Amal, storica formazione politica degli sciiti. È Hezbollah che s´è assunto il merito del ritiro israeliano dalla fascia di sicurezza, nel maggio del 2000. Così come oggi, con i larghi poster di un Hassan Nasrallah dominante sulla folla dei seguaci, rivendica la «vittoria divina» nella guerra d´estate contro Israele.
Tolti questi segni esteriori, però, della presenza degli Hezbollah, non c´è traccia nei paesini del Sud. Né, a maggior ragione, delle sue eventuali attività sotterranee. È un equilibrio fragile ma chiaro quello che si è stabilito tra la milizia sciita e la Forza d´interposizione dell´Onu. Un equilibrio fondato sull´interpretazione data e accettata da entrambe le parti al mandato ricevuto dall´Unifil: aiutare l´esercito libanese.
Ora questo mandato non significa acquiescenza, o cecità, o paralisi da parte delle forza internazionale. Ma «vigilanza, controllo del territorio e possibilità d´intervento in base a precise regole d´ingaggio», ricordava qualche giorno fa il comandante del contingente italiano e del settore Ovest, il generale Paolo Gerometta. Delle polemiche che hanno agitato il mondo politico romano sul ruolo del nostro contingente qui arriva un´eco lontana. Forse perché c´è molto da fare sul territorio. Anche nel giorno in cui arriva in visita il vice ministro degli Esteri, Ugo Intini.
Per affermare che la presenza dei caschi blu risponde ad un bisogno reale della popolazione del Sud nel suo complesso, basta un esempio. Quello delle bombe a grappolo, le famigerate cluster bomb disseminate, secondo un rapporto Onu, nella misura di almeno un milione d´ordigni dall´aviazione israeliana. Un contadino del villaggio di Jabel al Batm, a una decina di chilometri da Tibnin, scopre uno di questi ordigni mentre ara il suo campo. Corre sulla strada. Incrocia una nostra pattuglia (di pattuglie ne girano un centinaio al giorno, nell´arco delle 24 ore). Getta l´allarme.
Ieri, di cluster bomb ne sono state fatte brillare tre, contemporaneamente, nel raggio di pochi metri. La perlustrazione seguente permette di scoprirne altre dieci in un campo vicino. Il colonnello Silvio Zagli, del Genio Guastatori di Udine, un gigante che è stato anche a Nassiriya, organizza lo sminamento, un lavoro ad altissimo rischio. In un altro settore, vicino a Marjayoun, due esperti del Mine Advisors Group, un inglese e un bosniaco, impegnati nella ricerca di bombe a grappolo sono rimasti, ieri, feriti gravemente.
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