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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.11.2006 "Fondamentalismo islamico più pericoloso di nazismo e comunismo"
l'allarme dello scrittore Norman Manea

Testata: Corriere della Sera
Data: 23 novembre 2006
Pagina: 43
Autore: Alessandra Farkas
Titolo: «Totalitarismo mistico»
Dal CORRIERE della SERA del 23 novembre 2006

NEW YORK — È uno degli scrittori preferiti di Imre Kertész, Claudio Magris e Philip Roth, vincitore di innumerevoli premi letterari — dal Nonino nel 2002 al recente Prix Médicis, la più importante onorificenza assegnata in Francia a opere straniere —, da anni è candidato fisso al Nobel. Dopo gli allori internazionali per il suo Ritorno dell'Huligano,
definito «un libro straordinario» dal
New Yorker, il settantenne Norman Manea torna con La quinta impossibilità. Scrittura d'esilio (Saggiatore, pagine 314, e 25), pubblicato in prima mondiale nell'edizione curata da Marco Cugno — da anni traduttore e amico dell'autore — che per la prima volta precederà quelle in lingua inglese e rumena.
Il libro, che completa e dialoga con l'Huligano, si apre con una riflessione sul significato individuale e collettivo dell'esilio nel nostro tempo e si chiude con il breve testo che dà il titolo al volume, La quinta impossibilità, ispirato a una citazione da Kafka, sul trauma dell'oblio per uno scrittore estraniato nella propria patria e nella propria lingua.
Nelle interviste del libro, dove dialoga con Claudio Magris, Philip Roth, con le scrittrici rumene Marta Petreu e Gabriela Adamesteanu e con Cugno, Manea affronta temi come l'ebraismo europeo prima dell'Olocausto, la dissidenza intellettuale e la censura nei regimi assolutisti. Ma anche il caso Rushdie, il suo 11 settembre nella New York dove vive da vent'anni, i grandi incontri con il Nobel Kertész e con Cioran e Ionesco, e una fugace visita a Venezia nel 1979 «ma solo per un giorno, quando mi fu consentito il primo viaggio dalla Romania in Occidente ». Al centro della narrativa troviamo il leitmotiv maneiano: il dramma dell'esilio. «L'esilio: prima, durante e dopo l'esilio», lo descrive l'autore. «Il primo fu a cinque anni, quando fui deportato in un campo di concentramento dalla dittatura del maresciallo rumeno Antonescu, alleato dei nazisti. Il secondo a cinquanta, quando dopo un lungo periodo di esilio in patria sotto la tirannia comunista, un altro dittatore rumeno, Ceausescu, mi costrinse ad abbandonare il mio Paese e la mia lingua per stabilirmi nell'Occidente, libero ma estraneo».
Torna in maniera quasi ossessiva la preoccupazione per il tema del «testo nomade», tradotto da una cultura all'altra, e per la «lingua esiliata». «Quando fui deportato nel lager in Transnistria, insieme al resto degli ebrei della Bucovina, con noi anche la lingua rumena fu espulsa e bandita. Nel '45, quando i sopravvissuti furono rimpatriati, il loro idioma era impoverito, anemico, brutale, esitante, puerile e confuso. Come noi, aveva bisogno del nutrimento della normalità».
Ben presto il giovane Manea sogna di unirsi al «clan mondiale di uomini di lettere», scoperto grazie al suo amore per i libri. «Ho impiegato diversi decenni prima di ascoltare la mia voce in uno scritto tutto mio. Ero felice che non recasse alcuna traccia della lingua ingessata del partito che ci aveva esiliati nella colonia penale della quotidiana oppressione comunista». Il rumeno, per lui, è molto più di una lingua madre. «È la placenta, conquista dolce e gloriosa. Ma anche casa e patria. Perché l'integrità di un autore e il suo io profondo sono inseparabili dalla sua lingua».
Lo scrittore esiliato da questa madre-rifugio, secondo Manea, va «inesorabilmente incontro alla distruzione più brutale del suo essere profondo». Pensa agli autori suicidi: «A Primo Levi, che si è salvato ad Auschwitz, ma parlando tedesco. O a Mandel'stam: il suo idioma rimase il russo usato da Stalin per impartire l'ordine della sua prigionia. E a Paul Celan, che ha scritto nella lingua dei macellai di sua madre». La salvezza di Manea, per contro, è stata proprio e sempre la lingua. «Il mio secondo esilio ha dato un nuovo significato al mio essere espropriato e delegittimato. Ma nonostante ciò, ho portato la mia lingua con me, come una lumaca il suo guscio. Oggi essa è ancora il rifugio, la casa, un reame di sopravvivenza».
Grazie all'affinità tra le due lingue romanze — italiano e rumeno — la sua seconda patria, oggi, è l'Italia. «Dopo aver letto Huligano il mio amico Antonio Tabucchi mi ha assicurato che ho trovato un nuovo domicilio nella lingua italiana. Non è cosa da poco per uno straniero che vive nella capitale dadaista dell'esilio: New York».
Nel parlare di Manea, Claudio Magris ha detto che è «uno di quegli scrittori capaci di crescere nel mezzo del deserto. Perché le lettere scolpite nella sua pelle e nelle sue pagine sono come un geroglifico del Leviatano». «Il Leviatano dell'esilio», teorizza Manea. Eppure proprio nella diaspora Manea ha scoperto che transitorietà e insicurezza possono essere liberatorie. «Ho finalmente accettato l'esilio come un doloroso onore, un trauma privilegiato ». Spiega: «Sofferenza ed epifania, solitudine e riscatto possono coesistere, insieme alle preziose ferite della libertà». Questo libro, tiene a precisare, «è un rifiuto di vittimizzazione e manipolazione della sofferenza. Perché è importante non solo ciò che gli altri fanno a noi ma anche ciò che noi facciamo della nostra vita e del nostro destino».
La sua odissea di ebreo errante e perseguitato non è dissimile da quella di milioni di profughi. «La mia storia e il mio destino non sono affatto unici — conferma — un numero crescente di persone oggi sono sradicate dalla loro terra. Penso alla Bosnia, al Ruanda, al Sudan, agli sfollati dello tsunami e alle vittime dell'effetto serra. Non credo che l'Olocausto possa essere paragonato a queste tragedie — precisa — ma a causa del mio destino individuale sono sensibile e solidale alla sofferenza di tutti questi esiliati».
La quinta impossibilità guarda al «sanguinario XX secolo e alle avvisaglie del XXI» per trarre un'amara conclusione: «La storia crudele e cinica non ha cessato le sue avventure folli e barbariche». «La dottrina nazionalsocialista proponeva il modello totalitario centripeto, incentrato sull'idea di razza pura e Stato nazionalista, coerente e aggressivo. Il comunismo s'appellava a una visione umanista del progresso e ha finito per generare una patologia di duplicità e alienazione. Ma i crimini del comunismo alla fine furono terribili quanto quelli dell'inenarrabile nazismo». Che dire del fondamentalismo islamico? «Che promuove un totalitarismo mistico ancora più pericoloso dei suoi due predecessori secolari, perché la sua attività è globale e ultranazionale, con le armi di distruzione di massa a disposizione dei suoi terroristi kamikaze. La missione sacra proclamata dal Dio musulmano mira a stabilire un paradiso utopico e sinistro — dice Manea — attraverso massacri sanguinari, l'eliminazione di tutti gli infedeli e l'imposizione di una guerra dell'odio totale e brutale».

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