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Il Foglio Rassegna Stampa
23.11.2006 La strategia iraniana per destabilizzare il Medio Oriente
e quella americana contro il "potere sciita"

Testata: Il Foglio
Data: 23 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Carlo Panella
Titolo: «Le operazioni coperte della Spectre iraniana»

Dal FOGLIO del 23 novembre 2006, un' analisi di Daniele Raineri sul sostegno dell'Iran al terrorismo :

L’Iran sta facendo la mossa del cavallo. Il cavallo è l’unico pezzo degli scacchi che batte tutti gli altri passando dalle caselle bianche a quelle nere, e viceversa, con un movimento non lineare. Così fa la superpotenza regionale sciita. Tiene al suo servizio sia le milizie sciite sia – indirettamente – le gang di assassini sunniti, due fazioni che quando s’incontrano in campo aperto nel vicino Iraq si sterminano a vicenda senza pietà. Del resto il 12 settembre del 2001 fu il comandante delle Guardie rivoluzionarie schierate a Teheran, il generale Mohammad Ahayi, a non trattenere l’orgoglio per le stragi americane. Anche se erano state compiute dai supposti rivali di al Qaida. Cominciò a parlare ai suoi citando un verso stentoreo del Corano: “Chiunque entra in battaglia per Allah, Allah entra in battaglia per lui”. Sei settimane dopo, il 26 ottobre del 2001, il vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz apprese da un briefing della Defense Intelligence Agency che tra l’Iran e l’Afghanistan – che allora era la fortezza-rifugio della massima gerarchia di al Qaida – operava una “rat line”, una scappatoia per i topi, con piena cooperazione da parte del governo di Teheran. Era una rotta particolarmente importante perché permetteva agli estremisti, con la complicità iraniana, di non avere il passaporto timbrato e quindi di nascondere alle dogane occidentali i viaggi in Pakistan e in Afghanistan, un dettaglio essenziale per gli islamisti che debbono infiltrarsi sotto copertura. Secondo Kenneth Timmermann, giornalista per Time, Newsweek e Wall Street Journal, Wolfowitz rimase esterrefatto del livello di collaborazione fra Teheran e gli uomini di Osama. Una volta varcato il confine, era dato loro il benvenuto in campi speciali fuori della città iraniana di Mashad: quindi, ricevevano documenti di viaggio freschi che permettevano loro di arrivare in Europa e da lì in America – come fecero almeno otto dei dirottatori sauditi dell’11 settembre – senza destare sospetti. Bin Laden preferiva la via iraniana perché era convinto a ragione che l’intelligence americana stesse monitorando gli aeroporti pachistani, e fosse responsabile da almeno sei anni dell’arresto di parecchi dei suoi. Secondo il briefing Dia, che aveva per fonti sia informazioni raccolte sul posto sia analisi di immagini satellitari, nei mesi precedenti l’11 settembre anche i comandanti del Jihad islamico egiziano si erano uniti, passando proprio per la “porta di Mashad”, ai ranghi di Bin Laden. Ma dieci giorni prima dell’11 settembre l’Iran chiuse improvvisamente la “rat line”. Forse presagendo che il grande affondo stava per compiersi, gli iraniani non vollero dare agli Stati Uniti alcun pretesto per la rappresaglia militare. Oggi – secondo Asia Times, che ha contatti aggiornati con i servizi segreti dell’area – l’Iran ospita nelle guesthouse delle sue Guardie rivoluzionarie nei dintorni di Teheran un centinaio di quadri di alto e medio livello di al Qaida (secondo il quotidiano in lingua araba al Sharq al Awsat sono almeno il triplo). Quando gli americani nel 2001 scatenarono l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan, 500 jihadisti scelsero di scappare attraverso il consueto canale privilegiato. Molti di loro, quelli di scarsa importanza, furono fermati per essere usati come merce di scambio per ottenere favori diplomatici e consegnati ai rispettivi paesi di provenienza del Golfo persico, tra cui Egitto, Kuwait e Arabia Saudita. Quelli più alti in grado furono invece “trattenuti”. Tra di loro c’è un figlio saudita di Osama bin Laden, Saad bin Laden, papabile un giorno per diventarne il successore. E c’è soprattutto Saif al Adel. Il suo nome non dice ancora nulla ai grandi media, ma al Adel, ex colonnello delle Forze speciali egiziane, è il comandante dell’ala militare di al Qaida: pensa a “come” sferrare gli attacchi. In Afghanistan comandava la famigerata brigata 055, l’unità della guerriglia d’élite sponsorizzata e addestrata dal gruppo di Bin Laden. Era fatta di combattenti stranieri, e fu spezzettata in gruppi messi al fianco dei talebani per impedire che il fervore islamico e la loro volontà di martirio vacillassero sotto i bombardamenti americani. Se era il caso, l’ideologia era sorretta con la fucilazione alla schiena dei disertori. Al Adel è il terzo nella linea gerarchica dopo Osama e il suo vice, il dottore egiziano Ayman al Zawahiri. Contando che le tracce di bin Laden sono da tempo “stone cold”, fredde come la pietra, il numero due di al Qaida – lasciati i talebani alla loro sorte – da cinque anni abita o in un villino di periferia della capitale iraniana, o un centinaio di chilometri più a nord, sulle rive tranquille del Mar Caspio. Secondo fonti dell’intelligence americana, citate la settimana scorsa dal Daily Telegraph, è stato al Adel a ordinare per telefono l’attentato a Riad, in Arabia Saudita, che nel maggio 2003 uccise trentacinque persone, tra cui cinque cittadini americani. E da Teheran non ha mai smesso di redigere documenti strategici. Di certo, lui e i suoi compagni in mano agli iraniani non subiscono lo stesso trattamento riservato agli intellettuali, agli studenti e ai giornalisti dissidenti trascinati dalla polizia nella prigione di Evin. Dice al Los Angeles Times un alto ufficiale dei servizi francesi – un funzionario anonimo della Vecchia Europa, accusabile di molte reticenze e furbizie ma non di essere un altoparlante degli Stati Uniti: “Gli iraniani conducono un doppio gioco. E’ nel classico stile iraniano dell’ambiguità, dell’inganno e della manipolazione. Tutto quello che può portare guai agli americani, senza spingersi troppo lontano, lo fanno. Hanno arrestato affiliati di al Qaida, ma consentono ad altri pezzi importanti di operare”. C’è addirittura un rapporto di minoranza dell’intelligence americana – citato dal Washington Times nel 2005 – che sostiene che Osama bin Laden abbia trovato rifugio nella regione orientale dell’Iran, e non nell’area di confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, dove gli americani inutilmente lo cercano. Ma si tratta per l’appunto di un “minority report”. La settimana scorsa è arrivata la relazione dalla Somalia di un panel di esperti delle Nazioni Unite, anticipata dalla Reuters. L’Iran sciita manipola anche i volenterosi ascari della guerra santa per il proprio grande disegno di egemonia. Settecento sunniti somali al servizio delle Corti islamiche – tutti con esperienze di combattimento alle spalle e selezionati in persona dal comandante Adan Hashi Farah “Ayro”, indurito dalla guerra in Afghanistan – sono stati portati nel Libano meridionale nel luglio scorso per combattere a fianco degli Hezbollah sciiti contro l’esercito israeliano. Secondo il report, ai combattenti era garantita una paga di 2.000 dollari e un’assicurazione sulla vita di 30 mila dollari a beneficio della famiglia. In cambio, ora che la guerra d’aggressione libanese è finita – o meglio, è rimandata – la Repubblica islamica dell’Iran e la Repubblica araba di Siria forniscono alle milizie somale – violando l’embargo delle Nazioni Unite – addestramento e grosse quantità di armi. Soprattutto missili terra-aria lanciabili da un solo uomo (Manpads) e missili controcarro, ovvero le sole armi che aprono ai fanatici africani una qualche speranza di resistere alle truppe regolari etiopi che stanno arrivando da nord. Sarà il “vittorioso” modello Hezbollah (ieri gli sciiti libanesi hanno ammesso di avere appena ricevuto dall’Iran 300 milioni di dollari per “spese del dopoguerra”) esportato nel Corno d’Africa. In condizioni normali, gli etiopi – grazie a elicotteri, jet e carri armati – ridurrebbero in cenere gli sgangherati caroselli di vecchie Toyota dei miliziani. Ora i somali avranno lo stesso tipo di armi che già hanno permesso a Hezbollah di spezzare e fermare l’avanzata israeliana, consentendo loro infine – pur con un numero quintuplo di perdite al passivo – di proclamare ad agosto la “vittoria divina” del Partito di Dio. Il report – quelli delle Nazioni Unite sono solidi, firmati da “experts on the ground” di tutte le nazionalità mandati apposta sul luogo: di solito sono ignorati dal segretario generale Kofi Annan – dice che l’Iran ha messo gli occhi su quei giacimenti di uranio scoperti in Somalia dagli ingegneri minerari sovietici negli anni Settanta: “Al momento della stesura di questo rapporto, ci sono iraniani a Dusa Mareb impegnati in contrattazioni per uno scambio uranio contro armi”. In Iraq l’influenza di Teheran non è mai stata così forte. Secondo Chatham House, il think tank britannico, “l’Iraq è ormai il cortile di casa dell’Iran”. Stime americane dicono che almeno tremila pellegrini iraniani superano il confine tra i due paesi ogni giorno per visitare i luoghi santi sciiti: allo stesso tempo forniscono una copertura perfetta a criminali comuni, terroristi e agenti iraniani. A Baghdad i ristoranti hanno nascosto i bar interni dietro un muro per non offendere i devoti, e gli alberghi (in un paese da 3.700 morti ammazzati al mese) fanno affari d’oro: i prezzi sono saliti del 300 per cento. Re Abdullah di Giordania ha detto al Washington Post che almeno un milione di fedeli sciiti è già entrato in Iraq. In qualche hotel i clienti fissi, tutti uomini, iraniani, senza problemi di spesa, hanno i capelli corti e i modi spicci dei militari. Un memo della sicurezza, circolato tra le intelligence della Coalizione, racconta che fin dalla caduta di Saddam Hussein il Vevak, il servizio segreto dei mullah, ha lanciato un’operazione per spezzare la schiena al sentimento antiiraniano in Iraq, e in particolare per sradicare l’“aflaqismo” (dal nome di Michael Aflaq, fondatore dell’odiato partito Baath). A membri del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri) e dell’esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr – addestrati per decenni dall’Iran – è stata consegnata una lista di ufficiali, intellettuali, accademici (158 ammazzati dal 2003) e religiosi iracheni da assassinare. La maggioranza – compresi predicatori sciiti quietisti, che non approvano la strategia di predominio che arriva da Teheran – è già stata eliminata. Con il sunnita Saif al Adel al confino operoso, gli iraniani contano nel loro cortile sull’opera destabilizzante dei miliziani. Come Abu Deraa, che si è sganciato persino dal potere politico religioso di Moqtada al Sadr. Deraa, già ribattezzato l’al Zarqawi sciita, conduce una sua personale, barbarica pulizia etnica contro la minoranza sunnita in Iraq. Le vittime del suo squadrone della morte – ormai si contano a centinaia – hanno tutte per marchio di guerra un foro di trapano elettrico in testa. Potrebbe l’Iran osare ancora di più? Certamente. Patrick Lang, analista militare e consigliere della Casa Bianca, punta sul fatto che l’80 per cento dei rifornimenti agli americani in Iraq arriva via terra attraverso il Kuwait e il cuore del territorio sunnita. “Se soltanto gli iraniani volessero, potrebbero trasformare il corridoio dei trasporti in una ‘shooting gallery’ per i loro emissari”. O potrebbero accelerare il contrabbando di anonimi razzi cinesi a favore dei miliziani di Bassora, che a loro fanno capo, e costringere gli inglesi a resistere sotto una pioggia di fuoco. O ancora potrebbero sfruttare con maggiore intensità la rotta siriana, attraverso cui ogni giorno – ha detto martedì il portavoce militare americano William Caldwell – cento nuovi combattenti stranieri arrivano in Iraq. Teheran preferisce invece la strategia dell’attesa. Che cosa sta aspettando l’Iran? Più il tempo passa e più il sogno di grandezza nell’area mediorientale si rafforza. Ogni giorno il regime affonda le zanne nel suo nuovo potere, vede le monarchie sunnite che lo circondano perdere coraggio e i suoi nemici naturali, Israele e gli Stati Uniti, indebolirsi. Quando il prezzo del petrolio, a causa dell’instabilità nell’area, aumenta anche di un solo dollaro al barile, l’Iran incassa in più almeno tre milioni e mezzo di dollari al giorno (e negli ultimi tre anni il prezzo del petrolio è raddoppiato da 30 a 60 dollari a barile). Ogni mese che passa la distanza che separa l’Iran dal nucleare si accorcia, come dimostra l’annuncio di lunedì scorso sulla costruzione di 60 mila nuove centrifughe per l’arricchimento dell’uranio (somalo?). Intanto, gli americani bloccati nel vicino Iraq non riceveranno mai il colpo decisivo, ma subiscono ogni giorno un’emorragia lenta di perdite che paralizza i comandi – prevenendo la possibilità di minacciare Teheran – e umilia l’Amministrazione Bush. Ogni giorno l’Iran impone la sua influenza sull’Iraq: il premier britannico, Tony Blair, ha da poco riconosciuto che la soluzione che verrà dovrà passare anche per Teheran. Questo fine settimana il regime ha invitato il presidente iracheno Jalal Talabani per colloqui: o meglio, per esercitare a pieno la non ancora rodata influenza padronale sugli affari interni del nuovo stato iracheno. Ogni razzo o mortaio cinese che passerà sotto il naso dei doganieri e arriverà alle milizie è un ulteriore elemento di instabilità che legittima con più forza il ruolo dei mullah come mediatori.

Un'analisi di Carlo  Panella sulla strategia americana di fronte al blocco del potere sciita in Medio Oriente:

Una delle domande centrali che domina il medio oriente, soprattutto oggi con gli scenari da guerra civile aperti in Libano dall’assassinio di Pierre Gemayel, riguarda il potere sciita. Sulla prospettiva di dividere questo blocco si basa la nuova strategia suggerita a George W. Bush dall’ex segretario di stato James Baker. Il mondo politico- religioso degli sciiti è diviso in quattro grandi blocchi, articolati in modo tale da escludere proprio la possibilità di inserire un cuneo tra Damasco e Teheran. Il primo blocco è rappresentato dalla leadership rivoluzionaria iraniana dell’ayatollah Khamenei (leader storico della rivoluzione del 1979) e Mahmoud Ahamdinejad (leader di quei “ pasdaran” che tentarono di esportare in Iraq la rivoluzione tra il 1982 e il 1988) molto legato agli ayatollah Jannati e Yazid. In Libano, Hezbollah, dell’hojatoleslam Fadlallah, è parte integrante di questo schieramento, mentre Amal ne è alleata, ma con moderazione. Khamenei e Ahmadinejad (e quindi Fadlallah) hanno rinsaldato negli ultimi due anni con trattati militari, politici e economici l’alleanza con la Siria, alleanza che ha uno dei suoi tanti punti di forza nel fatto che tutto il gruppo dirigente siriano è sciita, della setta alauita. Questa trentennale alleanza ha oggi concrete ragioni d’essere non solo nella geopolitica, ma anche nella debolezza economica della Siria. Scomparso il tradizionale padrinato sovietico, Damasco riceve da Teheran ampi finanziamenti, forniture militari e soprattutto l’occasione per inserirsi nel contesto internazionale “nobile” dei “non allineati”, come testimonia la visita del venezuelano Hugo Chávez a Damasco del 30 agosto. Damasco potrebbe trovare ragioni per allentare – non interrompere – questa solida comunità di interessi a fronte di due concessioni: il ritiro israeliano dal Golan o il riconoscimento da parte della comunità internazionale di un suo nuovo padrinato sul Libano. Queste concessioni (unica base per una trattativa tra Stati Uniti e Siria) non sono però oggi praticabili, non per ragioni di principio, ma perché premierebbero proprio il disegno iniziato con l’assassinio di Hariri, continuato con molti altri attentati, e sfociato negli attacchi di Hezbollah a Israele. In Iraq, invece, fa capo all’ayatollah Ali al Sistani una componente sciita che ruppe con Khomeini nel 1979, quando questi impose la Costituzione teocratica e imprigionò o uccise gli ayatollah che gli si opponevano, a partire da Shariat Madari, a fianco del quale al Sistani si schierò con energia. Oggi, gli stessi partiti sciiti iracheni (Sciri e Dawa) hanno allentato i loro legami con Teheran, tanto che si riconoscono in una Costituzione democratica – ispirata da Sistani – che è antagonista di quella iraniana. L’ayatollah Khatami e i “riformisti” iraniani erano omogenei a questa componente, ma sono stati sconfitti e oggi non hanno voce. Vi è poi una quarta componente sciita rappresentata da Moqtada al Sadr e dal suo padrino iraniano, l’ayatollah Kadum al Hairi. Moqtada è nipote dell’ayatollah Bagher al Sadr che nel 1979 si schierò a fianco di Khomeini e contro al Sistani e rappresenta una corrente estremista e appoggiata con cautela persino da Ahmadinejad. Il quale guida un’eterogenea coalizione che comprende gli alauiti siriani, Hezbollah e Moqtada Sadr, che persegue il rafforzamento di un fronte antisraeliano e antiamericano che vada dal Golfo al Mediterraneo. Questo progetto che fa tesoro delle conseguenze dell’estremismo rivoluzionario di Khomeini e prevede anche una articolata manovra politica e diplomatica tesa a separare l’Europa dagli Stati Uniti, i quali puntano a sostenere Fouad Siniora a Beirut, Abu Mazen a Gaza e Nouri al Maliki a Baghdad. La prospettiva di Ahmadinejad è opposta a quella del governo di Baghdad, ispirato da al Sistani: il premier sciita iracheno Maliki incontrerà settimana prossima ad Amman Bush per concordare una strategia comune imperniata su una nuova alleanza con i sunniti.

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