Non conosciamo il libro di Susan Abulhava "Nel segno di David", in uscita da sperling e Kupfer, ma è certo che nella presentazione che la'utrice e Riccardo Maccioni ne fanno in un articolo pubblicato da AVVENIRE del 22 novembre 2006 c'è un concentrato di falsità e odio antisraeliano.
Ecco il testo
Ismael aveva sei mesi quando un chiodo gli segnò per sempre il viso. La ferita era ancora rossa il giorno di quel fatale 1948 in cui il soldato Moshe lo rapì per «regalarlo» alla moglie Jolanta, resa sterile dalle violenze subite dai nazisti. Fu così che Ismael il palestinese, il bambino con la cicatrice sul viso, divenne David l'israeliano. Sarà lui il nemico che il fratello maggiore Yousef si troverà davanti poco meno di vent'anni dopo, durante la guerra dei Sei Giorni.
Questo episodio è di completa invenzione, com'è giustificato che sia in un romanzo. Sembra avere un significato simbolico ben preciso: quello di sugegrire che i palestinesi siano "le vittime delle vittime" del nazismo.
Ma ciò è falso, perché sono i palestinesi ad avere scatenato una guerra di aggressione, e perché Israele ha sempre combattutto per la propria esistenza e non contro un altro popolo.
In mezzo ci sono la nascita, e poi la maturazione umana e spirituale di Amal sorella di entrambi, venuta alla luce poco tempo dopo la scomparsa di Ismael, nello stesso campo profughi teatro del sequestro. È lei la principale protagonista e a lungo la voce narrante di Nel segno di David (Sperling & Kupfer editori, pp. 367, 17 euro) romanzo d'esordio di Susan Abulhawa. Nella sua vicenda c'è la storia di un popolo che da oppresso diventa oppressore.
Il popolo ebraico non è mai diventato "oppressore". Israele si difende, non è mossa da una volontà di dominio.
E l'oppressione degli ebrei, purtroppo, è continuata anche dopo la fondazione di Israele: nei paesi comunisti est europei e in Urss, nei paesi islamici.
Il paragone tra l'"oppressione" nazista e l'occupazione di Cisgiordania e Gaza, o le vicende del 1948 è poi palesemente abnorme e insostenibile.
C'è la parabola tragica di una famiglia, come mille altre in Palestina, privata della terra e della libertà a favore di chi a quella terra e a quella libertà pensava di avere diritto.
Una chiara negazione del diritto all'esistenza di Israele.
C'è, almeno parzialmente, la stessa Abulhawa, 36 anni, nata da una famiglia palestinese in fuga dalla Guerra dei Sei giorni, cresciuta in un orfanotrofio di Gerusalemme e oggi cittadina statunitense. «Sicuramente in Amal si trova una parte di me - rivela l'autrice - ma a mano a mano che il libro cresceva, il personaggio ha assunto una personalità autonoma. Rispetto a lei, io non ho vissuto la guerra del 1967 mentre sono stata testimone della strage di Jenin del 2002».
Non esistono testimoni della "strage di Jenin" che, come ormai ampiamente dimostrato, non ha mai avuto luogo
La cornice intorno a cui si svolge il romanzo è infatti segnata dalle tappe centrali della tragedia mediorientale. Il 1948 con la nascita d'Israele, quando la famiglia di Amal deve abbandonare il suo villaggio. E poi il 1967 con la Guerra dei Sei Giorni, il conflitto libanese del 1982, l'attentato all'ambasciata americana di Beirut dell'anno dopo. Fino alla strage di Jenin nel 2002. «La saga della famiglia per così dire è sovraimpressa alle vicende palestinesi. Nella sua storia c'è la storia del nostro popolo».
Mentre si moltiplicano i reportage, non sono molti i romanzi di ambientazione mediorientale. Soprattutto sono rari i racconti che partono dalla gente comune. «Non mi piace la distinzione tra vincitori e vinti - continua la Abulhawa -, credo che siamo tutti essere umani e come tali capaci di tanta compassione ma anche di crudeltà terribili. Il problema è che, soprattutto in Occidente, sono pochissime le opere di narrativa che diano voce anche all'altra parte. Negli Stati Uniti, il Paese in cui vivo, il nostro punto di vista è quasi inesistente. Palestinese è spesso sinonimo di terrorista. Con il mio romanzo cerco di colmare almeno in parte questa lacuna».
Nella sua denuncia Susan Abulhawa non usa mezzi termini, arrivando a paragonare la politica israeliana all'apartheid sudafricano. Il confronto - spiega - è stato fatto dallo stesso «arcivescovo Desmond Tutu quando venne in Palestina. Penso all'impossibilità di muoversi liberamente, alla separazione delle strade, ai nostri uomini e alle nostre donne trattati da cittadini di serie B».
Le limitazioni "denunciate" da Abulhawa sono state rese necessarie dal terrorismo. Il vero razzismo è quello di chi deliberatamente fa strage dei civili israeliani, senza distinzione di età, sesso, appartenenza o meno a forze armate.
Fatta la diagnosi, il problema è trovare la cura. Nel romanzo si racconta la storia di Hasan e Ari, la cui amicizia va oltre l'appartenenza a gruppi nemici. «Al di là degli innumerevoli accordi e trattati sottoscritti e mai rispettati, la risposta si trova nel diritto internazionale, che parla di uguaglianza tra i popoli. Certo, la nostra storia si intreccia a quella d'Israele. Dobbiamo convivere, ma perché questo avvenga in pace è necessario che sia garantita la parità di diritti. Oggi invece un palestinese non ha la possibilità di visitare la casa dov'è nato, di pregare sulla tomba dei suoi cari.
Senza il terrorismo e il rifiuto dell'esistenza di Israele i palestinesi potrebebro già recarsi in Israele
Per questo sono importanti le denunce e le pressioni internazionali. Quelle, tornando al paragone di prima, che hanno fatto uscire il Sudafrica dall'apartheid».
Ma la speranza si alimenta anche di gesti semplici. Tra le altre cose, Susan Abulhawa ha fondato l'associazione Playgrounds for Palestine: «Raccogliamo fondi per costruire campi di gioco per i bambini palestinesi. Cerchiamo di restituire l'infanzia a chi non l'ha mai vissuta».
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