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Immortalità e Resurrezione Mosè Maimonide a cura di Giuseppe Laras Casa Editrice Morcelliana Euro 15,00 La fortuna è cieca. Anzi dispettosa, e gioca a rimpiattino con chi la rincorre. Meglio fingere d’ignorarla e ostentare disinteresse, magari seguendola con la coda dell’occhio. Un caso esemplare di burbero baciato dalla dea è quello di Mosè Maimonide, accigliato filosofo del medioevo ebraico. Di lettori proprio non ne voleva, e chi si avvicinava alle sue opere senza le dovute cautele veniva aspramente rimproverato: “Non prendere in considerazione nessuna delle mie parole – scriveva il maestro – giacchè non solo non ti daranno alcuna soddisfazione ma ti arrecheranno anche danno e avversione”. E poi rincarava la dose: “sarebbe come somministrare un cibo raffinato a uomini abituati a nutrirsi solo di cipolle, aglio e pesce”. In realtà, Maimonide ancor oggi uno degli autori ebrei più letti, e le sue opere costituiscono un capitolo fondamentale della storia del pensiero giudaico. Se necessario, seppe rivolgersi a interlocutori di diverso livello ed esprimersi con cristallina semplicità. Tuttavia, il segreto della sua fortuna deriva anche dal disdegno aristocratico che traspare da tante delle sue pagine. Non si stanca infatti di ripetere che meglio scrivere per un solo sapiente piuttosto che per una massa d’ignoranti, ed è proprio questo a stuzzicare l’orgoglio del lettore, poiché ciascuno di noi, in fondo, vorrebbe identificarsi con quell’unico saggio. Maimonide era profondamente convinto che il livello ultimo di conoscenza fosse riservato a pochi, e su questo concetto sono costruiti anche i brevi testi dedicati a “Immortalità e Resurrezione”, tradotti da Giuseppe Laras per Morcelliana. Per un razionalista come Maimonide, la fede nella resurrezione dei corpi, così importante nella tradizione rabbinica, costituiva certo una sfida intellettuale. La ricomposizione delle membra dopo la dissoluzione della morte è infatti contraria alle leggi di natura, è un paradosso che contrasta con l’aristotelismo maimonideo.La soluzione che il filosofo propone al suo unico lettore è tuttavia accomodante. Proprio perché è un miracolo, la resurrezione non ha bisogno di prove razionali e “ha come unico supporto la forza della tradizione”. Diverso invece il problema dell’immortalità. Come i pesci sono ignari del fuoco, giacchè vivono nell’elemento contrario, così per Maimonide gli uomini stentano a comprendere l’incorporeo, legati come sono ai desideri fisici. Solo lo studio della Torah e una rigorosa disciplina intellettuale possono farci intuire il vero bene spirituale, che è godimento della perfezione divina. La via che Maimonide indica è quella del distacco dai beni mondani e dello studio disinteressato, che ha come ricompensa una moneta di valore inestimabile: la verità. Il filosofo racchiude allora il proprio imperativo ermeneutico in una frase lapidaria: “La verità non ha altro scopo se non sapere che essa è la verità”. Non c’è da stupirsi che le ricompense a cui quasi tutti aspirano lo facciano sorridere. Un giardino dell’Eden con “letti guarniti di seta e ruscelli di vino e oli profumati” è naturalmente un’immagine buona per il volgo, poiché il vero dotto sa che il bene ultimo non è intriso di materia ma consiste “nell’immortalità dell’anima, che dimora nell’intelletto agente, ovvero in Dio”. La posta in gioco è dunque l’eternità. I lettori sono avvisati. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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