L'atomica iraniana, gli scudi umani di Hamas, la crisi irachena e quella libanese analisi e scenari mediorentali
Testata: Il Foglio Data: 21 novembre 2006 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca - la redazione - Carlo Pelanda - Amy Rosenthal Titolo: «La grande confusione - Israele tra scudi umani e scudi francesi - Scenari - Unifil e il ricatto di Hezbollah - Perché nessuno può fermare il programma atomico di Teheran»
Dal FOGLIO del 21 novembre 2006, un articolo di Christian Rocca sulla situazione in Iraq e sulle mosse iraniane::
Milano. La conferenza regionale sull’Iraq, alla fine, l’ha convocata direttamente Mahmoud Ahmadinejad per il prossimo fine settimana. Il presidente iraniano ha invitato a Teheran i pari grado iracheno, Jalal Talabani, e siriano, Bashar el Assad, anticipando le grandi chiacchiere europee e i possibili suggerimenti della Commissione Baker favorevoli a un summit internazionale per provare a risolvere la questione irachena. La mossa iraniana rischia di spiazzare gli oppositori di George Bush, i quali attendevano lo studio Baker e un eventuale coinvolgimento dell’Iran e della Siria come l’ultima speranza per salvare la campagna irachena. Il lavoro di Baker sarà presentato alla Casa Bianca entro la fine dell’anno, ma Bush nel frattempo si è cautelato commissionando un suo rapporto ai vertici militari del Pentagono, proprio per non farsi dettare l’agenda da un gruppo di persone esterne alla sua Amministrazione. Le prime indiscrezioni del rapporto Baker parlano di un graduale ritiro delle truppe e dell’avvio di una conferenza regionale, con Siria e Iran, per gestire il caos iracheno, peraltro causato in gran parte dall’influenza iraniana e dall’apertura delle frontiere siriane. Un’idea condivisa dai democratici, appena usciti vittoriosi dalle elezioni di metà mandato, e anche da una buona fetta dell’establishment repubblicano. Le eccezioni sono due: il senatore democratico Joe Biden, il quale continua a insistere col suo piano di tripartizione dell’Iraq, e il senatore repubblicano John McCain, il quale non perde occasione per riproporre l’invio in Iraq di un numero maggiore di soldati americani. “Go big”, “Go long”, “Go home” sono le tre ipotesi studiate dal Pentagono per dare una sterzata alla guerra. L’anticipazione del rapporto è apparsa ieri mattina sul Washington Post. Poco prima delle elezioni, Bush aveva chiesto ai vertici militari del Pentagono di vagliare tutte le opzioni possibili sull’Iraq e di provare a suggerire nuove ipotesi tattiche per vincere militarmente sul campo. Affidato al capo degli stati maggiori riuniti, Peter Pace, il rapporto chiesto da Bush sintetizza le tre opzioni con un “Go big”, cioè inviare più truppe, “Go long”, ridurne il numero ma rimanendo in Iraq per un tempo maggiore, “Go home”, ritirarsi. Il Pentagono propone di utilizzare una combinazione tra la prima e la seconda opzione, ovvero inviare subito trentamila soldati in più e prevedere un impegno in Iraq più lungo di quello previsto inizialmente. George Bush si è tenuto a metà strada tra le richieste di inviare più truppe e le pressioni per il ritiro. Prima di questo nuovo rapporto del Pentagono, i generali sul campo non chiedevano ulteriori soldati, ipotesi confermata da John Abizaid, il capo delle forze americane in medio oriente, a un convegno ad Harvard e in un’audizione al Senato. L’ex generale Anthony Zinni, il principale critico interno di Donald Rumsfeld e per questo diventato un idolo del Partito democratico, ha spiegato che ritirare le truppe sarebbe un disastro e che l’unica strada percorribile resta quella di inviare più soldati. Il deputato democratico Charles Rangel ieri ha proposto di reintrodurre la leva obbligatoria, ipotesi scartata sia dai militari sia dalla Casa Bianca. Bill Kristol e Frederick Kagan hanno criticato sul Weekly Standard i vertici del Pentagono per la loro “devozione quasi teologica” alla teoria della presenza leggera dell’esercito americano in Iraq, ormai quasi esclusivamente impegnato ad addestrare i soldati iracheni. Secondo Kristol e Kagan, i generali non si accorgono della nuova realtà su campo, perché fedeli al loro successo militare degli ultimi due anni: nel 2004 i terroristi controllavano Fallujah, Tal Afar, Mosul e Ramadi, mentre Moqtada al Sadr accerchiava Najaf e l’esercito iracheno disertava quando c’era da combattere. Due anni dopo non c’è nessuna città in mano ai terroristi e l’esercito iracheno riesce a tenere le città. Ma se questa strategia ha funzionato, resta carente la questione della sicurezza, la cui mancanza ormai genera problemi maggiori rispetto a quelli di una forte presenza militare americana. Il rapporto del Pentagono, annunciato dopo le dimissioni di Rumsfeld, sembra più incline a un cambiamento di rotta, anche se ieri Bush ha detto di non avere ancora deciso il numero delle truppe. La confusione resta, aggravata dalla vittoria dei democratici alle elezioni di metà mandato. La leader alla Camera Nancy Pelosi ha sostenuto come leader di maggioranza John Murtha, ovvero l’alfiere dell’idea del ritiro immediato, ma il gruppo congressuale ha eletto un deputato più moderato che considera una follia l’ipotesi del ritiro. La chiave del caos di Washington è ben rappresentata nell’ultimo fascicolo della rivista The New Republic, interamente dedicato a che cosa fare in Iraq. I grandi cervelli d’area liberal hanno proposto ciascuno la propria soluzione e il risultato paradossale è che c’è chi chiede di andarsene dall’Iraq, chi di inviare più truppe, chi di dividere il paese, chi di lasciarlo intero, chi di coinvolgere i sunniti, chi di allearsi con loro, chi di sconfiggerli, chi di ascoltare i consigli di Baker e chi di ignorarli.
Un articolo sulla situazione di Israele, nellos cenario libanese, nel confronto con l'Iran e nel rapporto con gli Stati Uniti.
Gerusalemme. Ieri il presidente americano, George W. Bush, ha detto che un attacco israeliano sui siti nucleari dell’Iran non è da escludere e che se ciò accadesse non sarebbe per nulla stupito, anzi lo capirebbe. Israele è sotto attacco e le sue possibilità di difendersi sono sempre meno. Ci sono gli scudi umani palestinesi e gli scudi militari francesi, nel sud del Libano, pronti a reagire contro i voli dei caccia di Israele. Ci sono le condanne internazionali delle Nazioni Unite al governo di Gerusalemme e c’è Mahmoud Ahmadinejad, presidente iraniano, che minaccia Israele tutti i giorni, oltre che correre a suon di decine di centrifughe verso la completa nuclearizzazione. Ieri, come già era successo sabato, le forze di Tsahal hanno annunciato un raid e tanti palestinesi pronti a trasformarsi in scudi umani sono accorsi a proteggere la casa di un dirigente di Hamas, a Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza. Secondo la ricostruzione della Bbc, il proprietario dello stabile di due piani è stato avvertito per avere il tempo di fuggire e subito le moschee di Gaza hanno chiamato a raccolta volontari disposti a radunarsi presso la casa. Alcuni di loro si sono messi sul tetto e hanno cominciato a sventolare bandiere di Hamas. “Per Hamas e Hezbollah l’uso di scudi umani è una caratteristica” strategica, spiega al Foglio Shaul Shay, ex agente dell’intelligence israeliano e consulente per la sicurezza. Dice che l’esercito agisce chiamando preventivamente e dando ordini di evacuazione dei luoghi che ha stabilito di colpire per risparmiare i civili. Ma ora, conclude, è necessario cambiare strategia: “Per ogni problema ci sono più soluzioni. Ne troveremo un’altra”. Intanto i razzi Qassam continuano a cadere in territorio israeliano. Ieri, ne sono arrivati sette, domenica undici e alcuni giorni fa una donna, prima vittima di un lancio da luglio, è morta. Il ministro della Difesa, Amir Peretz, ha telefonato al rais palestinese, Abu Mazen, chiedendo un sostegno per mettere fine ai lanci di razzi, ma questa iniziativa ha creato problemi con il primo ministro, Ehud Olmert, che ha detto di voler essere l’unico interlocutore del presidente dell’Anp, perché non vuole che le iniziative diplomatiche si moltiplichino a dismisura né internamente né a livello internazionale: Olmert ha già detto ad Abu Mazen di volerlo incontrare al più presto così come ha ribadito di non voler prendere in considerazione la conferenza di pace presentata la settimana scorsa da Spagna, Francia e Italia. Sul fronte libanese intanto continua il gelo con il comando militare francese che guida Unifil. Alla fine della settimana scorsa si è sfiorata quasi la reazione militare quando le forze di Parigi hanno preparato la contraerea per reagire ai voli dei caccia israeliani. Il capo dei Caschi blu, il generale Alain Pellegrini, ha detto che quei sorvoli “sono inaccettabili” e allontanano la riconsegna dei soldati rapiti da Hezbollah. I peacekeeper delle Nazioni Unite, per la prima volta da settembre, avrebbero intercettato sabato diciotto razzi katiuscia e carichi di esplosivo destinati al Partito di Dio, ma sono settimane ormai che gli analisti parlano di un flusso di armi attraverso la frontiera siriana in favore delle milizie sciite appoggiate da Teheran. Ieri sera funzionari francesi e israeliani si sono incontrati per chiarire la situazione e arginare quello che il Figaro ha definito “un coup de froid”, un colpo di freddo. Infatti anche da New York le notizie non sono stati rassicuranti. La Francia ha appoggiato la risoluzione (non vincolante) dell’Onu che ha condannato le azioni di Israele nella Striscia di Gaza, in particolare quella a Beit Hanoun in cui sono morti 19 civili, causando la dura reazione dell’ambasciatore di Gerusalemme al Palazzo di vetro, Dan Gillerman: “Lancia fiori ai terroristi”, ha detto riferito al governo di Parigi. Il documento, appoggiato dai paesi arabi, è secondo Shaul Shay “un’ipocrisia: non fanno i conti con l’origine del problema, Hamas e i lanci di razzi Qassam”. Gli undici lanci di domenica sono stati rivendicati dalle Brigate Ezzedine al Qassam, braccio armato del gruppo islamico. La risoluzione, però, non piace neppure ai palestinesi, per i motivi contrari naturalmente: il portavoce del governo di Hamas, Gahzi Hamad, ha detto che una “condanna” non basta e ha chiesto l’imposizione di sanzioni a Israele. Nella “prima crisi prenucleare di Israele” – come l’ha definita André Glucksmann sul Foglio – il governo di Gerusalemme trova continui ostacoli da parte della comunità internazionale. E sul fronte più pericoloso, quello iraniano, Ahmadinejad, assicura: “Non ci attaccheranno”, stanno giocando una “guerra psicologica”, “il regime è debole e ha molti problemi”. Il presidente iraniano invita l’iracheno Jalal Talabani e il siriano Bashar el Assad a Teheran per farsi mediatore sull’Iraq e prevede, entro l’inizio dell’anno nuovo iraniano, a fine marzo 2007, migliaia di centrifughe all’opera. L’intelligence israeliana e francese confermano: Teheran arriverà al “punto di non ritorno” nella primavera del 2007.
L'analisi di Carlo Pelandasulla "crisi strategica" di Israele:
I pochi amici italiani di Israele si sono generosamente interrogati sulla profondità della crisi israeliana. Certamente per Israele è un momento difficile. Ma non vi è una crisi interna di dimensioni tali da far temere una incapacità di gestire i pericoli per la sopravvivenza di questa rimarchevole nazione oppure suoi atti irrazionali. La crisi israeliana è solo esterna. Il dato più importante riguarda il successo del missile iraniano, di concezione cinese, lanciato dagli Hezbollah contro una nave israeliana al largo di Beirut. Non è stato un fallimento tecnologico, ma un errore umano: non erano accesi i sistemi di contromisura. Se lo fossero stati il giocattolino cino-iraniano sarebbe stato annichilito. Tutte le analisi che avevano temuto una crisi di superiorità tecnologica a partire da questo fatto possono rientrare. La condotta un po’ indecisa dell’azione di bonifica degli Hezbollah ha motivazioni più politiche che di incapacità tecnica. Non era interesse di Israele mostrare uno strapotere né tantomeno occupare un territorio. Entro questo quadro poi ci sono stati errori tipici in casi in cui si impiegano riservisti. Ma il nucleo professionale della forza armata israeliana ha eliminato il nemico secondo i piani, al cronometro. Infatti Hezbollah sta facendo uno sforzo enorme per riorganizzarsi e non sarà mai più come prima. Il governo Olmert è instabile? Certo, come ogni governo israeliano. Ma Israele, per le cose che contano, è governata da un direttorio stabilissimo. Per questo può permettersi il disordine di una democrazia pur nazione in guerra. Non è qui il problema, come non lo è la sua potenza militare. La crisi è nella mancanza di consenso internazionale necessario sia per difendersi sia per trovare qualche alleato che aiuti la pace. L’America garantisce la sicurezza di Israele, ma non la chiusura del conflitto perché ha la priorità di tenersi buoni gli islamici pro-occidentali a cui è utile lo status quo. L’Europa subisce il ricatto islamico e non aiuterà Israele a difendersi. Qui c’è la disperazione di Israele: solo contro un mondo islamico che teorizza la sua distruzione e uno occidentale che in grandi numeri le imputa di essere il male o se ne infischia. Tale situazione è tragica, ma anche così tragicomica da generare witz (scherzi). Per esempio, sentito a Gerusalemme: “Lasciamo che i nazisti islamici uccidano un milione di ebrei per commuovere finalmente il mondo e così salvare i quattro che resteranno, ma potremo fidarci? No. Sventagliata con missili nucleari? No, che spreco. E allora? Avanti così, va bene”. Sufficientemente forti per restare freddi e ironici.
Un editoriale sul precipitare della situazione in Libano:
Quasi tutti (l’eccezione è un serafico Romano Prodi che parla di stabilizzazione) si rendono conto che la situazione del Libano sta scivolando rapidamente verso contrapposizioni incontrollabili. Il leader degli Hezbollah, che non hanno rispettato alcuna clausola della risoluzione dell’Onu sul Libano (che prevedeva la liberazione dei soldati israeliani rapiti e il disarmo delle milizie), ha lanciato un ultimatum al governo di Fouad Siniora. O Hezbollah e i suoi alleati avranno dieci dicasteri, con i quali possono bloccare qualsiasi decisione, o la parola passerà alla piazza, a una manifestazione preinsurrezionale alla quale Hassan Nasrallah si aspetta la partecipazione di un milione di libanesi. E’ il preannuncio di un colpo di stato filosiriano, che sarebbe la risposta alla decisione di Siniora di accettare le richieste dell’Onu per un tribunale internazionale che giudichi gli assassini dell’ex premier Rafiq Hariri. Se Siniora resisterà si apre la prospettiva di un riaccendersi della guerra civile. La missione internazionale, compresi i 2.500 soldati italiani, rischia di trovarsi impantanata in una situazione ingestibile, che le incertezze della direzione politica, che ha permesso il riarmo di Hezbollah, hanno accentuato. L’Italia, che dovrebbe assumere a febbraio la guida militare della missione, ha di fronte un problema assai arduo. O si riesce a difendere con i fatti l’indipendenza libanese, bloccando il flusso di armi provenienti da Siria e Iran, e con essa l’autorità del governo, oppure è meglio andarsene. Trasformare Unifil in uno scudo che protegga le milizie terroriste da Israele sarebbe un tradimento degli impegni assunti dalla comunità internazionale e metterebbe le nostre truppe in una condizione insostenibile, anche sul piano della sicurezza. E’ quello che fanno capire i responsabili francesi, che pur con tutte le ambiguità chiracchiane, non intendono passare per complici di un ritorno del Libano al protettorato siriano. Se la situazione non si può raddrizzare, meglio fare una figuraccia che subire un disastro.
(21/11/2006)
Infine, un'intervista con il giornalista di Amy Rosenthal del Washington Post Charles Krauthammer, che spiega perché una trattativa con Teheran "sarebbe una catstrofe"
Gerusalemme. Ieri il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ha detto che Israele è troppo debole per colpire Teheran, che i report su un possibile attacco – e le relative smentite – fanno parte della solita “guerra psicologica” dell’occidente contro i mullah. Poi ha aggiunto: “Raccomando ai politici americani di evitare ogni ostilità con la nazione iraniana. Il regime sionista è debole e al momento ha i suoi problemi, e comunque siamo in grado di affrontare anche paesi ben più potenti” di Israele. Le minacce da parte di Ahmadinejad non si sono mai interrotte e adesso – con la vittoria dei democratici americani e il basso consenso della leadership israeliana – si sono rafforzate. Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post e accreditato analista di politica americana e internazionale, dice al Foglio che è difficile immaginare oggi una via d’uscita da questo stallo strategico. “George W. Bush è trobbo debole per fare alcunché, e l’Iran sa che il risultato delle ultime elezioni gli garantisce la possibilità di diventare una potenza nucleare”. L’accelerazione è stata propagandata dal regime di Teheran, con la proclamazione del completamento del processo nucleare da concludere per il marzo del prossimo anno e la richiesta, in questi giorni, di una maggiorazione di un centinaio di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Lo stesso Ahmadinejad ribadisce la sua strategia di nuclearizzazione, mentre il New Yorker, con il solito Seymour Hersh, dice che la Cia non ha alcuna prova delle ambizioni nucleari dell’Iran e che è una mania di Bush quella di sovradimensionare la minaccia di Teheran (per far dimenticare le perdite in Iraq). Ma reagire è complicato, il balletto diplomatico va avanti da anni senza risultati concreti. “Il presidente Bush dovrebbe mettersi a nuota re controcorrente per far qualcosa sull’Iran – dice Krauthammer – Le sanzioni, anche se vengono applicate, non servono a nulla. Tutta la storia delle sanzioni è una frottola, e gli iraniani lo sanno perfettamente ed è appunto per questo che se ne infischiano delle dichiarazioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Mentre un presidente forte potrebbe pensare a un attacco militare contro l’Iran, la mia impressione è che ora Bush, data la sua debolezza, non possa nemmeno provare a immaginarlo, il che significa che ormai non c’è più nulla da fare per fermare il programma nucleare iraniano”. L’editorialista del Washington Post teme che prevalga la linea del dialogo, che per lui equivale a “una catastrofe”. Se in passato, in alcuni casi, la strategia ha funzionato, Krauthammer è convinto che ora non soltanto non porterebbe ad alcun risultato, ma sarebbe del tutto dannoso: “Ahmadinejad ha fatto capire molto chiaramente che vede il mondo in termini manichei. Ritiene che l’islam sia in ascesa e che l’occidente sia avviato verso la decadenza e il declino. Inoltre, non ha alcuna intenzione di interrompere il suo programma nucleare o di cessare il suo appoggio a Hamas e Hezbollah”. Ieri Ahmadinejad ha lanciato una sua iniziativa diplomatica, invitando a Teheran il presidente iracheno, Jalal Talabani, e il rais di Damasco, Bashar el Assad. “L’asse iraniano-siriano collabora per mandare in frantumi il Libano e l’Iraq – conclude Krauthammer – e il suo obiettivo supremo, naturalmente, è quello di distruggere Israele e tutto l’occidente. Quando si ha a che fare con gente che ti vuole semplicemente annientare i negoziati possono avere soltanto risultati dannosi, di appeasement. Se invece si ha a che fare con normali avversari, i negoziati hanno perfettamente senso”.
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