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La Repubblica Rassegna Stampa
20.11.2006 Niente "prove certe" che l'Iran voglia fare quello che sta facendo sotto gli occhi del mondo
l'ultimo scoop di Seymour Hersh, diligentemente ripreso da Riccardo Staglianò

Testata: La Repubblica
Data: 20 novembre 2006
Pagina: 12
Autore: Riccardo Staglianò
Titolo: «Nessuna prova contro l'Iran ma la Casa Bianca insiste»

Per la Cia non ci sarebbero prove che l'Iran starebbe cercando di dotarsi di armi nucleari, ma nell'amministrazione Bush vi sarebbe comunque una consistente fazione  propensa all'intervento militare.
Forse perché si accontentano del  programma di arricchimento dell'uranio nascosto all'Aiea, che non sarà una prova ma di certo è un fortissimo indizio.
Forse perché hanno ascoltato Ahmadinejad predicare la distruzione di Israele.
Forse perché sanno che il  regime finanzia ( o attua in proprio, come in Argentina il terrorismo).
Forse perché sanno che in realtà Saddam Hussein aveva un programma nucleare (sebbene non una bomba) e che dunque il precedente dell'Iraq non deve indurre affatto a una maggiore disinvoltura sui rischi di proliferazione nucleare in stati canaglia.
Forse perché ricordano il riuscito inganno della Corea del Nord, e considerano che non essere intervenuti quando la dittatura comunista non aveva la bomba atomica ha portato a una situazione nella quale non s può intervenire perché ce l'ha.
Comunque sia, Riccardo Staglianò, che sulla REPUBBLICA del 20 novembre 2006 dedica un articolo all'ultimo articolo del giornalista investigativo americano, non pone nessuna di queste domande.

Ecco il testo: 
     

NEW YORK - Prove che l´Iran voglia l´atomica mancano ma per la Casa Bianca fa lo stesso. L´ipotesi militare non va abbandonata, avrebbe detto un mese fa il vicepresidente Dick Cheney, anche se vinceranno i democratici. E anche se la Cia, in un rapporto segreto rivelato dal New Yorker, non riesce a trovare alcuna «prova conclusiva» che Teheran stia davvero portando avanti un programma militare oltre a quello civile dichiarato. «Nessuna quantità significativa di radioattività è stata riscontrata» si legge nell´inchiesta di Seymour Hersh, autore di celebri scoop. E cita fonti dell´intelligence che gli raccontano in forma anonima come tutti i sistemi di rilevamento piazzati nei dintorni delle centrali iraniane da agenti americani e israeliani diano risposta negativa.
Non ci sarebbe quella contaminazione normale invece se stessero arricchendo uranio per farne armi. La differenza, insomma, è quella tra un arricchimento a livello 3,5 per cento (quello che è stato riscontrato) e quello invece buono per la bomba, cioè "weapons grade", intorno al 90 per cento. E che ha fatto calcolare ad esperti indipendenti in vari anni (tra 5 e 10) il tempo che servirebbe per colmare questo gap tecnologico.
L´Amministrazione Bush, spiega ancora il reporter, però non ne vuol sapere. Il rapporto della Cia li ha indispettiti. «Se non si trovano le prove vorrà dire che sono stati bravi a nasconderle» è l´argomento che circola a Washington e che suona minacciosamente simile a quello usato con le armi di distruzione di massa di Saddam. Un´analogia non solo dialettica. Nel circolo dei consiglieri "falchi" del presidente sono convinti, dice una fonte, «che la via d´uscita dall´Iraq passi per l´Iran». Che un successo contro Ahmadinejad farebbe dimenticare il fallimento di Bagdad. Perché «Cheney e i suoi amici non cercano una "pistola fumante" ma qualcosa che li conforti nel loro obiettivo che è quello di compiere una missione».
La Casa Bianca nega tutto e contrattacca: «È una truffa piena di inesattezze». E se la prende con il giornalista, inflessibile fustigatore del governo: «Ha cercato ancora una volta di creare una storia per soddisfare le sue opinioni estremiste». I fatti dimostrano però che Hersh ha sin qui sempre avuto ragione.
A guardarsi intorno, d´altronde, l´atmosfera che si respira è quella ideologica denunciata nel pezzo. Ieri il progressista Los Angeles Times ospitava l´editoriale di Joshua Muravchik, ricercatore del neocon American Enterprise Institute. Titolo: «Bombardare l´Iran». Inizia così: «Sono quattro anni che il loro programma nucleare è stato scoperto e la strada della diplomazia e delle sanzioni non ha portato da nessuna parte». Non resta quindi altra via che quella militare, colpire prima che lo possano fare loro. Una posizione largamente condivisa dai circoli neoconservatori che, nonostante la batosta elettorale e alcuni parziali ripensamenti, non hanno intenzione di dichiararsi sconfitti.
E il cambio di regime a Teheran è da molti di loro visto proprio come l´occasione per il riscatto. In questa prospettiva sta cercando uffici a Washington l´Iran Enterprise Institute, appena costituito, che già dalla ragione sociale tradisce la totale sudditanza nei confronti del think tank ultraconservatore. Lo dirigerà Amir Abbas Fakhravar, si legge sul mensile American Prospect, un trentunenne fuoriuscito la cui candidatura è stata appoggiata da Richard Perle, lo stesso che ha confessato a Variety che forse non rifarebbe la guerra all´Iraq.
Ne fa parte Reza Pahlavi, il figlio dello scià, vari iraniani della diaspora e Michael Ledeen, già allievo di De Felice in Italia, coinvolto nello scandalo Iran-Contra e che da sempre traffica per rovesciare i mullah. Anche lui ricercatore dell´American Enterprise, istituto gemello. E ospite fisso della National Review Online, lettura di riferimento per i falchi della Casa Bianca.

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