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Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.11.2006 L'Iran si difende, le democrazie amano la guerra
le tesi, false e pericolose, di Sergio Romano

Testata: Corriere della Sera
Data: 20 novembre 2006
Pagina: 8
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Il sogno nucleare e la partita a scacchi con Europa e Asia - Quando le democrazie sono più bellicose delle dittature»

Se L'Iran vuole l'atomica, spiega l'ineffabile Sergio Romano sul CORRIERE della SERA del 20 novembre 2006, è perché si sente "minacciata" dai suoi vicini.
E' ancora per questo che teorizza la distruzione di Israele e finanzia il terrorismo?
Ecco il testo:   


TEHERAN — Poche settimane fa alcune navi da guerra degli Stati Uniti e altre provenienti da Paesi alleati, fra cui l'Italia, si sono esercitate nel Golfo. A molti osservatori è parso che l'esercitazione servisse a fare pratica di blocco navale per impedire che le merci proibite, se il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotterà le sanzioni desiderate da Washington, raggiungano le coste dell'Iran. A Teheran le manovre sono state interpretate come una manifestazione di ostilità e una forma di intimidazione. Pochi giorni dopo gli iraniani hanno sperimentato numerosi missili Shahab-2 e Shahab-3: due armi che possono colpire bersagli entro un raggio di duemila chilometri. Queste sperimentazioni e alcune imprudenti dichiarazioni di Yayhia Rahim Safavi, comandante delle Guardie della rivoluzione, sono state interpretate in Europa e in America come una esplicita minaccia. Il Wall Street Journal ha colorato in grigio, su una carta geografica, i Paesi che possono essere colpiti dagli Shahab: la Turchia, tutti gli Stati del Golfo, la Russia meridionale, le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, il Pakistan e l'India occidentale. «Siamo sorpresi — scrive un editoriale del giornale — che gli europei non siano preoccupati da questa minaccia. Speriamo che il presidente Bush e il prossimo Congresso concludano un patto bipartisan per bloccare il programma nucleare e missilistico dell'Iran».
Con qualche occasionale sprazzo di sereno (fra cui, in questi giorni, la lettera del presidente iraniano Ahmadinejad a Romano Prodi), questo è oggi il tono delle dichiarazioni e delle invettive che vengono frequentemente scambiate tra l'Iran degli Ayatollah e, con gradazioni diverse, alcuni Paesi occidentali, fra cui soprattutto gli Stati Uniti.
Nel corso di una conversazione con un gruppo di studiosi iraniani, in uno dei maggiori think tank di Teheran, ho cercato di spiegare che certe affermazioni del loro presidente, soprattutto sulla questione israeliana, hanno reso ancora più difficile il lavoro di quanti cercano un punto d'intesa. Ho detto che in Occidente lo stile di Mahmoud Ahmadinejad «non passa» e che le sue sortite hanno finito per accorciare la distanza tra le posizioni europee e quelle degli Stati Uniti. Come impassibili giocatori di scacchi i miei interlocutori mi hanno guardato silenziosamente senza che una qualsiasi increspatura sul loro viso lasciasse trapelare consenso o dissenso.
Al centro della crisi, naturalmente, vi è il programma iraniano per l'arricchimento dell'uranio. Teheran non perde occasione per ribadire che il programma è esclusivamente civile e che l'arricchimento è permesso dal Trattato di non proliferazione. Gli europei temono che sia un primo passo verso la costruzione dell'arma suprema e molti americani, in particolare, rafforzano la tesi sostenendo che una grande potenza energetica, ricca di petrolio e di gas, non ha alcun bisogno di energia atomica. Per la verità gli Stati Uniti hanno avuto in altri periodi una posizione molto diversa. Il programma nucleare iraniano comincia negli anni Sessanta con la collaborazione dell'America e decolla nel 1974, dopo lo shock petrolifero dell'anno precedente, con una lettera dell'ambasciatore americano a un collaboratore dello Scià in cui è scritto, tra l'altro : «Abbiamo preso nota dell'importanza prioritaria che Sua Maestà Imperiale attribuisce all'energia nucleare per lo sviluppo di fonti energetiche alternative. Questa è chiaramente un'area in cui possiamo utilmente dare il via a uno specifico programma di cooperazione e collaborazione». Qualche mese dopo il presidente Ford autorizzò la vendita all'Iran di attrezzature per il trattamento e l'arricchimento dell'uranio. In cambio di quella concessione l'Iran avrebbe comprato otto reattori nucleari. Venne firmato un accordo per il valore di 15 miliardi di dollari che prevedeva la costruzione di otto centrali nucleari, capaci di produrre complessivamente 8.000 megawatt. Ma la partenza dello Scià, il trionfale arrivo di Khomeini a Teheran, la rivoluzione e l'occupazione dell'ambasciata degli Stati Uniti seppellirono il programma sotto una montagna di accuse e recriminazioni.
Oggi le ragioni che spinsero lo Scià ad avviare un programma nucleare sono ancora più impellenti. Ho già ricordato qualche giorno fa che gli automobilisti iraniani pagano per la benzina un irrisorio prezzo politico e che il deficit di raffinazione costringe l'Iran a importare un quantitativo pari al 40% del fabbisogno nazionale. Il Paese è prigioniero di un dilemma. Quando il prezzo del petrolio aumenta sui mercati internazionali, aumenta anche il prezzo della benzina che occorre importare dall'estero. Non basta. Quando aumenta il prezzo del petrolio, la ricerca di nuove risorse energetiche diventa più conveniente, attira maggiori capitali internazionali e crea le premesse per la diminuzione dei prezzi. Soltanto un Paese imprevidente rinuncerebbe a dotarsi di un efficace programma nucleare.
Ma dietro il programma iraniano si nasconde, secondo gli americani, lo spettro dell'arma atomica. Il governo di Teheran lo nega, ma è probabile che il Paese voglia dotarsi di tutti gli strumenti necessari alla costruzione dell'arma nel momento in cui la situazione internazionale e la sicurezza del Paese la rendessero necessaria. È una posizione irragionevole? Molti osservatori (io fra questi) constatano che l'Iran è circondato da Paesi dotati di armi nucleari (Russia, Cina, India, Pakistan, Israele, Stati Uniti) e che è stato definito da Bush, insieme all'Iraq di Saddam Hussein e alla Corea del Nord, membro di una minacciosa triade denominata «asse del male». Quale può essere la reazione del secondo membro quando constata che il primo viene attaccato e occupato sulla base di argomenti che si rivelano successivamente insussistenti?
Ai membri del think tank di Teheran ho cercato di spiegare che non è necessario essere nemici dell'Iran o sospettosi delle sue intenzioni per temere che un programma nucleare iraniano, privo di forti garanzie internazionali, scateni in Medio Oriente, dalla Turchia all'Egitto, un pericoloso effetto domino. Ancora una volta nessun segno di assenso o dissenso. Ma uno studioso, più tardi, mi ha detto a quattr'occhi: «Dateci qualche buona ragione per non essere preoccupati del nostro futuro».Alludeva, naturalmente, alla ripresa dei contatti fra l'Iran e gli Usa che molti stanno suggerendo in questi giorni al presidente Bush.

Complementare alla tesi sull'Iran è quella generale per  cui la maggiore propensione alla pace delle democrazie rispetto alle dittature sarebbe un "mito"
Ma  per confutarlo  Romano, nella risposta a un lettore,  utilizza esempi che dimostrano soltanto, in realtà, che le democrazie sono ( o sono state finora) disposte (sebbene con riluttanza e talora con catastrofici ritardi) a difendersi dalle aggressioni e dalle minacce degli stati totalitari o autoritari.

Resta invece un fatto incontestabile che le democrazie non s fanno guerra tra di loro, e che le non democrazie combattono tra di loro molto più che con le democrazie.

Ecco il testo:

Per anni ho creduto che la democrazia fosse garanzia di pace. Mi sbagliavo e non vedevo quanto avevo sotto gli occhi. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono due grandi democrazie, ma non hanno garantito la pace nel mondo. L'elezione di Bush ha provocato l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq e ha fatto incancrenire la questione palestinese.
Israele, la democrazia mediorientale vanto dell'Occidente, non riesce a garantire la pace con vicini che a mio parere la desiderano.
In ogni caso la pace coi palestinesi scaricherebbe i fucili siriani e iraniani. Non le sembra giunto il momento di avviare una riflessione sul rapporto democrazia-guerra?
Pietro Ancona
pietroancona@tin.it

 

Caro Ancona, la tesi secondo cui le democrazie sarebbero pacifiche e un mondo democratico sarebbe assai meno bellicoso di un mondo dominato da regimi autoritari è in una buona parte una leggenda. Ma anche le leggende meritano di essere studiate e comprese. Il nesso fra democrazia e pace risale alla filosofia politica di Woodrow Wilson e ai «14 punti» con cui il presidente degli Stati Uniti, nel gennaio 1918, spiegò al mondo che una diplomazia trasparente e democratica, condotta alla luce del sole sotto gli occhi della pubblica opinione, avrebbe risparmiato al mondo gli orrori della guerra. Più tardi, durante gli anni Trenta, gli umori della pubblica opinione nelle due maggiori democrazie europee (Francia e Gran Bretagna) sembrarono confermare la filosofia di Wilson. Mentre Hitler chiedeva la revisione dei Trattati di Versailles e l'Italia si preparava a invadere l'Abissinia, i cittadini del Regno Unito, nel giugno 1935, parteciparono a una specie di referendum sulla pace e approvarono a grande maggioranza gli ideali della Società delle Nazioni. A Monaco, nel 1938, il Premier britannico e il presidente del Consiglio francese (Chamberlain e Daladier) dimostrarono di essere pronti a considerevoli sacrifici pur di evitare la guerra. Gli avvenimenti dell'anno seguente, quando Francia e Gran Bretagna si risolsero al conflitto soltanto dopo l'invasione tedesca della Polonia, suggellarono la leggenda e ne fecero una incontrovertibile verità storica. E Pearl Harbor sembrò dimostrare che la libera America combatteva soltanto quando era minacciata e provocata da un regime militarista e autoritario. Ma il pacifismo inglese e francese degli anni Trenta era il risultato contingente delle perdite umane che i due Paesi avevano subito durante la Grande guerra e rifletteva la protesta delle opinioni pubbliche contro quello che molti definivano allora il «cinismo delle classi dirigenti». In realtà le democrazie, soprattutto dopo l'avvento delle società di massa, sono state spesso più bellicose dei regimi autoritari. Nel 1898 gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna e invasero Cuba. Nel 1911 l'Italia dichiarò guerra alla Turchia e invase la Libia. Nel 1914 le società democratiche della Francia e della Gran Bretagna salutarono la guerra con lo stesso bellicoso entusiasmo che essa suscitava nelle società un po' meno democratiche degli Imperi centrali. Nel 1956 la Francia e la Gran Bretagna, d'accordo con Israele, invasero l'Egitto. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti mandarono mezzo milione di uomini a combattere in Vietnam. E più recentemente, come lei stesso ricorda nella sua lettera, l'invasione americana dell'Iraq è avvenuta sulla base di argomenti che si sono rivelati insussistenti. Si potrebbe persino sostenere con qualche forzatura, caro Ancona, che certi regimi autoritari possono essere, in alcuni periodi della loro storia, meno bellicosi della democrazia. Né la Spagna né la Turchia parteciparono alla Seconda guerra mondiale. La Russia zarista e l'Unione Sovietica furono spesso considerate un pericolo per la pace d'Europa. Ma non fu la Russia che provocò la guerra russo- giapponese del 1904; e non fu l'Urss che provocò quella con la Germania del giugno 1941.

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