Israele in crisi strategica e di fiducia cinque analisti israeliani a confronto
Testata: Il Foglio Data: 17 novembre 2006 Pagina: 3 Autore: Amy Rosenthal Titolo: «Perché Olmert non è riuscito a vincere la paura di far paura»
Dal FOGLIO del 17 novembre 2006:
Gerusalemme. Il morale in Israele non sembra essere mai stato così basso. Secondo un recente sondaggio, il 73 per cento degli israeliani ritiene che il livello della corruzione all’interno del governo abbia raggiunto livelli intollerabili, e il 60 per cento afferma che ciò gli impedisce di provare orgoglio per la propria nazione. Il Foglio ha intervistato cinque intellettuali israeliani sulla crisi strategica di Israele dopo la guerra contro Hezbollah e con il conflitto sempre in corso a Gaza: Ruthie Blum, del Jerusalem Post; Micha Odenheimer, di Haaretz; Michael Oren, senior fellow presso il Shalem Center; Amos Morris-Reich, professore di Pensiero e Identità ebraica all’Università Ben Gurion; e Yoash Tsiddon-Chatto, analista dell’Ariel Center per la ricerca politica. Poco più di un anno fa, molti israeliani erano a favore di iniziative come gli accordi di Oslo e il disimpegno unilaterale da Gaza, perché credevano che in questo modo si sarebbe potuta ottenere una specie di “normalità”, una specie di pace. Tuttavia, il processo di pace, soprattutto in quest’ultimo anno, è rimasto bloccato. Che cosa è andato storto? “E’ facile rispondere – dice Ruthie Blum – Il fatto è che non c’è mai stato un processo di pace. C’era soltanto Israele che si immaginava che, stabilendo accordi e concedendo territori, avrebbe acceso la scintilla a un processo di pace. Ma la realtà è che i palestinesi e tutto il mondo arabo, che non hanno mai accettato l’esistenza di Israele, non avevano alcuna intenzione di collaborare. Come hanno dimostrato gli eventi dell’ultimo anno, palestinesi e arabi sono impegnati nella realizzazione di un proprio piano per la distruzione dello stato israeliano, e questo piano non è finora cambiato di una virgola”. Micha Odenheimer, che aveva appoggiato gli accordi di Oslo nonché il ritiro dal Libano nel 2000 e da Gaza lo scorso anno, confessa di essere oggi d’accordo con Blum: “Come la maggior parte degli israeliani, sono rimasto scioccato dopo le generose offerte fatte da Israele all’Autorità palestinese nei colloqui di Camp David nel 2000 (che includevano tutta la Cisgiordania e Gerusalemme est, ndr), nell’assistere allo scoppio della seconda Intifada e agli attacchi sferrati proprio dai luoghi dai quali ci eravamo ritirati”. Amos Morris Reich non crede che i ritiri unilaterali siano stati intesi dalla maggior parte degli israeliani come parte di un piano per il raggiungimento della pace: “Il ritiro è stato visto da molti semplicemente come un’apertura fatta per vedere quello che sarebbe successo. Era un test e un’iniziativa in vista di futuri negoziati. Insomma, un gesto di buona volontà”. Michael Oren riconosce che probabilmente molti israeliani credevano che gli accordi di Oslo e la politica del disimpegno avrebbero portato la pace, ma, a suo giudizio, “non c’è nulla che porti verso la pace”. Dopo una breve pausa aggiunge: “Almeno non nella nostra generazione. Il punto è che gli israeliani devono rendersi conto che non siamo ‘in cerca della pace’ ma ‘in cerca di un modo per gestire il conflitto’. E’ questa la sfida strategica, politica e diplomatica che oggi Israele deve affrontare. Ecco, in questo momento non c’è alcuna possibilità di una pace tra i militanti islamici e l’occidente. Anche l’immediata creazione di uno stato palestinese non farebbe cessare il conflitto. Sebbene Israele stia iniziando a far la cosa giusta mantenendo alta la pressione militare, non si impegna abbastanza per colpire direttamente i leader. Così, invece di bombardare i poveri abitanti di Gaza, mi domando perché si lascino vivere personaggi come Khaled Meshaal o Ismail Haniye. Chiunque sia coinvolto con il terrorismo deve pagare personalmente. Punto e basta”. Morris-Reich è d’accordo con Oren sul fatto che in questo momento l’obiettivo principale non è cercare la pace ma gestire il conflitto. “Dobbiamo rinunciare a utopiche speranze di una pace definitiva e passare a qualcosa di più realistico. Non si devono interpretare le mie parole come un segno di rassegnazione, bensì come un segnale di progresso”. “Anzi – interviene Oren – il mutamento strutturale di cui Israele ha più bisogno è quello di ripristinare la sua forza di deterrenza. Il problema del disimpegno, soprattutto a Gaza, è stato che Israele si è ritirato dalla Striscia senza mantenere questo elemento di vitale importanza. Israele si è ritirato e i palestinesi hanno cominciato a spararci addosso; noi non abbiamo risposto e questo ha rafforzato la convinzione che i palestinesi avessero vinto, che fossero stati loro a cacciarci. C’è una connessione diretta tra il fatto che non abbiamo risposto al lancio dei qassam da Gaza e l’inizio del bersagliamento con katiuscia dal Libano meridionale. In sostanza, abbiamo fatto sapere a tutto il mondo arabo che eravamo deboli e che avevamo paura. Perciò, che cosa vi aspettavate che avrebbe fatto Hezbollah? E’ stato questo il fondamentale errore commesso da Israele”. Tsiddon-Chatto è d’accordo nel dire che la deterrenza è la priorità contro la minaccia panaraba e islamica nella regione: “Il paradigma che definisce la deterrenza è legato a tre dimensioni di guerra: la ‘guerriglia-terrorista’, convenzionale e con le armi di distruzione di massa, più vicina e più a lungo raggio di quanto sia mai stata prima. Vorrei ricordare ai liberal pacifisti che una conditio sine qua non per la ‘pace della non guerra’ è la deterrenza”. In riferimento al senso di insicurezza e al morale basso oggi diffusi in Israele, chiediamo quali responsabilità abbia il governo Olmert. Oren risponde in modo inequivocabile: “Il governo ha contribuito in modo decisivo alla caduta del morale”. “Sono d’accordo – interviene Odenheimer –Israele, come ha detto David Grossmann nel suo primo discorso pubblico alla commemorazione di Rabin dopo la morte di suo figlio in Libano, ‘è afflitto da un profondo senso di vuoto e inutilità”. Questo senso si deve alla rottura della solidarietà fra il governo e il popolo. Il popolo israeliano si è convinto che il governo non rappresenti i suoi interessi. Questo ha fatto sì che molti non si considerano più parte di un paese che combatte in nome di qualcosa”. Blum è parzialmente d’accordo: “Il morale è basso perché è molto difficile vivere costantemente sotto attacco senza sapere che cosa fare per impedirlo. Ed è ancora più difficile se non si è pronti ad adottare le stesse misure usate dai propri nemici. Detto questo, penso che la caduta del morale sia dovuta soprattutto all’incapacità del governo di prendere i provvedimenti necessari per sconfiggere i propri nemici. Non appena avremo un governo pronto a dichiarare guerra o almeno a dire che siamo davvero in guerra e che cosa dobbiamo fare per vincere, sono convinto che il morale degli israeliani tornerà alle stelle, proprio come era avvenuto nei primi giorni della guerra in Libano l’estate scorsa”. Tsiddon- Chatto è d’accordo con Blum e dice: “Un governo che non riesce a prendere decisioni decisive, soprattutto quando il paese è sotto attacco, è un rischio per la sicurezza di Israele”. Ma un cambio di leadership sarebbe sufficiente per risollevare il morale del paese? Oren risponde di no: “Ci vuole un cambiamento nella cultura politica e questo dipende da una riforma del governo. Bisogna fare una profonda e ampia revisione all’interno dell’esercito. Magari estromettere una parte dei suoi ufficiali, a cominciare da Dan Halutz, che, a mio giudizio, dovrebbe assumersi la responsabilità di ciò che è accaduto quest’estate e dare le dimissioni. Non vedo come possa costringere militari di rango inferiore ad assumersi la responsabilità, se lui stesso non ha intenzione di farlo. Francamente, questo toglierebbe il morale a qualsiasi esercito. Israele non ha una costituzione scritta e l’intero paese si regge sul consenso, un consenso assolutamente volontario e non sono sicuro che, nel caso di una nuova guerra, i riservisti sarebbero disposti a combattere. Molti di loro pensano: ‘Non sono disposto a morire per questa gente. Sono corrotti e incompetenti. Che sia Amir Peretz a prendere il fucile e andare a combattere’”. Interviene Blum: “Ma dai, Michael, bisogna distinguere tra l’orgoglio per il proprio paese e il disgusto per la corruzione. Si può essere disgustati dai propri politici e ciononostante provare orgoglio per la propria nazione. Detto questo, penso che proprio la caduta del morale stia facendo nascere il desiderio di un cambiamento nel sistema elettorale”. Tsiddon-Chatto dice che Israele avrebbe bisogno di un sistema presidenziale come negli Stati Uniti o in Francia, oltre che di una separazione netta tra stato e chiesa: “Non capisco perché gli ultraortodossi dovrebbero essere esentati dal lavorare e dal fare il servizio militare, godendo però dei benefici sociali, quando i religiosi moderati o i laici devono badare alle finanze del paese e alla sicurezza dei suoi confini. Morris-Reich ammette che “l’attuale leadership non è la più determinata che si possa immaginare e sul piano morale non certo la migliore”. Ma è convinto che “la situazione non sia apocalittica. Gli israeliani aspirano a una classe dirigente più capace. Malgrado tutti i problemi sociali, la corruzione politica, il terrorismo islamico, sanno che bisogna prendere provvedimenti pratici e che non ci sono soluzioni rapide. Comprendono ancora l’importanza dell’espressione ebraica ‘tachles bashetach’, che significa obiettivi concreti. Sebbene il presente sia confuso, il futuro, con la prosecuzione della nostra esistenza, è certo”. Detto questo, Oren confessa di essere più preoccupato per la sorte del paese di quanto lo sia mai stato in tutti i trent’anni che ha vissuto in questa terra di latte e miele: “L’elemento peculiare di questa congiuntura è che il nemico non sono soltanto gli arabi e i musulmani, ma anche noi stessi. Il nemico è la corruzione, il favoritismo e il nepotismo”. Odenheimer esprime il suo assenso e aggiunge: “Se la politica e la società israeliane sono deboli, i nostri nemici, molto più fanatici di quanto avessimo mai immaginato, sfrutteranno subito questa debolezza”. Ma Tsiddon-Chatto vuole chiudere con una nota d’ottimismo, perché Israele “ha una grande capacità di recupero”.
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