Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Ma Israele segue l'unica strategia possibile l'analisi di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 15 novembre 2006 Pagina: 2 Autore: Carlo Panella Titolo: «Perché Olmert non può fare nient’altro che quello che sta facendo»
Dal FOGLIO del 15 novembre 2006:
Oggi Israele soffre di una grave malattia, ha perso il vantaggio dell’iniziativa, che è nelle mani dell’asse del jihad: Hamas, Hezbollah, Siria e Iran. Ariel Sharon aveva salvato Israele dal baratro nel 1973 e ha effettuato il ritiro unilaterale da Gaza proprio perché aveva chiaro che nei momenti cruciali è indispensabile spiazzare l’avversario. Ma la sua malattia ha vanificato gli effetti della mossa su Gaza. Oggi, né Ehud Olmert né Shimon Peres né Kadima hanno la forza di Sharon per replicare il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania e quindi non possono far nulla senza un interlocutore palestinese. Soltanto Sharon, che aveva ucciso politicamente Yasser Arafat, poteva imporre un generoso gesto di pace, senza contrattarlo con il nemico. Ma il premier Olmert non ha un interlocutore palestinese: Abu Mazen non ha forza, Hamas non vuole trattare e dichiara, onestamente peraltro, di lavorare soltanto per la scomparsa di Israele. E’ un quadro insidioso che già si è verificato – nelle sue linee di fondo – una trentina di anni fa, e iniziò con una sconfitta militare cento volte più bruciante di quella recente in Libano. Nel giorno del Kippur del 1973, il mito dell’invincibilità di Tsahal crollò disastrosamente: la linea Bar Lev sul Canale fu travolta, Quneitra, sul Golan, fu persa e soltanto l’eroismo di un pugno di carristi (157 tanks israeliani contro 1.100 siriani) bloccò il dilagare delle divisioni corazzate di Assad in Galilea. Anche il Mossad fu ridicolizzato per aver compreso con sole sei ore di anticipo che decine di migliaia di soldati e decine di Mig si stavano lanciando su Israele. Peggio ancora fu il disastro sul piano politico, perché la responsabilità di quella sconfitta sul campo, della morte di 2.700 soldati israeliani sorpresi da una guerra, era, in prima persona, di due miti del sionismo: Golda Meir e Moshe Dayan. Soltanto la caparbia lucidità di Sharon, che disobbedì ai loro ordini e portò le sue colonne corazzate a 110 chilometri dal Cairo, riequilibrò la partita. La fortuna di Israele, però, fu quella di avere per nemico un eccellente leader militare che si rivelò un leale interlocutore politico: Anwar al Sadat. Il raìs egiziano infatti aveva scatenato quella guerra, per la prima volta, non per distruggere Israele, ma per obbligarlo a trattare, e così fu, dopo la sua epocale visita alla Knesset, il Parlamento israeliano. Ma la grande speranza degli accordi di Camp David (che ancora oggi ispirano la road map) fu poi vanificata dall’assassinio di Sadat che sigillò la vittoria del fronte del rifiuto di Arafat, Saddam e Assad. Alle ferite umilianti di una sconfitta militare fortunosamente evitata, Israele vide così sommarsi il vuoto politico, perché non vi era alcun interlocutore palestinese con cui sviluppare, qualsiasi strategia. Per meglio dire, vi era un interlocutore nazionalista, ma era tanto combattivo e saggio, quanto non rappresentativo: re Hussein di Giordania, che allora esercitava la sovranità sulla Cisgiordania, ma che non poteva trattare a suo nome. Vi era poi un leader arabo rappresentativo, ma con cui non poteva trattare perché intendeva soltanto perseguire la distruzione di Israele: Yasser Arafat. Un quadro simile a quello di oggi che vede Abu Mazen disposto alla trattativa ma non rappresentativo e Khaled Meshal, forte del consenso palestinese ma indisponibile. Si aprì così una lunga fase di stasi (simile a quella odierna) che coinvolse prima Menachem Begin, poi Yitzhak Shamir, poi lo stesso Yitzhak Rabin. Una sequenza di anni persi che furono interrotti dalla prima Intifada e sbloccati da un elemento ricorrente: il marchiano errore di Arafat di allearsi con Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait. Quell’alleanza ruppe infatti la solidarietà araba con l’Olp e dall’isolamento mortale conseguente Arafat potè uscire soltanto subendo il processo negoziale di Oslo. Oggi, nella nuova situazione di stallo, è inutile appellarsi alla ripresa di quel processo negoziale che ora si chiama road map. Israele, infatti, chiunque sia al governo (e non ci sono alle viste altri Rabin o Sharon), non può trattare con Hamas e non certo per ragioni di principio o perché Hamas si rifiuta di riconoscerlo. Ogni apertura di dialogo darebbe infatti a Hamas un segnale concreto, indiscutibile di vittoria della sua strategia basata su stragi, razzi e rapimenti. Non è neanche praticabile l’apertura di una trattativa con la Siria. Dopo le aggressioni subite da parte di Hezbollah e Hamas, eterodirette da Damasco, Gerusalemme oggi non può neanche accennare a un abbandono delle alture del Golan, se non al prezzo di riconoscere davanti al mondo che la strategia di Grande vecchio dei terroristi di Assad padre e figlio è pagante. Qualsiasi mediazione conclusa in questa situazione, imporrebbe ai contraenti (Hamas, Hezbollah o Siria che siano) di riprendere, dopo una tregua, la stessa strategia pagante di stragi e guerra asimmetrica per ottenere un nuovo arretramento di Israele (infatti questa è la proposta che Khaled Meshal avanza da Damasco), sino alla sua auspicata distruzione. Israele ha solo una strada percorribile: contrastare sul piano militare i terroristi (come ha fatto con successo), fare il possibile per rafforzare Abu Mazen, decidere quanta parte della Cisgiordania è disposto a lasciare quando avrà un interlocutore affidabile. Olmert adempie egregiamente alle prime due necessità, tanto che soltanto l’uccisione di 350 miliziani di Hamas negli ultimi tre mesi ha evitato sinora lo scatenarsi della guerra civile tra Fatah e Hamas, e ha permesso ad Abu Mazen di imporre la trattativa. Se nascerà un nuovo governo palestinese “tecnico”, il merito sarà in buona parte di Tsahal e non è cinico dirlo, dopo Beit Hanun, è soltanto una constatazione, anche se in politica, i “governi del velo”, raramente funzionano, e non è affatto detto che il nuovo premier accetti le quattro condizioni poste dall’Unione europea e si riveli un interlocutore affidabile.
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