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Il Foglio Rassegna Stampa
15.11.2006 Intransigenza sul nucleare, legami con Al Qaeda
ecco cos'è l'Iran che qualcuno pensa possa stabilizzare il Medio Oriente

Testata: Il Foglio
Data: 15 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Ahmadinejad annuncia la data del nucleare iraniano e così risponde a Blair che si propone come mediatore»

Dal FOGLIO del 15 novembre 2006:

Londra. Il Daily Telegraph di ieri si apriva con la notizia che, secondo fonti di intelligence, la nuova generazione dei leader di al Qaida è coccolata e formata dai pasdaran di Teheran. L’allarme giunge soltanto pochi giorni dopo l’avvertimento altrettanto preoccupato del capo dell’MI5, Eliza Manningham-Buller, secondo il quale l’attività di cellule terroriste in Gran Bretagna è in costante aumento da due anni. Con una serie di attentati sventati e programmati. In questo clima di crescente apprensione, indebolito dalla fine mandato in corso e dagli scandali che lo inseguono, il premier inglese Tony Blair, per convinzione o convenienza, ha fatto un bagno di Realpolitik o almeno si è voluto mostrare più dialogante che minaccioso. “Allo stesso modo in cui evolve la situazione – ha spiegato – deve evolvere anche la nostra strategia per affrontarla”. Si riferiva all’Iraq, ma più in generale al medio oriente. Alcuni osservatori americani ritengono che non si tratti di un cambio di linea, quanto piuttosto di una divisione dei compiti (e dunque dei toni), tra Washington e Londra, quella tattica dei differenti ruoli così ben descritta dal fuorionda tra Blair e il presidente Bush ai margini del G8 in Russia.
Così il nuovo Blair visto lunedì al Guildhall è uno statista molto pragmatico, che vuole dedicare gli ultimi mesi da capo del governo al negoziato in medio oriente, con un progetto, forse un sogno: una conferenza sullo stile di Madrid e Oslo. La “strategia globale per il medio oriente” illustrata da Blair pare per la prima volta non del tutto in linea con l’Amministrazione Bush. La differenza di sensibilità tocca Teheran. Blair continua ad accusare l’Iran per le sue ambizioni nucleari e a pretendere dalla leadership iraniana, così come dal rais Bashar el Assad, l’abbandono del terrorismo e un ruolo costruttivo rispetto alla questione israelo-palestinese, ma nel proporre a Teheran e Damasco la scelta strategica tra partnership e isolamento, il Blair ultima maniera, pur minacciando espressamente sanzioni, non soltanto sfodera comprensione dinnanzi alla paura iraniana di uno strike contro le sue installazioni, ma puntualizza che gli Stati Uniti “non hanno” alcuna soluzione militare in mente per l’Iran. Una frase che va incontro ai desideri dei sostenitori dell’engagement, per esempio il prossimo segretario alla Difesa americano Bob Gates. Mahmoud Ahmadinejad ha gradito il mutamento di tono. “Hanno (Stati Uniti e Regno Unito, ndr) finalmente accettato di vivere con un Iran nucleare”, ha commentato ieri il presidente pasdaran annunciando entro la fine dell’anno iraniano (21 marzo) una grande celebrazione per festeggiare l’avvenuta “nuclearizzazione”. Downing Street ha escluso che il discorso di Blair possa essere letto come un sos sull’Iraq a Teheran e Damasco, e Washington ha minimizzato, mentre il presidente Bush a colloquio con il premier israeliano Ehud Olmert ha specificato “di non aver letto” il discorso dell’alleato.
Blair parlerà ancora molto di strategia per il medio oriente. Lo ha fatto ieri in video-link con l’Iraq Study Group di James Baker (di cui fa parte lo stesso Gates) e continuerà oggi alla Camera dei comuni e nel discorso che leggerà la regina. Quanto all’Iraq, per Blair l’aspetto cruciale è che “buona parte delle risposte non sono in Iraq, ma fuori dall’Iraq, nell’intera regione dove sono all’opera le stesse forze (che destabilizzano l’Iraq, ndr), dove risiedono le radici della guerra globale al terrorismo, dove fiorisce l’estremismo, dove ha origine una propaganda che può essere, anzi è del tutto falsa, ma nonostante ciò, si dimostra attraente per una buona parte della piazza araba”.
La “strategia globale” di Blair parte dal medio oriente perché, per Downing Street, l’unico modo per sconfiggere al Qaida è riavviare il processo di pace. “Israele-Palestina. Questo è il cuore”. Lo aveva già annunciato il 26 settembre: “Da ora in poi, fino alla fine del mio mandato, mi dedicherò alla promozione della pace tra Israele e Palestina con lo stesso impegno che ho rivolto all’Irlanda del nord”. Nobile intento, ma messo in discussione. Secondo il Times, l’assioma che la guerra al terrorismo potrà essere vinta soltanto quando sarà risolta la questione israelo-palestinese andrebbe rovesciato: le condizioni per una pace duratura potranno emergere soltanto quando sarà stata vinta la guerra al terrorismo. Il sospetto avanzato dal Times è che Blair, sotto pressione per la minaccia terroristica che incombe sul Regno Unito, stia placando l’opinione pubblica islamica flirtando con l’idea che sia la politica di Israele la motivazione che ispira i terroristi islamici, simpatizzanti e fiancheggiatori. Più in generale riguardo al tentativo di coinvolgere Teheran e Damasco, Rosemary Hollis di Chatham House nota: “Sebbene sia logico cercare di includere nella discussione i paesi vicini, la mia impressione è che non ci si renda conto di quali siano i fattori in campo. In questo momento loro sono forti e noi deboli. Con questa strategia loro saranno più forti e noi ancora più deboli”.
Blair, all’acme di questo risveglio realista, medita una grande conferenza regionale che non escluda Teheran e Damasco e lo laurei protagonista assoluto. Per gli estimatori, l’attivismo blairiano non è che il tentativo di imprimere una sterzata alla politica americana, approfittando del terremoto di mid-term: con i nemici bisogna comunque parlare, anche per favorire una soluzione al caos in Iraq, soprattutto nel sud del paese dove operano i soldati inglesi e le pericolose ingerenze dei pasdaran. Per i detrattori, invece, l’ultima linea Blair non è che la conferma della sua “me too attitude”, l’“atteggiamento anch’io”, quello di chi fiuta l’aria e sposa il trend politico del momento come se ne fosse stato dal principio un ardente sostenitore. Una tendenza che in passato lo avrebbe portato a fagocitare numerose istanze tory e oggi lo sospingerebbe sulle posizioni realiste di James Baker e dell’Iraq Study Group. Un tentativo maldestro, secondo lo Shadow Foreign Secretary William Hague, per il quale l’influenza di Blair sulla politica statunitense è dubbia, a maggior ragione “in un momento in cui il suo mandato è agli sgoccioli e sta evaporando anche il suo potere negli affari interni”. Ma quali che siano i sospetti e le critiche che lo inseguono a ogni passo, gli scandali sul finanziamento al partito e lo scambio tra seggi dei Lord, Blair va avanti perché vuole vedere di fronte a sé un possibile ruolo da super peace-maker internazionale. In questa nuova veste, torna a parlare dell’alleanza con Washington: “Dopo l’11/9 non c’erano alleati a metà dell’America. C’erano gli alleati e c’erano gli altri. Noi eravamo gli alleati”. “Eravamo alleati allora ed è così che deve restare, il test di ogni alleanza si misura non quando viene tutto facile, ma quando i tempi si fanno duri”. I tempi sono certamente duri, dunque si ritorna all’idea della divisione di ruoli con l’America: “Quando le persone dicono: vogliamo una politica estera inglese, io dico: certo che la vogliamo, ma nel mondo di oggi la politica estera si basa su alleanze forti e questa è l’unica politica inglese che funzioni”.

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