Tavola rotonda sul futuro di Israele un paese accerchiato che non trova una strategia
Testata: Il Foglio Data: 14 novembre 2006 Pagina: 1 Autore: Giuliano Ferrara, Daniele Bellasio, Paola Peduzzi , Vittorio Dan Segre, Fiamma Nirensten , Angelo Pezzana , Giorgio Israel Titolo: «Quando il gioco si fa molto duro»
Dal FOGLIO del 14 novembre 2006:
Per discutere della crisi di strategia d’Israele il Foglio ha organizzato una conversazione con Vittorio Dan Segre, Fiamma Nirenstein, Angelo Pezzana e Giorgio Israel. Per il Foglio: Giuliano Ferrara, Daniele Bellasio e Paola Peduzzi.
Il Foglio. Il punto di partenza è ovvio: sosteniamo il diritto di Israele a esistere entro confini riconosciuti e sicuri, in una prospettiva di sicurezza esistenziale solida. Tutto questo non è incompatibile con sviluppi di stabilizzazione dell’area che prevedono il riconoscimento del diritto a un focolare nazionale palestinese, a uno stato democratico dei palestinesi, in un quadro della regione mediorientale in cui prevalgano tolleranza e tendenze verso l’apertura culturale, civile, politica, istituzionale alla democrazia, al pluralismo, a un sistema di libertà sulle tendenze attuali che sono invece oligarchiche, tiranniche, teocratiche, fondamentaliste. Qual è la preoccupazione? La verificheremo nella nostra conversazione: Angelo Pezzana è appena tornato da Israele, Fiamma Nirenstein parla da Israele, Giorgio Israel ha continui contatti con quei paesi e studia la situazione dalla sua postazione romana con attenzione partecipe e spesso dolorosa, Vittorio Dan Segre è uno storico del sionismo alla cui vicenda umana ha partecipato in prima persona. A noi del Foglio sembra che siamo a un punto di crisi strategica della capacità di leadership di Israele su se stessa e sull’ambiente difficile e drammatico che la circonda. Mentre siamo di fronte a una nuova e drammatica fase del modello rivoluzionario iraniano e della sua tendenza espansionista. André Glucksmann ha parlato, sul Foglio di venerdì, di “prima crisi prenucleare di Israele”. L’Europa è entrata in ballo, ha trovato un referente in Israele, ma nel momento forse più critico della recente storia israeliana. Cioè, quando Israele è stato messo nella condizione di non vincere e non perdere una guerra, in Libano l’estate scorsa. Anche quella che potrebbe essere una prospettiva di grande interesse – l’Europa che rientra in gioco, l’accettazione da parte di Israele di una forza di interposizione internazionale – arriva in un momento di difficoltà e debolezza di Israele, non di forza negoziale, perché il doppio colpo da sud e da nord (Hamas e Hezbollah protetti da iraniani e siriani) ha avuto conseguenze e non è stato cancellato dalla risposta di Israele. La sensazione è che il governo abbia allargato la sua base parlamentare con l’ingresso come vicepremier di Avigdor Lieberman in un modo non politicamente limpido: la stabilità fa premio sulla chiarezza e sulla coerenza delle prospettive, data la natura del partito di Lieberman e della sua leadership – l’idea di fare di Gaza una Cecenia pare quanto mai bizzarra. C’è poi la funzione dei servizi di intelligence e la loro messa in discussione. Anche per quanto riguarda l’esercito e la sua capacità operativa, siamo in una situazione di crisi, come dimostra il bombardamento di Beit Hanoun. Oggi sentiamo che il rapporto di Israele con la propria immagine riflessa nel mondo è difficile. E non sembra esserci più un’agenda politica forte. Alessandro Schwed ha detto: intorno al coma, all’agonia di Sharon sembra un po’ essersi stordita la capacità di proiezione politica di Israele, della sua leadership, del governo. Perché al ritiro unilaterale da Gaza sono corrisposte le sinagoghe bruciate, un principio di guerra civile senza costrutto che non conduce a una stabilizzazione politica né a una nuova leadership palestinese e poi il lancio dei Qassam e la riproprosizione integrale dello schema per cui Gaza era stata occupata. Il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania è sospeso. Dall’altra parte c’è Abu Mazen: la leadership palestinese, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, non sembra per adesso produrre risultati. Oggi Israele è in crisi, detto da amici e da sostenitori della causa dell’esistenza di Israele, sia come stato degli ebrei sia come nazione che esperisce l’unica possibilità democratica vera del medio oriente, sia come cuore strategico della presenza occidentale post coloniale e non coloniale in terra arabo-islamica. Questo è il quadro orrendo che il Foglio si incarica di disegnare e che spera sia contraddetto il più possibile. Fiamma Nirenstein. Israele è senz’altro in una crisi, perché per la prima volta dal 1948 si trova di fronte a un rischio esistenziale, la sua vita è minacciata senza sosta, e in maniera molto molto aggressiva. Il mondo intorno sta a guardare e seguita ad applicare gli stessi vecchi criteri rispetto agli attacchi di Ahmadinejad, alla carta di Hamas e a quanto poi segue da questa carta: il tutto fin da quando l’esercito israeliano sgomberò, per ordine di Sharon, più di un anno fa, la striscia di Gaza e poi, subito dopo, il popolo palestinese non trovò di meglio che votare Hamas come sua guida nel mentre si distruggevano le sinagoghe. Poi c’è stata la guerra con Hezbollah, nella quale ci sono stati anche errori di Israele, e intanto la Siria seguitava a svolgere il suo ruolo, ospitando Meshaal (leader di Hamas, ndr), assieme ad altre organizzazioni terroristiche, e rifornendo, come fa anche in questi giorni, di armi Hezbollah. Alla testa di tutto ciò c’è la galvanizzazione del mondo islamico guidato da Ahmadinejad, che ha ricreato attorno a Israele la stessa mobilitazione e lo stesso assedio di cui si ha memoria soltanto se si va indietro fino al 1948. Allora gli ebrei avrebbero potuto essere spazzati via, ora in prospettiva potrebbero essere spazzati via. Che cosa salvò gli ebrei nel ’48? Che cosa salvò lo stato di Israele allora e che cosa può salvarlo oggi? Allora lo salvò il senso della missione che lo determinava. Questo popolo, che era passato attraverso quattromila anni di storia, aveva inventato il monoteismo, si era trovato a rischio di sparizione decine di volte, centinaia di volte, soprattutto con il nazifascismo nella seconda guerra mondiale, si trovava invece a resuscitare. Lo accompagnò il senso della missione che c’è fortissimo nelle prime righe della Bibbia, quando dice che Dio creò il mondo, e Dio si librava, lo spirito di Dio si librava sul mondo. Se non ci fosse stato il progresso, ovvero la creazione continua – dal momento stesso in cui Dio si libra lo spirito si libra – e poi il portare avanti la creazione, che è un “working progress”, gli ebrei sarebbero oggi tutta un’altra cosa. Con un salto molto lungo, possiamo ritrovare il senso della missione nello spirito di Ben Gurion, che benché fosse laico portava con sé quest’idea che Israele fosse una costruzione indispensabile al genere umano e individuava nella democrazia, e allora anche nel socialismo, l’idea base su cui l’uomo doveva crescere e costruirsi. E’ attraverso questo incredibile senso di missione, che ha accompagnato il popolo ebraico dalla sua nascita fino alla fondazione dello stato, che Israele si è salvato. Il Foglio. Il commissario Ed Tom Bell, protagonista del romanzo di Cormac McCharty “Non è un paese per vecchi”, nel suo diario scrive sconsolato, considerando la seconda guerra mondiale e la guerra del Vietnam: “Non si può andare in guerra senza Dio”. Nirenstein. Dio naturalmente è una ben complessa vicenda interiore, tanto che Ben Gurion questo senso della finalità, della costruzione, della missione l’aveva trasfigurato in un’ideologia contemporanea poco mistica, ma legata alla tradizione, alla Bibbia. Senz’altro la crisi di leadership da quando Sharon è stato male, da quando non ha funzionato l’enforce peace, è evidente. Anche se i leader ci sono. Barak e Netanyahu, per dire due che stanno su poli diversi della politica israeliana, sono lì, e con loro c’è una quantità di gente molto migliore dei nostri politici, come intellettuali, come leader, come gente pulita. Ma la cosa più importante è che questo senso di finalizzazione salva Israele anche oggi da una crisi profonda, nel senso che Israele ha fatto un’invenzione che è di tutto il mondo: l’uomo democratico che può fare la guerra. Angelo Pezzana. Israele è una democrazia che si trova a fare i conti con stati vicini che democratici non lo sono affatto. La colpa gravissima che l’Europa ha è quella di non avere capito e di dimostrare con i propri atteggiamenti che non gliene importa nulla che Israele sia una democrazia e che gli stati attorno non lo siano. Lo vediamo dagli atteggiamenti della Francia, della Germania di Schröder, dell’Italia di Prodi. In generale l’Ue non ha capito, ma secondo me c’è della malafede profonda, c’è qualcosa che andrebbe studiato alla radice per capire i motivi di questo comportamento. Da qui nasce il fatto che Israele vive sapendo benissimo che dovrà contare sempre e solo sulle proprie forze. Israele è un paese che ha affrontato la guerra di agosto, la guerra al nord, con una fortissima compattezza sociale, umana, intellettuale. Ho visto che, leggendo Haaretz tutti i giorni, persino la sinistra per almeno un mese è stata tra i primi a dire che la guerra andava fatta per evitare di essere assaliti, aggrediti, distrutti e uccisi. Certo la crisi c’è. E’ una crisi di incapacità. Ma è anche una crisi dovuta al fatto che Israele ha vissuto questi sei anni, dal 2000, cioè dall’uscita dal Libano fino alla guerra di agosto, nella convinzione che tutti i suoi atti fossero percepiti come tali. Non soltanto dall’Europa, ma anche dai suoi vicini. Ma poi l’uscita da Gaza, cioè la possibilità sostanziale per i palestinesi di dimostrare che, essendo padroni di un territorio, avrebbero potuto costruire uno stato, si è rivelata, purtroppo, una delusione, perché invece che costruire hanno distrutto quello che gli israeliani avevano lasciato. E che cosa hanno invece costruito? Rampe di missili per lanciarli contro Israele. Delusione anche sul fronte della cooperazione internazionale: l’Unfil, che doveva servire per tenere tranquillo il confine con il Libano, si è rivelata ancora una volta inesistente e uno stato non può permettere che uno stato vicino, con delle sue forze politiche, rapisca i suoi soldati. Israele si è trovato in sei anni a risvegliarsi, dopo un’attività di grande crescita economica, con risultati politici da brutto risveglio. Dan Halutz, capo di stato maggiore, pochi giorni prima del rapimento dei soldati, stava per proclamare le sue vacanze al nord con la famiglia. Questo vuol dire che anche l’intelligence è stata meno affidabile di quello che avrebbe dovuto essere. Tutti pensavano, anche le forze di intelligence, che l’Iran non avrebbe avuto interesse ancora ad aggredire Israele. Qualcuno ha detto, anche qualcuno di molto autorevole, che Nasrallah si è sentito il nuovo Nasser per cui ha colto un’occasione per porsi come immagine guida delle folle arabe e palestinesi e dire “sono io il nuovo vero leader”. Israele è un paese accerchiato. Ha nemici intorno che si propongono di distruggerlo. E l’atteggiamento dell’Europa qual è? Che bisogna imporre il dialogo, che bisogna sedersi intorno a un tavolo. Questo quando Israele è l’unico paese che ha rispettato le condizioni della road map. Mentre i palestinesi, eleggendo Hamas, hanno dimostrato di volere tutt’un’altra conduzione politica del loro futuro in quanto popolo. Israele è sempre chiamata a doversi giustificare, a doversi scusare, quando invece l’aggressore e chi contravviene i patti internazionali sono altri. Questo è l’atteggiamento gravissimo dell’Europa di fronte al quale Israele deve dire nient’altro se non: “Contiamo sulla nostra forza”. Andando a Washington, il premier israeliano Olmert ha dichiarato in maniera molto franca che un’azione militare contro l’Iran non è da escludere. Quello che finora era detto in maniera un po’ ambigua e in modo da far capire all’Ue e all’America che Israele non deve essere lasciata sola, ora è detto in modo più esplicito. Olmert sta mettendo in pratica quello che molti analisti israeliani gli avevano consigliato di fare: parlare con i vicini con la lingua turca. Perché la Turchia, quando subiva gli attentati organizzati da Ocalan e dal Pkk, il partito comunista curdo, che aveva la sua base in Siria, che cosa aveva fatto? Aveva detto a Damasco: o tu chiudi immediatamente tutte le basi del Pkk nel tuo paese, ti do 48 ore di tempo, o con i miei aerei bombarderò tutte le tue istituzioni più importanti. Che cosa ha fatto la Siria? Entro 48 ore ha consegnato Ocalan via Italia ai turchi, ha chiuso tutte le sedi e ha detto: “Ok, va bene”. E’ un atteggiamento incomprensibile per noi europei, ma col mondo arabo, dove viene rispettata la forza e non la buona volontà, la democrazia, il dialogo, è una delle carte che Olmert farebbe bene a giocare. Sta cominciando a giocarla, dando retta ad analisti tutt’altro che reazionari. Sono convinto che l’Iran, di fronte a una minaccia chiara che gli procuri anche un ripensamento sul suo modo di comportarsi, potrà essere utile. Se nessuno gliela fa, questa minaccia, è giusto che gliela faccia Israele. Giorgio Israel. La crisi esterna è evidente e Israele ha sempre avuto il problema dell’accerchiamento, che oggi è un accerchiamento sempre più stretto. E per la prima volta, s’aggiungono caratteristiche asimmetriche che rendono difficilissimo gestire l’accerchiamento, non soltanto nella campagna con il Libano, ma anche in quella a Gaza, comportando difficoltà strategico-tattiche enormi. Dal punto di vista interno, non bisogna essere troppo pessimisti, però c’è un problema di classi dirigente serio, che non è soltanto relativo alla classe politica in senso stretto ma anche al ceto intellettuale, a chi fa opinione, ai giornali e così via. Riprendendo un articolo di Ari Shalit sull’invasione del politicamente corretto: lo si sente, è frutto forse di una timidezza nata nella classe dirigente israeliana, nata da una pressione esterna propagandistica, mediatica, massiccia che fa sentire Israele colpevole. Noi siamo stati abituati per decenni a vedere un Israele che tirava diritto, fregandosene di tutto quello che il mondo diceva, e questa è stata una forza. Certo, c’erano degli elementi di debolezza, perché c’era una certa rozzezza diplomatica, una certa incapacità persistente a fare propaganda e così via. Ma c’era un elemento di forza, quello di dire: noi sappiamo che c’è della malafede e per questo tiriamo dritto per la nostra strada: questo elemento sembra incrinato oggi. Vale per Israele e vale per noi qui. Non si può più accettare quella che i francesi chiamano la “langue de bois”, la lingua di legno, cioè dire cose formalmente buone, apparentemente giuste e vere, che sono in realtà delle immense menzogne. Ne cito alcune: questo mantra, queste litanie sullo stato palestinese… Lo vogliamo dire? Uno stato palestinese ha un senso se e soltanto se si riesce a far nascere uno stato democratico, in cui ci sia una volontà di coesistenza con Israele spinta al massimo. E’ inutile nascondersi dietro un dito: la nascita di uno stato palestinese fatto in due pezzi separati, e quindi con una necessità di collegamento, richiederebbe un grado di coesistenza che non c’è neanche in Svizzera tra i cantoni. I pragmatici sono al solito i peggiori idealisti. Quelli che dicono che bisogna fare questa cosa non si rendono conto che o produce una catastrofe o semplicemente la distruzione di Israele. Nel contesto attuale, con il programma di Hamas e con la debolezza di Abu Mazen – che peraltro è profondamente ambiguo – con i propositi che vengono fatti di una trattativa sul cosiddetto documento dei prigionieri, tutto questo viene fatto con la prospettiva di andare verso un’idea di stato palestinese che ha come corollario lo smantellamento d’Israele nel medio periodo, se non nel breve. Il Foglio. Nella disgraziata ipotesi che tu abbia ragione, che cosa è proponibile come alternativa? Israel. La prima richiesta che un governo israeliano e chiunque di noi abbia un atteggiamento solidale nei suoi confronti dovrebbero fare è una dichiarazione inconfutabile senza condizione del diritto di Israele a esistere. Questa non è mai stata fatta, mai, non l’ha fatta mai nessuno. Soltanto in parte l’Egitto, certamente non i palestinesi, mai la Lega araba, mai la stragrande maggioranza dei paesi arabi. O questa cosa avviene o è chiaro che Israele deve guardare la realtà in faccia e, come nel passato, continuare ad andare avanti con questa doppia identità, come diceva Shalit: quella di essere un pezzo di Europa in un ambiente ostile. Questa è la prima cosa che renderebbe non dico fattibile ma realistica l’idea di uno stato palestinese: il riconoscimento senza condizioni preliminari dell’esistenza dello stato di Israele. Faccio altri esempi: bisogna smettere con la litania della potenza di Israele, di Israele invincibile. Questa è la litania dei suoi nemici e io spero che non diventi la litania dei governanti israeliani, spero che non credano di possedere una potenza militare tale da rendere impossibile la distruzione di Israele. Non è vera questa cosa, l’abbiamo visto quest’estate: Israele può anche possedere l’atomica, ma mi chiedo se sia possibile uscire da questo genere di situazioni tirando l’atomica. Un altro esempio: la questione Unfil, su cui batto spesso perché ritengo sia cruciale. Israele non ha mai accettato in passato l’idea che i suoi interessi fossero affidati agli altri, tantomeno all’Onu, tantomeno a questi osservatori dell’Onu tipo Unifil che in Libano sono stati vent’anni a guardare la costituzione della rete terroristica di Hezbollah. Oggi noi siamo di fronte a un autentico scandalo internazionale, che è anche un fallimento, e da qui nasce anche l’ipocrisia, dell’Europa, di una serie di governi europei tra cui il nostro: abbiamo una forza sgangherata, modesta, molto inferiore rispetto a quella che si diceva all’inizio, la quale sta lì, ma non può neanche fare i checkpoint, non può fare nulla, sta a guardare come prima la costituzione di una forza di Hezbollah più forte di prima, con l’aggravante che ora Hezbollah vuole entrare nel governo con un terzo della rappresentanza, cioè si rafforza. L’unica cosa che questa forza ha saputo fare è dire che se Israele non smette di fare i sorvoli di ricognizione forse potrebbe sparargli addosso, cosa senza precedenti dal 1948. E Israele non ha ottenuto nulla, non ha ottenuto il rilascio dei prigionieri. Questo è di una gravità straordinaria, perché appanna l’immagine di Israele, dà un’idea di un Israele colpito, ferito, che non ha ottenuto nulla e che viene umiliato. Questa è un’umiliazione che una parte dell’occidente sta facendo subire a Israele e io ritengo estremamente grave che il governo israeliano continui a ringraziare l’Europa per avergli fatto questo regalo avvelenato. Così come trovo che un eccesso di chieder scusa sia un segnale non buono. Sono rimasto sconcertato quando ho letto la dichiarazione di Olmert che diceva ad Abu Mazen: incontriamoci e rimarrà sorpreso da quanto Israele ha da offrirgli. Questo è sconcertante perché sembra una dichiarazione stop-and-go. Perché oggi uno non può dire ad Abu Mazen venga a vedere e rimarrà sorpreso: questa è una questione che riguarda la sicurezza dell’intera nazione, quindi quello che il governo Olmert può offrire dovrebbe saperlo l’intera nazione e non può essere riservato a sorprese fatte in privato. Si ha l’impressione di una situazione politica sgangherata in cui si è prodotto un circuito particolarmente dannoso e cioè questo governo indebolito per tenersi in piedi deve tenersi appeso, quasi impiccato, alla missione Unifil e accettare questa situazione perché l’ammissione del fallimento costituirebbe l’ultimo colpo nei confronti di questa situazione politica. Nel passato Israele si è trovato in situazioni drammatiche, come la guerra del Kippur e altre, e ne è uscito con un sussulto di unità nazionale e secondo me si deve passare da un simile passo in questa situazione. Se non si percorre questa via, la situazione peggiorerà, anche perché le forze esistono e deve esistere una volontà di superare i dissensi, che sono marginali rispetto alla gravità della situazione. Per questo ritengo che la politica di Israele è indietro rispetto alla volontà che la nazione ha espresso di sopravvivere, di andare avanti. Vittorio Dan Segre. Che Israele si trovi davanti a una fase di crisi acuta non c’è alcun dubbio. Detto questo, due sono i problemi: uno immediato e uno più a lungo termine. Non c’è niente di più pericoloso in politica dei leader deboli che fanno la voce grossa, ed è questo il problema di Olmert e della dirigenza israeliana. Il paese lo sa e non ha fiducia in questa dirigenza e vuole trovare il modo di sbarazzarsene. Siccome Israele è una grande democrazia, il paese lo farà in modo chiaro e nei tempi legali. Questa dirigenza sarebbe stata eccellente in tempi normali, ma non è all’altezza della crisi in cui si trova Israele. Detto questo, Israele troverà nella crisi le energie per ritrovarsi. Non bisogna dimenticare che solo dalla guerra può nascere la pace. L’aspetto a lungo termine è quello legato all’illegittimità d’Israele, intendo dire che nei rapporti internazionali lo stato di riconoscimento da parte degli altri stati pesa. Oggi una catena di stati non accetta la sua esistenza. Anche se dal punto di vista della sua legalità internazionale e dal punto di vista storico Israele è assolutamente legittimo. In passato aveva delle dirigenze di uomini forti, di fondatori di stati, di “eroi”. Il problema di Israele è di avere in ogni generazione il bisogno di una dirigenza di fondatori, cosa che Olmert e altri uomini politici non sono perché non si può continuamente rifondare lo stato. Io non credo che il problema fondamentale sia la ricerca di un nuovo leader, ma penso che ci sia bisogno di dare fiducia alle forze che sono presenti nel paese. Poi c’è un ultimo punto. Gli ultimi incidenti sono stati senza dubbio tragici: causare il male è molto triste, ma non bisogna dimenticare che chi fa male lo fa soprattutto a se stesso, mentre gli stati che circondano Israele hanno l’intenzione di far male a Israele. Ecco credo che con questo si condannino loro, perché niente è più pericoloso di qualcuno che vuol far male intenzionalmente e non si rende conto che facendo questo fa soprattutto male a se stesso. Ecco, non credo che questi paesi vinceranno con situazioni apocalittiche (bombe atomiche), penso soprattutto che questi paesi stanno distruggendo se stessi, sia perché sono dei paesi a monocultura sia perché non si possono creare dei rapporti internazionali basati sulla vendetta e sulla falsità. Ecco, nei rapporti con Israele gli arabi e purtroppo adesso anche gli iraniani hanno sviluppato una politica fondata su questi due elementi negativi: la vendetta e l’odio. Se io fossi un arabo o iraniano – e io spesso mi vedo con loro – sarei molto più preoccupato per l’avvenire degli stati arabi e dell’Iran di quanto un israeliano dev’essere preoccupato per l’avvenire d’Isreale. Perché Israele è uno stato fortissimo che ha delle capacità di rinascita, di ricostituzione e di rinnovamento straordinarie, che proprio nella crisi verranno fuori. Il Foglio. Quanto alle nostre responsabilità? Noi siamo in un paese in cui il ministro degli Esteri sta defindendo una linea che da Kabul a Gaza, da Teheran a Beirut consiste sostanzialmente in questo: internazionalizzare le crisi, metterle tutte sotto l’egida dell’Onu, costruire un multilateralismo se non un multipolarismo, in cui trionfi la via del dialogo e sia consumata quella storica premessa del dialogo che menzionavi prima: sono le guerre che fanno la pace, le situazioni di squilibrio bilanciato in genere portano più a guerre rovinose. Segre. Credo che ciò sia allarmante per l’Italia, perché da un punto di vista pratico non so come l’Italia possa contribuire. L’internazionalizzazione delle crisi presuppone un fatto: che gli internazionalizzatori abbiano il potere di agire, com’è stato nel caso dell’Afghanistan e nel Kosovo. L’Italia è disposta a fare una politica di internazionalizzazione di un conflitto con delle truppe italiane che hanno l’autorizzazione di combattere? Non si può usare l’esercito per scopi di pace, per scopi di pace si mandano i missionari e i volontari. L’esercito combatte. Il problema dell’internazionalizzazione in Libano è che sono stati mandati degli ottimi soldati senza il diritto di combattere, non hanno il permesso né di difendersi né di portare a termine la missione determinata dalle risoluzioni dell’Onu. Sono impotenti. Nirenstein. Vorrei ricordare una cosa consolante. Nel 2000, quando comincia l’Intifada dei terroristi suicidi, c’è uno scombino di carattere prima di tutto umano e politico, ma anche tattico e strategico. Sono usciti cinquemila articoli, tra cui miei, in cui si diceva che il terrorista suicida è la bomba intelligente più pericolosa perché non può essere fermato. Eppure, quando Sharon, dopo averci pensato un anno mezzo, lancia l’operazione “scudo di difesa” riesce a ottenere il successo: il terrorismo suicida è stato battuto. Israele ha imparato a fare tante cose, tra cui costruire il recinto di difesa. Quest’impresa è stata tra le meno sanguinose che si possa immaginare. E ha risolto il problema. Perché? Perché la gente continuava a fare jogging la mattina. Una volta ho fatto una coda perché c’era stato un attacco suicida e fu chiesto immediatamente di andare a donare il sangue. Che cosa ho visto? La gente in coda per dare il sangue, tanta, ci voleva la polizia per tenerla ferma, tutti litigavano su chi era primo in coda. Questa è Israele e per tutti quanti ha affrontato la guerra asimmetrica. Perché questa è la nostra crisi. Israele affronta il problema che per la prima volta della storia non ci sono più terroristi, ma ci sono eserciti terroristi. Avete visto Hamas?, che cosa sta preparando a Gaza? Un’hezbollizzazione totale: gallerie sotterranee, 20 tonnellate di tritolo belle e pronte, razzi di varia fabbricazione, presenza di Hezbollah, gite avanti e indietro con la Siria e l’Iran per prepararsi a una guerra. Lì c’è un esercito nascosto sotto le case della popolazione, con le armi sotto le case della popolazione. Israele come l’affronta? Con dei ragazzi che non sono affatto politicamente corretti, perché io li voglio vedere ragazzi italiani che ti dicono che loro stanno lì per difendere la loro casa, la patria, la mamma. Stiamo sbagliando tema, il tema non è quello della crisi della società israeliana, ma è quello della crisi di valori della nostra società, che risente di una mancanza di responsabilità nei confronti della democrazia. Siamo dei neofascisti in qualche modo, non abbiamo più il senso della responsabilità di difendere la democrazia. Pezzana. Sono convinto che nell’interesse di Israele ci sia anche la costituzione dello stato palestinese. Per motivi demografici, statistici. E’ un obiettivo che Sharon voleva ci e per questo ha creato Kadima, e voleva raggiungerlo col piano di convergenza e con la definizione dei confini. Chi si oppone a tutto questo? L’Iran. Hezbollah vive grazie alle armi russe che passano attraverso l’Iran, girano in Siria e arrivano a loro. Hamas è la stessa cosa. Oggi il problema gravissimo ha un nome solo: Iran. Per questo bisogna fare la voce grossa. E sarà difficile perché abbiamo un ministro degli Esteri che non so se riconoscerlo più in Ribbentrop o in Molotov. Israel. La preoccupazione è vedere proiettarsi all’interno della politica israeliana alcuni mali caratteristici della decadenza dell’occidente. Isreale è stato un esempio di spezzone d’occidente che sa ancora fare la guerra restando democratico e che sa dare un senso alla propria esistenza. Non vorremmo – ed è la cosa che più preoccupa – che qualche schizzo del veleno che disgrega l’occidente contamini Israele. A noi compete il dovere di non parlare con la lingua di legno e cominciare a dire con chiarezza tutta una serie di cose: sono d’accordo con Pezzana sulla questione dello stato palestinese, Sharon aveva ragione, è essenziale una separazione. Ma senza l’eliminazione di quell’anomalia di cui parlava Vittorio Dan Segre – il riconoscimento dello stato d’Israele – la creazione o solo un inizio di trattative per la creazione di uno stato per i palestinesi significa accettare una china che porta verso un tenativo esplicito dello stato d’Israele. A noi, in Europa, spetta denunciare questo aspetto. Perché è vero che Israele è forte, ma nessuno è invincibile. Esiste un problema generale di difficoltà di fare la guerra che alla fine contamina anche Israele: in occidente si ha molta difficoltà ad accettare di morire mentre di fronte c’è un avversario che ha fatto proprio il motto “viva la muerte!”. L’occidente ha ribaltato il motto “si vis pacem para bellum” in “si vis bellum para pacem”. Ora è da vedere se questo sia frutto di incoscienza o di un cinismo legato alla necessità di ottenere piccoli vantaggi temporanei o se ci sia addirittura un elemento di profonda antipatia per Israele, per cui lasciarlo in balia delle difficoltà dà in fondo una segreta soddisfazione. Nirenstein. Israele – attraverso piccoli movimenti, commissioni, esperti – sta cercando la strada. La minaccia va presa molto sul serio, però non dimentichiamo che Israele ha abbracciato finora una prospettiva pacifica, ma ha un sistema di difesa missilistico importante e che sta aumentando: sarà quasi impenetrabile il suo spazio aereo. Detto questo, voglio tornare al tema morale, ovvero la politica di colpevolizzazione di Isreale, portata avanti dalla comunità europea e da quell’arma di distruzione di massa che è la stampa internazionale. Bene, se l’Europa e la stampa continuano in questa politica di colpevolizzazione non solo falliscono l’obiettivo di capire la realtà, ma vanno verso un’azione suicida. Quello che Israele ha fatto per tutti non va dimenticato: è riuscito a costruire l’homo israelianus, capace di andare al pub la sera e di combattere le guerre, che vive in una società povera e svantaggiata e che ama il divertimento. Questa è la straordinaria combinazione. Cosa ha fatto Israele? Ha individuato la terribilità del nemico, quello che a noi sfugge ancora oggi. Pezzana. Un tribunale argentino ha emesso un mandato di cattura internazionale per Rafsanjani (ex presidente iraniano, ndr), perché sotto il suo governo l’Iran si è reso responsabile della morte di 200 ebrei. Mi sembra una notizia non da poco e non ha avuto nessuna importanza su quasi nessun giornale italiano. Ahmadinejad, con molta più violenza di Rafsanjani, predica la distruzione di Israele. E questo è un fatto che dovrebbe far riflettere, perché le nostre autorità politico-diplomatiche si muovono come se Ahmadinejad fosse un normale leader con il quale intrattenere buoni rapporti, come se non avesse mai detto nulla. Io sono molto preoccupato, perché sabato prossimo ci saranno due manifestazioni diverse, una a Milano e una a Roma. Entrambe le manifestazioni sono dettate dal fatto che bisogna essere solidali con i palestinesi di Gaza. Io credo che questa sia una posizione inaccettabile: noi dobbiamo essere solidali con le vittime e le vittime sono nate perché c’è stato un attacco e continua a esserci da parte dei palestinesi e di Hezbollah che sparano contro Israele. Se i missili Qassam non cadessero su Israele, Israele non manderebbe nessun soldato a Gaza. Questo non passa neppure per l’anticamera del cervello del nostro governo e del nostro ministro degli Esteri. Tutte le sue dichiarazioni hanno sempre preso di mira Israele, è accettabile tutto questo? Il Foglio. D’Alema si vanta di avere buoni rapporti con Olmert e Livni (ministro degli Esteri israeliano)… Pezzana. Israele ha fatto gli occhi dolci all’Italia nel momento in cui la Francia stava per prendere il comando totale di Unifil: a Israele conveniva che ci fosse qualche presenza europea che condizionasse il tutto… Se l’analisi del professor Sergio Della Pergola – che ci dice che l’Austria nel 2005 avrà una maggioranza islamica – e se la situazione è questa, dobbiamo dire che il nostro ministro degli Esteri è lungimirante. Prepara già noi cittadini a quello che sarà l’Europa nel 2050. Allora, come reagiamo a tutto questo? Stiamo a seguire le manifestazioni di sabato prossimo e disapproviamo dal teleschermo, oppure è il caso di riprendere l’iniziativa pubblica per fare in modo che si sappia che c’è una parte di questo paese che ritiene Israele un baluardo dei valori in cui noi crediamo. Che poi Israele sia un paese forte è l’unica cosa che ci fa sperare. Segre. Il primo punto importante è la messa a fuoco dell’ipocrisia. Tutto colpisce gli ipocriti, i quali rischiano il suicidio morale, ma in medio oriente rischiano il suicidio fisico. Se si vuole avere un’idea di cosa rappresenta questo suicidio bisogna guardare a Gaza. Era una fattoria dalle uova d’oro. Per motivi politici gli israeliani dovevano andarsene, d’accordo. Ma che cosa spiega la distruzione di tutte le istallazioni che davano – e potevano ancora dare – lavoro a migliaia di palestinesi? Secondo punto. Su una cosa tutti gli israeliani sono d’accordo: la caccia gratuita all’ebreo è finita. Il prezzo che i nemici d’Israele sanno che oggi devono pagare è molto molto differente da quello che dovevano pagare in passato. Terzo punto. La guerra in Libano è stata malcondotta, ma ha avuto un grande vantaggio. Ha dato quello che in lingua americana si chiama un “advance warning”, un avvertimento anticipato. Israele sapeva, ma forse non aveva interiorizzato, che cosa significava avere un nemico come l’Iran alle sue frontiere. Oggi lo sa. Le istituzioni – che in Israele sono molto solide, molto più dell’attuale governo – stanno reagendo e si stanno preparando a questo nuovo scontro, che c’è da augurarsi non abbia luogo. I nemici d’Israele sanno che il prezzo che dovranno pagare sarà tanto grave che ci penseranno due volte prima di agire. Dietro tutto questo c’è anche una morale positiva, anche se può suonare un po’ romantica. Israele fa paura, come il monoteismo mosaico-morale, come ha sempre fatto paura a tutti i governanti. In che cosa consiste questa paura? Nasce dall’idea di un fossile che si risveglia. Il medio oriente è composto da mosaici di fossili. L’esempio israeliano turba questi stati nazionali fasulli e illegittimi agli occhi delle loro popolazioni e nei confronti spesso della loro stessa storia. Perché bisogna soffocare Israele? Perché è un fossile che rinasce e va fermato prima che incendi il mosaico di fossili del medio oriente. Non so se è una missione, ma è uno stato di fatto e la grande speranza di quello che è il baluardo non solo della democrazia, ma della volontà di uno stato che, nonostante tutto, vuole essere morale.
Di seguito, le note biografiche di Vittorio Dan Segre, Fiamma Nirenstein, Angelo Pezzana e Giorgio Israel:
Diplomatico e accademico, emigrato in Palestina nel 1939, Vittorio Dan Segre ha partecipato di persona alla nascita di Israele. Dal ’67 all’89 si è dedicato alla carriera diplomatica, abbandonata per l’insegnamento, Università di Haifa, Oxford, Mit di Boston e Stanford. Nel 1997 ha creato a Lugano l’Istituto di studi mediterranei. Il suo ultimo libro è “Le metamorfosi di Israele” Utet), che si apre così: “Non ho dubbi che fra mille anni gli ebrei esisteranno ancora come tali. Non ho dubbi che fra mille anni lo stato d’Israele non esisterà più”.
Giorgio Israel, studioso di storia della scienza e della matematica, insegna presso l’Università La Sapienza di Roma, dove dirige il Centro interdipartimentale di ricerca e di metodologia delle scienze. Le sue riflessioni sul ritorno dell’antisemitismo nell’agenda di alcuni governanti in medio oriente trovano spazio in saggi e articoli pubblicati da riviste e quotidiani, come per esempio il Foglio e il settimanale Tempi, ma si possono leggere anche sul suo blog. Il suo ultimo libro, pubblicato da Marietti, s’intitola “Liberarsi dei demoni".
Fiamma Nirenstein, fiorentina doc, è giornalista e scrittrice. Laureata in Storia moderna, lavora da Gerusalemme dove si occupa di medio oriente e terrorismo internazionale. Le sue analisi si possono leggere sulla Stampa e su Panorama. E’ stata fra le prime, in Italia, a occuparsi di fondamentalismo islamico e a raccontare la strategia di Hamas e Hezbollah intorno alla Striscia di Gaza. Con i suoi saggi contribuisce a chiarire in che modo l’antiebraismo s’è riaffacciato in medio oriente e, con sfumature diverse, anche in Europa.
Angelo Pezzana, fondatore del Fuori, Fronte unitario omosessuali rivoluzionari, primo movimento gay italiano, ha studiato ebraico a Gerusalemme e coordina il portale Informazionecorretta.com, su come i media presentano Israele e il medio oriente. Collabora con diverse riviste tra le quali Ideazione ed è autore di “Quest’anno a Gerusalemme”, un libro di 26 racconti autobiografici dagli anni ’30 a oggi di donne e uomini italiani di origine ebraica: racconta lo scenario con il quale hanno dovuto confrontarsi dopo essersi trasferiti in Israele.
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