Per commentare il veto USA alla mozione di condanna dell'ONU a Israele, scegliamo la corrispondenza dal CORRIERE della SERA di oggi 12/11/2006, a pag.11, di Ennio Caretto, da sempre ostile alle ragioni dello Stato ebraico e fortemente critico nei confronti della politica del governo Bush. I lettori non mancheranno di notare il tono dell'intero articolo, che dà si la notizia, ma circondandola da un linguaggio più adatto ad un editoriale che ad una cronaca. Caretto vorrebbe una condanna di Israele, la fuga degli USA dall'Iraq, l'arrivo delle " colombe" al posto dei "falchi" alla difesa. Lo stesso programma che si augurano i nemici dell'occidente. Sottolineiamo le righe più indicative:
ecco l'articolo:
WASHINGTON — L'amministrazione Bush è forse disposta a rettificare la rotta sull'Iraq, ma non lo è di certo su Israele. Lo dimostrano un annuncio ieri del Pentagono di una profonda revisione del conflitto iracheno, e il veto posto contemporaneamente dagli Usa all'Onu a una risoluzione di condanna dell'incursione israeliana a Gaza che fece 19 vittime, tra cui 13 donne e bambini. Approvata da 10 dei 15 membri del Consiglio di sicurezza, con 4 astensioni, la Danimarca, l'Inghilterra, il Giappone e la Slovacchia, la risoluzione è stata bocciata da John Bolton, l'ambasciatore americano, sebbene fosse stata edulcorata dal Qatar che l'aveva presentata.
Bolton ha giustificato il veto, applaudito a Gerusalemme, dicendo che la risoluzione era «squilibrata e politicamente motivata», e che danneggiava «la causa della pace tra israeliani e palestinesi per cui noi lavoriamo così assiduamente». Il Qatar aveva evitato di accusare Israele di massacro o terrorismo di Stato, ed esortato la Palestina a stroncare la violenza contro Israele, invitando anche l'Onu a mandare una missione a Gaza «onde accertare i fatti». Ma Bolton ha insistito sul diritto dell'alleato all'autodifesa. Il veto è arrivato alla vigilia della visita di domani del premier israeliano Olmert al presidente Bush. Sul tappeto il Libano, la Palestina e l'Iraq. A proposito di quest'ultimo, Olmert ha ammonito che un eventuale disimpegno americano «non deve alterare gli equilibri in Medio Oriente».
E' la stessa posizione di Bush, che parla non di una strategia di uscita ma di vittoria a Bagdad. A differenza che su Israele, però, il presidente è stato ultimamente sottoposto a forti pressioni sull'Iraq da tre parti: il Pentagono, il mondo politico Usa e gli alleati. Ieri il New York Times ha rivelato che il 25 settembre il generale Peter Pace, il capo di Stato maggiore delle forze armate, ha affidato ai migliori e più brillanti cervelli del Pentagono — un comitato dei colonnelli — una drastica revisione del conflitto iracheno. Pace lo ha confermato: «Dobbiamo darci una buona, onesta strigliata su che cosa cambiare e come in maniera da fornire le opinioni militari più giuste al ministro della Difesa e al presidente».
Il presidente Bush ha fornito nuovi indizi su una possibile sterzata nella strategia Usa in Iraq, presentando Robert Gates, l'uomo da lui scelto per sostituire Donald Rumsfeld alla Difesa, come «un fattore di cambiamento», nel suo discorso radio del sabato.
Potrebbe essere una svolta cruciale. Allo scambio di consegne tra Rumsfeld, il falco dell' amministrazione, e Gates, una possibile colomba, i generali finora esautorati cercano di riprendere il controllo della guerra. Pace, il primo italoamericano a ricoprire la carica, ha rifiutato di scendere nei particolari «per non tradire le nostre intenzioni al nemico». E alla domanda su cosa consista la vittoria ha risposto: «Nel creare una situazione in Iraq che consenta al popolo e al governo di funzionare». Significativamente il generale ha aggiunto che «mentre non ci si può sbarazzare del terrorismo per sempre, si può raggiungere un adeguato livello di sicurezza». Pace ha precisato che discuterà del suo piano segreto con il Gruppo di studio sull'Iraq guidato dall'ex segretario di Stato James Baker, il fido di Bush padre. Dalle indiscrezioni del Pentagono, Baker e il generale sarebbero d'accordo su due punti fondamentali: un riposizionamento delle truppe americane all'interno del Paese per eventuali interventi d'emergenza, in parallelo al rafforzamento delle truppe irachene nelle città; e la convocazione di una conferenza regionale con la partecipazione di Siria e Iran. Un segnale contraddetto dalla polemica dichiarazione della Casa Bianca di ieri che, nelle parole di Tony Snow, è tornata a definire Iran ed Hezbollah (e dunque implicitamente la Siria) di essere una «congrega del terrore» e aggiungendo che l'Iran è il Paese leader nel mondo nello sponsorizzare il terrorismo.
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