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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
11.11.2006 Troppa comprensione per il tiranno
sul sito web del settimanale cattolico

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 11 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Saddam,chiesta la pena di morte per l'ex dittatore iracheno»

Famiglia Cristiana nel numero 46 on line pubblica un articolo di Fulvio
Scaglione intitolato “Saddam chiesta la pena di morte per l’ex dittatore
iracheno”.


Il giornalista analizza l’attuale situazione irachena soffermandosi sulla
condanna all’ex  Presidente nei confronti del quale, pur non provando
simpatia, ritiene ingiusta la  condanna a morte che un tribunale iracheno
gli ha comminato per uno dei tanti crimini che hanno costellato la sua
carriera di dittatore sanguinario.

Ebbene,  anche se è condivisibile il concetto che la pena di morte non
“appartiene più alla nostra mentalità giuridica di italiani” non riteniamo
che Saddam debba essere considerato un “criminale comune”. Non riteniamo
inoltre di esagerare definendo le azioni di Saddam contro i curdi e contro
il suo stesso popolo “crimini contro l’umanità”.

I cattolici e i loro seguaci sono liberi di pensarla diversamente ma
crediamo che il popolo iracheno, che ha patito atroci sofferenze sotto il
regime di Saddam, debba essere altrettanto libero di giudicare, attraverso
un proprio tribunale, un “massacratore di iracheni, curdi, sanniti e
sciiti”.

L’articolo prosegue con i consueti toni critici nei confronti
dell’amministrazione americana.

Gli americani hanno effettivamente commesso alcuni errori nella gestione
del conflitto iracheno, eppure l’Occidente “buonista” non può dimenticare
che è solo grazie all’intervento americano e alla conseguente caduta del
regime di Saddam Hussein che il popolo iracheno ha potuto per la prima
volta esercitare il diritto di voto (e lo ha fatto anche sotto la minaccia
delle bombe dei terroristi), ha una propria costituzione e una stampa
libera.

Provare simpatia o anche solo pena per Saddam Hussein ’Abd al-Majid
al-Tikriti, 69 anni, dittatore dell’Irak dal 1979 al 2003, massacratore di
iracheni curdi, sunniti e sciiti e fomentatore di almeno tre guerre
disastrose per il suo Paese, ma anche per i Paesi da lui aggrediti (Kuwait
e Iran), è impresa che si può chiedere solo agli incoscienti. E noi non lo
siamo.

Ma la pena di morte, che gli è stata comminata dal tribunale di Baghdad per
la strage di 148 abitanti di Dujail, sterminati dai suoi sgherri dopo che
nel villaggio era stato scoperto un piano per attentare alla sua vita, e
che ora dovrà essere confermata in appello, non appartiene più alla nostra
mentalità giuridica di italiani e di europei. L’abbiamo cacciata dai nostri
costumi (altra eredità di quelle famose "radici cristiane" di cui tanto si
parla, anche a sproposito), l’abbiamo felicemente rinnegata.


Questa realtà non cambia a seconda dell’imputato. Nemmeno se il condannato
è un sicuro colpevole, un personaggio orrendo come Saddam. Questa sentenza,
dunque, non ci appartiene. E infatti è una "cosa" tutta americana, come del
resto tutto ciò che riguarda l’Irak. Poteva forse finire diversamente un
processo che gli Usa hanno fortemente voluto a Baghdad, sotto la loro
egida, dopo essersi rifiutati di partecipare al Tribunale penale
internazionale (quello, per intenderci, che ha processato Slobodan
Milosevic) e aver respinto ogni proposta per trasferirlo in una sede
davvero internazionale?


Poteva finire diversamente un processo organizzato dall’unico Paese
democratico al mondo (gli Usa, appunto) che ancora applica con regolarità
la pena di morte (sei esecuzioni in ottobre, altre sei previste per
novembre) e la cui Corte costituzionale nel 2002 ha emesso una sentenza per
consentire l’esecuzione di persone mentalmente ritardate e che fin dal 1989
ammette l’esecuzione di detenuti minorenni?


Ma soprattutto: poteva finire diversamente il processo al tiranno
sanguinario di un Paese che doveva essere liberato in pochi giorni e
ricostruito in pochi mesi e che si è, invece, trasformato in una trappola
senza uscita?


Ovvio che no. I sostenitori di Silvio Berlusconi ci hanno abituati, in
questi anni, a sentir parlare di "sentenze (o incriminazioni) a
orologeria", sospettando che certi atti giudiziari fossero sincronizzati
sulle scadenze politiche o elettorali. Converranno allora che i magistrati
italiani sono dei poveri dilettanti a confronto dei loro colleghi iracheni
che, dopo quasi tre anni di indagini e dibattimenti (Saddam fu arrestato il
13 dicembre 2003), sono riusciti a sfornare questa condanna a morte proprio
alla vigilia delle elezioni in cui, negli Usa, i repubblicani rischiano di
perdere la maggioranza alla Camera e al Senato. Forse anche per questo
George Bush ha esultato, unico tra i leader del mondo, e ha parlato di «un
bel giorno per l’Irak».


In realtà, la condanna di Saddam Hussein influirà poco o nulla sulla
situazione in Irak, persino se dovesse davvero salire il patibolo. Il
tiranno non è mai stato altro che un tiranno, e il suo presunto "carisma" è
evaporato non appena i soldati americani sono entrati a Baghdad e gli hanno
tolto il potere.


Né la guerriglia sunnita né il terrorismo che si richiama ad Al Qaeda
l’hanno mai preso a simbolo dei propri agguati e neppure le bande più
estremiste hanno mai dichiarato di sognare un suo ritorno al comando.
Facciamo l’ipotesi che Saddam finisca davvero impiccato: che cosa può
peggiorare in Irak, dove nel solo mese di ottobre sono morti in
combattimento 103 soldati Usa, la media dei civili morti per terrorismo è
da mesi attestata sui 100 al giorno, il numero delle persone emigrate per
paura supera ormai il milione e mezzo? Dove lo Stato sta in piedi soltanto
appoggiandosi alle spalle dei soldati americani e dove dal 2003, secondo lo
studio di una rivista scientifica inglese famosa per serietà e prudenza
come Lancet, i morti civili sono stati più di 650.000? Dove i ministri dei
Governi provvisori che si sono fin qui succeduti finiscono in galera per
corruzione e furto? Anche sull’analisi di questi fatti, è l’opinione
pubblica degli Stati Uniti a dare lezioni di democrazia al resto del mondo.


Da noi, le teste d’uovo che nel 2003 propagandavano da tutte le tribune la
guerra in Irak oggi tacciono o parlano d’altro. Da loro, invece, parlano
con grande libertà persino i giornali dedicati alle Forze armate, che hanno
chiesto le dimissioni del ministro della Difesa Donald Rumsfeld.


E si allunga la lista dei pentiti: Richard Perle (ex teorico della guerra
preventiva) ammette di aver sbagliato tutto, Kenneth Adelman (ex membro del
Consiglio per la politica di Difesa) giudica l’amministrazione Bush «la più
incompetente tra tutte quelle del dopoguerra», David Frum (l’uomo che
scrisse per Bush il famoso discorso del 2003 sull’Asse del male) dice che
«Bush leggeva le parole ma non assorbiva le idee».


Il dramma dell’Irak è ormai tale, insomma, che anche la sorte di Saddam
Hussein rischia di essere, a questo punto, un particolare di secondaria
importanza.

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