Se cedono i soldati di Churchill l'analisi di Daniele Raineri sull'impegno militare britannico in Iraq
Testata: Il Foglio Data: 10 novembre 2006 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Se cedono i soldati di Churchill»
Dal FOGLIO del10 ottobre 2006
Il prossimo paese a lasciare la guerra contro il terrorismo dichiarata dagli Stati Uniti è il Regno Unito? La relazione speciale fra inglesi e americani – che ha retto due guerre mondiali e regge il patto atlantico – non è più così speciale. Lo stesso tipo di pressione che due giorni fa ha costretto Donald Rumsfeld alle dimissioni dall’Amministrazione di Washington è al lavoro con molta più potenza a Londra. La fibra del paese – i suoi militari, i suoi cittadini – comincia a non sentire più quell’impegno morale verso la Casa Bianca dichiarato – anche se “con riluttanza”, come disse nel 2003 il ministro degli Esteri Jack Straw – dalla classe dirigente. A fine settembre il primo ministro britannico, Tony Blair, ha annunciato le proprie dimissioni entro un anno, in anticipo sulla naturale scadenza del mandato. Blair è stato obbligato a sacrificarsi per fermare una quasi rivolta del partito di governo, il Labour. La rabbia dei suoi – che si sentivano appoggiati dai sondaggi popolari – era scatenata dal sostegno senza paura di Blair alla politica estera di Washington. Il mese prima il deputato del Parlamento George Galloway sfilava per le strade della capitale sotto la bandiera gialla del Partito di Dio sciita, lo stesso affiliato a quelle milizie sadriste che fanno pulizia etnica in Iraq e sparano anche ai soldati britannici (l’ultimo lo hanno ammazzato quattro giorni fa). Il Regno Unito non ritirerà il suo sostegno all’America soltanto per queste cose. Intanto, però, a Blair è stata inflitta la punizione educativa “che gli spettava” per collaborazionismo con George W. Bush. Il 13 ottobre scorso è arrivata l’alzata di capo in stile latinoamericano di Sir Richard Dannatt, che ha dettato al governo civile – lui, capo dei militari, e non nella penombra piena di fumo della war room ma con un’intervista – che cosa si deve fare in Iraq. “Dobbiamo ritirarci presto, perché la nostra presenza sta esacerbando la situazione. Aggrava il problema, anziché risolverlo”. E’ la linea delle videocassette testamentarie degli incursori suicidi del 7 luglio 2005: pronunciata però con addosso le mostrine di capo di stato maggiore dell’esercito britannico. Anche in America ci sono stati generali che hanno denunciato pubblicamente il loro malcontento. Ma per farlo hanno aspettato di essere in pensione, per non tradire la continuità gerarchica che disciplina e consola i soldati sotto il fuoco. Sui fianchi lavorano i sondaggi-notizia. Il quotidiano Times dice che la maggioranza degli inglesi – 63 per cento in un sondaggio-notizia confezionato e comprato a settembre – è convinta che la miglior difesa dal terrorismo sia separare la propria strada da quella degli Stati Uniti. Secondo un altro sondaggio-notizia, da poco acquistato e pubblicato dal Guardian, George W. Bush è la persona che più minaccia la pace del mondo, anche più del dittatore atomico della Corea del nord, Kim Jong Il (non considerando Osama bin Laden, che lo precede di due soli punticini percentuali). Così il paese porta se stesso in missione all’estero. Nell’esercito britannico il tasso di diserzione, da quando è cominciata la violenza in Iraq, è raddoppiato. I soldati che sono fuggiti dal proprio posto sono circa un migliaio. Nello stesso periodo, il numero dei soldati inglesi trovato positivo ai test sulle droghe pesanti è raddoppiato. Dopo l’11 settembre, per contro, il tasso di diserzione dell’esercito degli Stati Uniti è cominciato a scendere – nonostante le missioni di combattimento – fino a diventare la metà rispetto a prima. Sotto quella pressione, cedono persino gli uomini del Sas, lo Special Air Service, il reggimento di truppe speciali più duro e addestrato del regno. Ben Griffin ha lasciato il servizio attivo perché – ha dichiarato in un’intervista – “non mi sono arruolato nell’esercito britannico per fare la politica estera di Bush. E nemmeno mi piacciono gli americani. Sono nell’esercito o perché sono “crociati” o perché devono pagarsi il college. E neanche mi piacciono i metodi che usano. Quelli sono troppo trigger-happy (hanno il grilletto facile)”. Due compagni di Griffin nel Sas, che qualche mese prima filavano su una macchina civile alla periferia di Bassora – un’operazione coperta del reggimento, con parrucche e vestiti arabi – sono stati intercettati dalla polizia. Per non bruciare la loro copertura hanno estratto le armi. Hanno soppresso un agente e ferito gli altri. Sono stati catturati lo stesso. Dopo poche ore di prigionia, sono arrivati i loro commilitoni a bordo di dieci blindati. Hanno sfondato il muro della prigione di Bassora usando un mezzo come ariete a motore, hanno recuperato i loro compagni – un altro centinaio di prigionieri, tra loro anche estremisti catturati dalla polizia, ne ha approfittato per fuggire – e si sono ritirati sparando sugli sciiti furiosi che gettavano contro di loro bottiglie molotov e pietre. Altri due morti. Quello è stato l’incidente più imbarazzante – e scandalosamente “trigger happy” rispetto ai rastrellamenti americani – per i rapporti della Coalizione con il legittimo governo iracheno di Baghdad da almeno due anni a questa parte. “Disfattismo rivoluzionario” Con la caduta di Donald Rumsfeld, in un angolino della Gran Bretagna alzano di nuovo la testa, sopra il pelo della storia, due vecchie categorie latenti, marginali, di sinistra. Cose che un tempo – quando il paese era una potenza imperiale preoccupata di concedere senza svendere l’autonomia ai suoi territori, o quando era impegnata a resistere e poi a prevalere sul nemico nazista – non trovavano spazio. Una è quello che Lenin chiamava “disfattismo rivoluzionario”. Quando si deve combattere il nemico interno – Tony Blair amico di George W. Bush – al potere nel proprio paese, allora si può anche lasciarlo da solo mentre è alle prese con un pur temibile pericolo esterno. Del resto lo dicono i sondaggi, il presidente americano è quasi pari con Osama bin Laden nella classifica delle minacce alla sicurezza del mondo. Ma Osama bin Laden è lontano: o è morto oppure è in dialisi in qualche ospedale frontaliero del Pakistan. George W. Bush, invece, divide la colazione con il premier. La seconda categoria è di nuovo del primo Novecento. Suona (lugubre) così: “Se i talebani afghani colpiscono i nostri convogli, le milizie sciite bersagliano con una pioggia logorante di razzi e colpi di mortaio i nostri soldati a Bassora e le bande di fanatici sunniti torturano i nostri ingegneri civili e ci ammazzano nella nostra Tube, lo fanno sullo sfondo di un disegno che è razionale e dà loro ragione perché stanno vincendo”. Tanto vale, per questo storicismo incoscio e remissivo, intuire da quale parte sta arrivando l’ondata della Storia e concedere partita vinta. Esagerazioni? Sicuramente. Ma sono lontani i tempi in cui la Gran Bretagna sentiva il senso spavaldo e non negoziabile della propria missione, come oggi fa ancora l’America. In quei tempi, il comandante Arthur Harris, direttore del Comando bombardieri britannico che ogni notte tempestava le città germaniche, fermato da un poliziotto per alta velocità – “Sir, andando così forte rischia di uccidere qualcuno” – diceva: “Boy, io uccido migliaia di persone ogni notte”. Oggi il capo di stato maggiore critica il governo; il Sas, gli specialisti più temuti dell’esercito, fanno obiezione di coscienza. E le basi e gli aeroporti, quando i reparti inglesi tornano in patria dalle missioni per il normale avvicendamento dei turni, sono deserti. Nessuno festeggia chi sta “esacerbando la situazione”. Dall’altra parte del fronte gli estremisti lo sanno e alimentano questo tormento nazionale con grande soddisfazione. Lo scorso 27 ottobre è stato addirittura l’editorialista di un giornale governativo egiziano, al Masa, a congratularsi con loro: “Sono molto felice quando mi dicono che un soldato americano o inglese è stato ucciso. Quando il presidente americano George Bush e il suo compagno inglese Blair capiranno che c’è un prezzo di sangue per le loro forze se rimangono in Iraq, allora capiranno anche che sono colpevoli prima di tutto davanti alla loro gente”. “Noi non facciamo come loro” In Iraq, fin dall’inizio dell’intervento militare nel 2003, i soldati inglesi tenevano a differenziarsi dagli alleati americani. “Noi non facciamo come loro, ci siamo tolti gli elmetti e gli occhiali da sole per guardare negli occhi la popolazione locale. Il metodo che abbiamo noi è ‘raid and aid’, colpisci i cattivi e aiuta tutti gli altri. Non chiedeteci – ridevano i soldati – come chiamiamo il metodo degli americani”. Occorre riandare agli affettuosi reportage di Olga Craig, per il Daily Telegraph, di tre anni fa. “Nelle strade di Bassora, nell’Iraq meridionale, i soldati britannici, con anni di esperienza alle prese con popolazioni civili in zone di guerra come nei Balcani, in Sierra Leone e nell’Irlanda del nord sono salutati – rispetto alla diffidenza che ispirano gli americani – come salvatori”. “Questo pomeriggio i soldati giocheranno a calcio contro i locali e questa sera si sono offerti volontari per ridipingere la scuola del posto. Agli iracheni piace fermarsi a chiacchierare quando passano vicino alla nostra postazione, stringere le mani ai militari e portare loro pasti cucinati in casa. ‘I nostri metodi per trattare con la popolazione sono molto, molto differenti da quelli degli Yanks’, dice un ufficiale mentre ingurgita un caffè. ‘Disgustoso, ma a loro piace quando noi lo beviamo’”. Stuart Crawford, un alto ufficiale diventato consulente privato di affari militari, riconduceva immancabilmente le ragioni di questa superiorità sul campo al passato coloniale: “Il background culturale spiega in larga parte il nostro successo nell’Iraq meridionale. La Gran Bretagna ha tradizioni imperiali. Alle truppe inglesi è stato inculcato l’ethos e la tradizione della politica coloniale, quando piccoli avamposti erano ogni giorno a stretto contatto con le popolazioni indigene. Ma l’America – concludeva sconsolato – è una nazione giovane senza un passato coloniale”. L’illusione si spezzò quasi subito. Tra le altre cose, gli inglesi non videro i finanziamenti e il lavoro in senso contrario, e ogni giorno sempre meno sotterraneo, della quinta colonna iraniana di guastatori venuta da oltre confine (anzi, in alcuni casi li arruolarono per mantenere l’ordine). Il 25 giugno i britannici provarono a ripulire dalle armi la cittadella di Majar al Kabir. Sapevano di non poter chiedere la consegna dei kalashnikov – ogni famiglia ne possiede uno – ma chiedevano piuttosto che tutte le armi pesanti, mortai, lanciarazzi, mitragliere, fossero consegnate a uno speciale comitato. Fu persino firmato un patto, che l’ufficiale inglese si guardò bene dal siglare con una firma leggibile. Diceva che non c’era bisogno in cambio della consegna delle armi della presenza delle truppe della Coalizione in città. Il giorno dopo, al passaggio di una pattuglia di paracadutisti, scoppiò la sollevazione popolare. La folla inferocita si diresse verso la stazione della polizia, dove sapeva che sarebbero arrivati sei uomini della polizia militare inglese. Il sergente Tim – come gli agenti locali chiamavano con vezzo coloniale il capo della pattuglia di istruttori – e i suoi uomini avevano lasciato la radio a bordo della loro Land Rover. Non poterono chiamare rinforzi. S’illudevano di trovarsi in territorio non ostile, furono tutti linciati. “Gli inglesi non sono riusciti a controllare Belfast, molto più piccola e con molte meno armi, con 27 mila uomini – dice Ian Bruce, esperto militare e corrispondente dell’Herald – “pensare che possano controllare Bassora è una speranza vana”. A metà ottobre i miliziani hanno attaccato le tre stazioni della polizia di Amarah, città di 900 mila abitanti, e le hanno fatte saltare in aria. Ottocento uomini con il cappuccio nero delle milizie e armati di mitragliatrici e lanciarazzi hanno invaso le strade a bordo dei mezzi presi alla polizia e hanno istituito posti di blocco lungo le strade d’accesso. Almeno 30 poliziotti e 20 civili sono rimasti uccisi, in uno dei colpi più duri all’autorità del primo ministro iracheno, e sciita anch’egli, Nouri al Maliki. Gli inglesi, sfiancati dai colpi di mortaio nella loro base appena fuori della città – 283 tra marzo e agosto – e bisognosi ogni due settimane di almeno 160 camion di rifornimenti in convogli vulnerabilissimi, avevano abbandonato Amarah due mesi prima. “Il nostro – avevano spiegato i comandanti – è soltanto un ridispiegamento tattico”. Abu Mahdi, comandante di basso livello delle milizie sciite, dice che, dopo aver “liberato” Amarah, pochi chilometri a nord, “Bassora è la prossima”. “I miei uomini sono dappertutto, chi riesce a vederli, gli inglesi? La gente nelle strade ha capito che siamo noi a comandare in città”. Bassora è il gioiello della corona irachena. Dalla sua provincia arriva il 90 per cento degli introiti petroliferi – anche se il dieci per cento ogni giorno è sequestrato dalle milizie e contrabbandato oltre confine – ed è l’unico sbocco sul mare. Oggi i britannici sono 7.200. Da sette mesi hanno abbandonato il berretto floscio che portavano all’inizio in favore dell’elmetto, come gli americani.
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