L'eredità politica e morale di Ariel Sharon un articolo di Alessandro Schwed
Testata: Il Foglio Data: 10 novembre 2006 Pagina: 3 Autore: Alessandro Schwed Titolo: «Nel sonno di Sharon l’intontimento di Israele, tra storia e “avanti”»
Dal FOGLIO del 9 ottobre 2006:
Ariel Sharon va a picco in un sonno abissale. La sua effige vegetante è attraversata dentro e fuori da una rete di cannule, sensori, ventose, filamenti elettroplastici che coprono il suo corpo iper-reale, golem ospedaliero che svanisce dalle parti di Tel Aviv. Ariel Sharon slitta nella penombra, in una stretta zona non buia in procinto di divenirlo – il limbo di chi esiste e non c’è. Poi passerà il confine. Se prima di tale estenuata fine moderna, Sharon guarirà dall’infezione cardiaca che l’affligge, lo staccheranno dal respiratore – la sua guarigione sarebbe questa: respirare – allora sarà portato a morire nella sua fattoria. Qualche mattina fa, le sue condizioni erano precipitate. Là dove si trova, allo Sheba Medical Centre, il suo corpo per così dire vivente è stato trasferito dal reparto di riabilitazione respiratoria all’unità di cura intensiva. Adesso non affluiscono notizie: va bene, perché va meno peggio. E c’è una questione, latente, che in qualche modo rende ancora più compatto il silenzio attorno all’epilogo di Ariel Sharon. Tra due ore, una settimana, sei mesi, quando lui si libererà di questa vita epidermica, e morrà, sarà posto il sigillo su un’epoca di Eretz Israel. Se ancora esiste una sua realtà soggettiva, possiamo immaginare che a rimandare la fine sia quel tratto del carattere che fu il suo modo di essere dedito alla nazione ebraica. Sino all’estremo; e anche sino all’estremismo. E ora, è come se alla veglia di Israele su Sharon, corrispondesse quella di Sharon su Israele. Come se il paese fosse stato colto di sorpresa dal suo passo estremo. Senza i vestiti adatti alla nuova stagione, e Sharon era l’ultimo vestito rimasto ad Israele. Adesso la situazione è che non è visibile un disegno, dopo la – evaporata? – terza via di Kadima. Cioè, avanti oltre il sionismo, e a quel che si vede, avanti oltre il fatto che a ogni reazione militare nella Striscia, col mutare del quadro politico, compresi i rapporti di forza al Congresso Usa, Israele rischia un isolamento politico senza precedenti. Che quasi si respira nell’aria, vedendo come Hamas sia legittimata come una normale forza politica. E allora sembrerebbe come se il corpo dell’ex primo ministro avesse deciso di restare, finché chissà da dove non spunti qualcuno e riprenda la direzione lanciata con Kadima. Dunque il corpo di Ariel Sharon è di sentinella. Resiste. Lui che più che il militare, o il politico, nella vita è stato un trave d’Israele. Fin da quando era nato, nel ’27, presso la cooperativa agricola di Kfar Mala, sparsa realtà di pionieri ebrei lituani, gente che con una mano costruiva e con l’altra sparava. E così ha continuato a vivere, in modo rude ed essenziale, spesso non capito; esagerato, incomprensibile, duramente sfrontato. Odiato. Propenso alla praticità, e non ad altro – dato che agli ebrei nessuno regala mai niente: si è sempre trattato di strappare la vita. Adesso, più il trave d’Israele sopravvive, e più la debolezza che lo avvolge diventa una chiave di lettura. Una forza magica. Mentre corre questa incompiutezza – la sua vita che non si conclude; mentre corre la cronaca, le guerre, i rapimenti, gli scudi umani, lo scontro fra Hamas e l’Olp, gli attacchi di Tsahal nella Striscia – la vita di Sharon che non si compie trova uno specchio nella condizione di Israele, da decenni nell’empasse tra la guerra e una pace irta di lutti. Va da sé che mentre da un canto Sharon viene partorito alla morte, non solo Israele non è affatto in procinto di morire, ma a volte mostra un compiuto epos di pace. Guardando le foto del complesso ospedaliero dove abita il corpo di Sharon, si scopre a un tratto che non solo lo Sheba è il miglior ospedale del medio oriente, ma è un bellissimo posto. E allora vediamo una nazione che mentre era in guerra ha eretto una cittadella della medicina che è un’opera d’arte dell’accoglienza; e si capisce che a causa di un’antica dolcezza ebraica, questa nazione è una madre e considera i suoi cittadini figli. Allora guardando il luogo dove Sharon è accompagnato alla morte, siamo presi da uno scorcio di speranza. Poi la realtà. I razzi Qassam sui villaggi ebraici, la risposta colpo su colpo di Tsahal, nei Territori come in Libano; le minacce di Hamas; la strategia mediatica degli scudi umani. Lo scandalo del presidente Katzav e lo stato politico e morale del paese. La cronaca di Israele è un furioso assolo di batteria; e durante l’esecuzione vediamo un parallelo sostanziale fra la vita per modo di dire di Sharon e quella per modo di dire di Israele. La crudele sospensione che avvolge entrambi; il futuro che non viene a rigenerare la vita. Come se non fosse più una questione di pace, ma di un duello su chi crollerà per primo. C’è dunque questo atroce rispecchiamento tra il corpo di Israele e quello di Sharon; tra un povero malato che non muore e Israele che dal suo primo giorno non riesce a vivere; a passare dall’infanzia sionista alla vita adulta – ammesso che essere sionisti sia un’infanzia e non la condizione naturale della nazione ebraica. La fonte dal cui primo sorso è iniziato Israele. Rimane questo fatto atroce che per Israele non c’è mai stato un futuro – ma guerra. Eppure, mentre Sharon continua lungamente a morire, Israele è a un bivio. Potrebbe diventare un paese come gli altri, con la corruzione, la disoccupazione, le lobbies, i partiti. I mass media. E a un tratto appare chiaro che quando il corpo di Sharon avrà smesso di esserci, il paese si troverà senza l’ultimo dei padri fondatori. Per unica eredità, l’assedio arabo, e l’inizio – o il proseguimento – dell’odio europeo. Intanto, attraverso il vuoto lasciato, Ariel Sharon fa sentire forte e chiaro da quale storia venga la nazione, di quale unità abbia bisogno, di che risolutezza, di che dedizione. Quasi diremmo, che scienza. Viene in mente un passo quella sua sconvolgente intervista ufficiosa, volitiva e disperata, scandalosamente vera, rilasciata nel 1982 ad Amos Oz. L’intervista a un trave d’Israele. “Io distruggerò chiunque alzerà una mano sui miei figli, distruggerò lui e i suoi figli, con o senza la nostra famosa purezza delle armi (…) Non sentiremo più ripetere le assurdità sulla famosa moralità ebraica, sulla lezione morale dell’olocausto o sulla immagine di purezza e virtù degli ebrei emersa dalle camere a gas”. Adesso non possiamo non pensare che la sua ultima parola pubblica, quella più udita, è stata “Kadima”: avanti. A Israele, kadima nel futuro; a se stesso, kadima oltre il passo finale.
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