È un altro momento difficile per Israele a causa della vita spezzata a tanti civili innocenti palestinesi di Beit Hanun. È il momento dell'ira, riaccesa dalla rabbia del mondo arabo e islamico, dal gelo imbarazzato dei Paesi amici, dalle perplessità inquietanti riaffiorate all'interno fra i cittadini dello Stato ebraico. Soprattutto per il vulnus creato nella loro coscienza dall'offesa alla sacralità della vita, e, ovviamente, per la percezione della nuova incombente minaccia di una reazione violenta dei gruppi armati palestinesi innescata dal massacro nella Striscia di Gaza. Il Dio di Israele è il «Dio della vita», ogni ebreo conosce il valore della vita, in circostanze liete brinda alla vita, e le stragi di donne e di bambini, quelle causate ad altri e quelle subite da altri - e di entrambe ce ne sono state parecchie in quasi sessant'anni di conflitto - provocano sempre spazi neri, di offuscamento e di smarrimento. Questo lo sottolineano in molti in queste ore. Anche perché l'ammissione del proprio errore, ancorché proclamata e accompagnata dal rammarico, non viene generalmente recepita. Nella considerazione altrui, e in quella mediatica in particolare, appare soltanto la colpevolezza di Israele. Con la conseguenza che si innesta ancora una volta il ciclo perverso della vendetta, delle rappresaglie. Di altra morte. Il governo Olmert in questo frangente della strage di Beit Hanun dà quindi l'impressione di annaspare nell'isolamento, non riesce a venir fuori dalla spirale in cui si consolida la negazione dello Stato ebraico nell'Eretz, nella Terra promessa, l'avversione alla sua esistenza in mezzo al mondo arabo. Cancellare Israele dalla carta geografica non è solo l'auspicio del regime fondamentalista iraniano, ora è ancora l'esplicito impegno dei fondamentalisti di Hamas che esprimono l'attuale governo palestinese e condizioneranno quello di unità nazionale a cui tende il presidente Abu Mazen. È, inoltre, improbabile che la sconfitta elettorale di George W. Bush possa modificare il sostegno degli Stati Uniti a Israele, una politica che democratici e repubblicani hanno sempre condiviso; e poi il presidente è ancora a metà mandato. Piuttosto inquieta il fatto, nella protervia degli estremismi, che nel governo d'Israele segga da poco un personaggio come Avigdor Lieberman, il russofono che propugna uno Stato ebraico "depurato" dalla componente araba, anche di quella che vive in Galilea, con cittadinanza israeliana, e che vede realizzabile una soluzione cipriota, con due realtà nazionali separate. Una visione politica respinta però, occorre dirlo subito, dalla maggioranza degli israeliani.
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