Dal FOGLIO del 9 novembre 2006
All’una del pomeriggio il segretario della Difesa americano, Donald Rumsfeld, parla con il presidente George W. Bush su una linea sicura. “Questo non è un atto criminale – dice dall’Executive Support Center del Pentagono – questa è guerra”. Sono passate meno di quattro ore dall’attimo in cui i dirottatori suicidi hanno fatto schiantare l’American Flight 77 contro un’altra parte dell’edificio, e la polvere e la fuliggine, penetrate nel sistema di ventilazione, sono riuscite ad arrivare anche nella stanza da cui sta parlando. Rumsfeld, in camicia e cravatta, ha aiutato a portare via i feriti nei primi soccorsi. Poi si è messo in contatto con il presidente alla base dell’Air Force di Barksdale, in Louisiana. * * * “Fu un cambio d’orizzonte improvviso e completo – ricorderà poi Douglas Feith, sottosegretario alla Difesa – sia strategicamente sia intellettualmente. Se gli attacchi dell’11 settembre 2001 erano una dichiarazione di guerra – come Rumsfeld capì dentro il Pentagono che ancora bruciava – la risposta richiedeva un sacco di idee e di elaborazione”. Un lavoro intellettuale per strateghi solidi. Il segretario alla Difesa ha organizzato la risposta americana con efficienza spietata. Una delle prime cose che ha fatto è stata promuovere un approccio territoriale, a zona di azione, nella lotta contro il terrorismo. Invece che inseguire ogni singolo estremista, Rumsfeld sapeva bene che ogni organizzazione terroristica, per condurre operazioni ostili per un periodo di tempo prolungato, ha bisogno di una base sicura, ed è lì che occorre colpire, sia l’Afghanistan dei talebani sia l’Iraq dove già si nascondeva al Zarqawi prima dell’intervento della Coalizione nel marzo 2003. Allo stesso tempo, Rumsfeld ha tagliato attraverso l’elefantiaca macchina delle forze armate americane e l’ha trasformata in un dispositivo più snello, al cui interno i comandanti delle Forze speciali sono autorizzati a pianificare e a eseguire missioni per proprio conto con il minimo di interferenze burocratiche. “L’obiettivo – diceva sempre ai suoi – è che il processo per passare attraverso la burocrazia militare richieda soltanto ore, meglio minuti, e invece non giorni o settimane”. E’ così che è stato preso Saddam Hussein, nella tana vicino Tikrit, e così che è stato ucciso l’inafferrabile macellaio del jihad, Abu Mussab al Zarqawi. Ma il suo processo innovativo ha poi investito tutte le forze armate, e non soltanto la punta di lancia delle forze speciali scatenate sulle tracce di al Qaida. Rumsfeld comincia la rivoluzione nelle cose militari che porta l’esercito americano nel ventunesimo secolo. E’ la net war: è guerra non tradizionale, portata con gruppi dispersi di combattenti non incatenati a un comando centrale, che si coordinano e comunicano tra loro grazie ai nuovi mezzi elettronici. Non c’è più una sequenza di passaggi prestabiliti, ammasso di uomini e mezzi, manovre, e infine combattimento campale. Funziona. Vince due guerre. Rumsfeld rovescia il regime dei talebani in sette settimane di combattimenti nel 2001. Due anni dopo, in Iraq, caccia i baathisti dal potere in tre settimane. Il punto debole della sua net war, quello che ha favorito la sua sconfitta politica, è che le stesse unità che in guerra accelerano verso il nemico in scorribande micidiali e affettano disperdendo i lenti schieramenti convenzionali, non sono poi adatte al controllo del territorio liberato. In Iraq è mancata e manca la cosiddetta “fase quattro”. Le forze ridotte – gli americani sono 150 mila, invece dei 400 mila richiesti dai generali più tradizionalisti – non riescono a presidiare il territorio da sole. Le forze irachene non sono ancora pronte al passaggio delle consegne. I terroristi sunnniti e le milizie sciite si insinuano in questo vuoto di potere e trasformano il paese in un bagno di sangue quotidiano. * * * A dispetto dei suoi leggendari scoppi d’ira, quando Rumsfeld racconta la sua guerra è fascinoso. L’ormai ex segretario alla Difesa raggiungeva i suoi uomini sul campo in Afghanistan. E’ il Natale del 2001. Ricorda l’incontro con un gruppo straordinario di soldati: le forze speciali che hanno dato l’assalto e conquistato la roccaforte nemica di Mazar i Sharif. Dal momento in cui sono atterrate in Afghanistan, quelle truppe hanno cominciato ad adattarsi alle circostanze e al terreno. Si sono lasciate crescere le barba, hanno indossato i tradizionali cappucci pashto, per spostarsi salgono su cavalli addestrati a non temere il crepitio automatico delle armi da fuoco. Usano muli da soma per attraversare un terreno tra i più impervi del mondo – racconta Rumsfeld, e sta portando la prova provata che la net war, da lui elaborata, ha veramente funzionato – cavalcano di notte, nelle tenebre, sull’orlo di campi minati e su piste di alta montagna a strapiombo, così vertiginose che uno dei soldati gli dice: “Mi ci è voluta una settimana per allentare la presa terrorizzata con cui tenevo il mio cavallo”. Mentre stabilivano i primi contatti, e poi iniziavano a coordinarsi e a esercitarsi con le forze antitalebane dell’Alleanza del nord, imparano dai loro nuovi alleati la terribile realtà della guerra sul terreno afghano, e li aiutano con armi, cibo, rifornimenti, tattiche e addestramento. Preparano assieme l’assalto a Mazar i Sharif. Il giorno stabilito, una delle squadre delle forze speciali scivola attraverso le linee nemiche, pronta a guidare i bombardamenti dal cielo. Le esplosioni saranno il segnale convenuto per muovere all’attacco.Quando il momento arriva, illuminano con i loro puntatori laser i bersagli a favore degli aerei della Coalizione e cominciano fissare gli orologi. “Due minuti”, “trenta secondi”, “quindici secondi”. Quindi, dal nulla, una grandinata di bombe ad alta precisione si rovescia sulle posizioni dei talebani e di al Qaida. Le esplosioni sono assordanti e il timing così preciso che, nel racconto dei soldati che c’erano, centinaia di cavalieri afghani emergono letteralmente fuori dal fumo, cavalcando contro il nemico tra nuvole di polvere e schegge volanti. Qualcuno degli afghani ha lanciarazzi spalla, altri hanno poche munizioni, ma tutti vanno incontro – afghani e americani – ai nemici che hanno mortai, cannoni e cecchini. E’ la prima carica di cavalleria americana del ventunesimo secolo, scriverà Rumsfeld su Foreign Affairs, in un articolo per il Council of Foreign Relations (che ha una posizione “realista” contrapposta alla sua, che invece è convinto che quando la lotta al terrorismo si combatte dentro la porta di casa è troppo tardi). Dopo la battaglia, un soldato americano racconta che un combattente afghano gli si avvicina e tira su una gamba dei suoi pantaloni. “Pensavo volesse farmi vedere una ferita – dice – invece mi ha fatto vedere una protesi”. E’ corso in battaglia con una gamba buona soltanto. Quello che ha permesso di vincere a Mazar i Sharif – e ha messo in moto la caduta del potere dei talebani – è stata la combinazione della semplicità delle forze speciali – era solito raccontare Rumsfeld – delle più sofisticate armi a guida di precisione dell’arsenale americano, manovrate grazie alle squadre della Marina, dell’Air force, dei Marines; e del coraggio di un valoroso, cavaliere afghano che ha combattuto con una gamba sola. Quel giorno, sugli altipiani dell’Afghanistan, il diciannovesimo secolo ha incontrato il ventunesimo secolo e ha sconfitto un nemico pericolosissimo e determinato. Parole sue. * * * Nel marzo 2001, da poco arrivato al Pentagono, Rumsfeld scrisse, dicono di suo pugno, un memorandum, una nota che tracciava le linee guida da considerare quando si decide d’impegnare le forze degli Stati Uniti. All’inizio di ottobre del 2002, mentre all’Onu iniziava la lunga discussione sulle ispezioni in Iraq e sul disarmo di Saddam Hussein, il testo dell’appunto strategico, ha raccontato il New York Times, fu ritoccato. Per arrivare alla sua versione definitiva. Con tre domande, e tre risposte affermative, prima di agire: l’azione proposta è necessaria? E’ fattibile? Ne vale la pena? Per dare risposte, Rumsfeld individuava alcuni criteri, che sono poi ritornati continuamente. E’ la sintesi del suo modo di pensare e di lavorare.
“Se qualcuno può portare avanti la fondamentale riforma delle più potenti forze armate del mondo, questo qualcuno è Mr Rumsfeld”. (The Economist, 26 maggio 2001)
Incaricato, su consiglio di Dick Cheney, dal presidente George W. Bush di trasformare, snellire, rafforzare, tecnologizzare, rendere più efficienti e più velocemente attivabili, le Forze armate degli Stati Uniti, già pochi mesi dopo il suo arrivo al Pentagono, nell’agosto del 2001, circolavano voci su sue possibili dimissioni: troppi gli attriti con i vertici militari, troppe le note scritte inviate al personale, pochi i consigli dei generali ascoltati, molti quelli dei consiglieri civili, forte lo sforzo da politico d’indirizzare il nuovo corso. Poi con l’11 settembre 2001 tutto cambia per tutti. Quella mattina Rumsfeld corre fuori dal Pentagono in fiamme, aiuta a soccorrere le vittime, come un Rudi Giuliani, forse un po’ più antipatico, esercita una leadership spontanea: si rifiuta di chiudere il Pentagono. Diventa, in un giorno, simbolo in persona della risolutezza americana. Il giorno dell’attacco a Pearl Harbor, invece, aveva nove anni, il padre non esitò un minuto ad arruolarsi nella Navy, così fece Rumsfeld anni dopo.
Prima domanda del memorandum di Rumsfeld: l’azione è necessaria? Serve una buona ragione. Prima di ricorrere all’uso della forza, devono essere utilizzati tutti gli strumenti, leggi: diplomazia; la diplomazia deve continuare a essere coinvolta durante l’impiego della forza.
Dall’11 settembre 2001 in poi non si è concesso un giorno di break. La sua giornata cominciava alle 5 con un’ora e mezza di lettura, poi al Pentagono. Scrive sempre, appunti su appunti. Con il solo vezzo di apparire pettinato a dovere, e non solo per questo People lo ha eletto “il più sexy” del cabinet. E’ un campione nell’infondere energia, “la superba faccia della guerra al terrorismo”, ha detto Ralph Peters, ufficiale in pensione e autore di molti libri. Il suo modo diretto di entrare in contatto con tutti gli ha creato problemi nei corridoi del Pentagono, oltre che nelle cancellerie e nelle redazioni europee, ma non col generale Richard Myers, capo di Stato maggiore, che con Rumsfeld ha avuto un rapporto solido basato sul rispetto reciproco. Nei giorni di Iraqi Freedom il podio della conferenza stampa al Pentagono era più largo, dietro c’erano sempre i due. Si è scritto che sulla scrivania del segretario ci sia stato a lungo una lunga lista delle molte cose che potevano andare storte in Iraq. Era la fonte delle correzioni ai piani militari. E’ il suo pallino, dice sempre che per lui è più facile porre obiezioni e fare domande. “Io voglio essere sicuro – ha detto al Washington Post – Io mi chiedo sempre che cosa manca… che cosa non abbiamo chiesto a noi stessi? Così faccio sempre”. Questa è stata la base del suo rapporto con il presidente Bush, Rumsfeld poneva molti interrogativi, spesso retorici al limite del sarcasmo, poi l’inquilino della Casa Bianca dava le risposte e prendeva le decisioni.
Linea guida del memorandum: oltre ai rischi dell’azione vanno soppesati con attenzione i rischi del non agire
Il pensiero chiave legato all’11 settembre è che “non puoi difenderti contro il terrorismo – ha raccontato Rumsfeld a Dan Balz e Bob Woodward del Washington Post – Io lo imparai dai inviato in medio oriente. Tu non puoi difenderti in ogni luogo, in ogni circostanza, contro ogni tecnica. Non lo puoi fare semplicemente perché loro continuano a cambiare tecniche, circostanze, e tu devi inseguirli”, questo significa che “hai bisogno di prevenirli”. Ma siccome non hanno navi, eserciti, stati, si nascondono, devi braccarli, prevenirli, con gli alleati. Il tipo di coalizione indispensabile fu chiaro da subito a Rumsfeld: “Il fatto è che semplicemente non puoi avere un’unica coalizione quando hai un problema globale”; il segretario alla Difesa diceva di non aver mai chiesto ai rappresentanti di altri paesi che cosa stessero facendo o potessero fare nella lotta al terrorismo, “ho sempre lasciato che lo dicessero loro”. Che poi alcuni paesi abbiano potuto fornire contributi pubblicamente e altri più riservatamente poco ha importato per lui. “Il nostro obiettivo è prendere i terroristi”. E ha da essere raggiunto. “La missione definisce la coalizione”.
Seconda domanda: l’azione è fattibile? L’obiettivo deve essere raggiungibile e con un rischio accettabile, bisogna capire che ci sono alcune cose che gli Stati Uniti non possono realizzare. Gli obiettivi devono essere chiari, soppesati e ben capiti, anche per comprendere quando li avremo davvero raggiunti. La struttura di comando deve essere chiara, non complessa. Se gli Stati Uniti hanno bisogno o preferiscono agire con una coalizione di alleati, meglio capirsi bene subito e non tentare di persuadere troppo i partner quando questo può compromettere il raggiungimento degli obiettivi. La missione determinerà la coalizione. Non viceversa.
“Fa la guerra come ha fatto la pace. Senza stato d’animo”. Il giudizio viene dalla “Viecchia Europa” – sua creatura lessicale per una realtà geopolitica vera – dal quotidiano parigino Figaro, che ha definito Rumsfeld “l’uomo che non dubita mai”. Più cattive le voci che circolavano tra analisti liberal ed esponenti leftist dei Democratici: sarebbe il secondo nome del “vero Asse del male”: Wolfowitz (Paul, ex numero due del Pentagono), Rumsfeld, Cheney. Critici ed estimatori concordavano però su un punto: è un uomo del Midwest, pratico, mai ambiguo, i francesi lo liquidano, “grossier”, ma con le maniche sempre pronte a essere rimboccate in fretta, e determinato. E se per vincere il colera – disse una volta – bisogna allearsi per un po’ con la peste, beh, si fa. Quella volta era la volta in cui, nel 1983, peraltro da privato cittadino, sebbene vicino all’Amministrazione Reagan, si recò a Baghdad, nell’Iraq in guerra contro l’Iran degli ayatollah, per vedere se e fino a che punto ci si poteva fidare di Saddam Hussein. Circola perfino la foto di una stretta di mano sfuocata con il tiranno, che molti anni dopo ha sconfitto in tre settimane.
Terza domanda: ne vale la pena? Se sì, Stati Uniti e alleati devono essere disposti a mettere vite a rischio. Anche con una coalizione gli Stati Uniti non possono fare qualunque cosa in qualunque posto, in una volta sola. Se il sostegno dell’opinione pubblica è debole, la leadership deve volere investire il suo capitale politico a sostegno dell’uso della forza per tutto il tempo necessario. Prima di agire, considerare bene l’impatto che l’azione degli Stati Uniti in altre parti del mondo “se noi vinciamo, se perdiamo, o se decidiamo di non agire
Rumsfeld non è mai stato un teorico, ma è stato considerato un “neocon”, un neoconservative, un neoconservatore: deciso nell’utilizzo della forza (come deterrenza) preventiva, come strumento per il cambio di regime, quando il regime rappresenta una minaccia, protegge e foraggia i terroristi e possiede e sviluppa armi di distruzione di massa. L’obiettivo: favorire la nascita di società il più possibile democratiche e liberali nelle zone più a rischio di diffusione e di crescita del terrorismo. Che queste siano le sue idee lo si desume dal suo passato e dalle sue amicizie, molto più che dalle sue parole, che di solito sono servite più a sferzare gli alleati bizzosi, ad avvisare i rais che sbagliano, a definire situazioni critiche con motti a effetto fulminanti, tanto da costringere – pare – l’allora premier spagnolo José María Aznar a chiedere un favore a Bush: fatelo parlare il meno possibile. Nell’ultimo periodo, ha seguito il consiglio. In effetti, Rumsfeld è sempre stato un politico più di azioni che di idee, per le teorie e i piani geopolitici si era portato al Pentagono Wolfowitz, l’unico caso d’intellettuale prestato alla politica con successo, secondo la definizione di un analista neocon che li conosce tutti bene. Dalle amicizie – Cheney, Wolfowitz, Perle (Richard, un tempo capo dei consiglieri della Difesa) – si desume dunque che Rummy sia neocon, quasi il capo della squadra. Lo si deduce anche dalle decisioni prese, lui però, a livello teorico, ma senza esplicitarlo in discorsi pubblici compiuti, si è preoccupato soprattutto di fornire i piani della guerra veloce, rapida, tecnologica, snella al punto di arrivare alla testa del serpente, Baghdad, prima che potesse mordere. I fatti gli hanno dato ragione nella fase della liberazione dell’Iraq. Rumsfeld si è sempre attenuto al suo ruolo, difficile sentirlo parlare di strategie politico-diplomatico di medio-lungo periodo. Questo era appunto il compito di Colin Powell, allora segretario di stato, ed eventualmente dell’amico Wolfowitz. Ma c’è sempre stato un ma. Rumsfeld, per il suo passato da ambasciatore alla Nato, era convinto di padroneggiare anche le regole della diplomazia. Esattamente come Powell, per il suo passato di generale a quattro stelle, sapeva di padroneggiare anche le regole del Pentagono. Questo è stato l’equilibrio perfetto dell’Amministrazione Bush nel primo mandato, un equilibrio creato appositamente dal presidente, mediato da Condi Rice, suggerito da Cheney. L’equilibrio era perfetto perché l’uno bilanciava l’altro, l’uno non sconfinava nel campo dell’altro, ma lo controllava, lo sorvegliava e lo stimolava. Il risultato: alla fine Bush si chiudeva in una stanza con i consigli di tutti, ne veniva fuori la linea politica.
Linea guida. Se c’è l’azione. Se vale la pena agire, la leadership degli Stati Uniti dovrebbe decidere quando la diplomazia ha fallito, e poi essere pronta ad agire con decisione usando tutta la forza necessaria per prevalere, “plus some”. Ma è comunque necessario non promettere di non fare qualcosa. Un impegno di questo tipo facilita il compito del nemico e restringe il novero delle opzioni. Raggiungere l’obiettivo diventerebbe più difficile.
Dicono che nessuno fa nulla gratis, figuriamoci un segretario alla Difesa, già feluca alla Nato, top manager di aziende, sempre in bilico tra il business e la politica. Figuriamoci una grande potenza come gli Stati Uniti d’America. Ora dicono che il progetto di Rumsfeld, ma sopratutto dei suoi consiglieri e bracci destri alla Perle e Wolfowitz, di riordinare il medio oriente, favorendo con le buone ma anche un po’ con le cattive la nascita di esperimenti democratici in quell’area, sia (o sia stato) soltanto un sogno da rivoluzionari un po’ stranamore un po’ straricchi, che in realtà ha provocato più danni che benefici, che in realtà nascondeva chissà quale imperialismo lobbistico. Dice Rumsfeld che “possiamo sopportare di spendere nella difesa nazionale qualunque ammontare e qualunque percentuale del pil che sia necessario per avere un mondo ragionevolmente stabile e ragionevolmente pacifico, perché senza questo noi non abbiamo l’opportunità di goderci le nostre libertà”. Perché “siamo stati sorpresi l’11 settembre – ha spiegato – e saremo sorpresi ancora”.
Linea guida: onestà. La leadership degli Stati Uniti deve essere brutalmente onesta, sui costi e sulla difficoltà dell’impresa, con se stessa, con il Congresso, con l’opinione pubblica e con i partner della coalizione.
Nei primi giorni dell’operazioni Iraqi Freedom è stato messo spesso sotto accusa, soprattutto da ufficiali in pensione che lo accusavano di aver sbagliato i calcoli, di aver sottovalutato il nemico. Rumsfeld, più o meno, ha sempre risposto, freddo, che tutto andava secondo i piani. Dopo tre settimane dall’inizio delle operazioni militari, gli americani sono arrivati a liberare Baghdad. Rumsfeld allora sorrideva più spesso del solito, come al concerto per i militari, mentre consegnava la bandiera americana dell’11 settembre al Pentagono al campione di basket Michael Jordan, ma nelle interviste televisive e nei briefing con la stampa al Pentagono, diceva, più o meno sempre, che la vittoria è certa, ma che la guerra non è ancora finita.
Linee guida, non regole. “Credo che valga la pena tenere in considerazione queste linee guida. Comunque, non dovrebbero essere considerate regole che proibiscono agli Stati Uniti di agire nel nostro interesse nazionale
L’affondo è arrivato lunedì. La rivista Army Times, il giornale non ufficiale dell’esercito, ha pubblicato un editoriale dal titolo: “E’ tempo per Rumsfeld di andarsene”.
“Lavorare con questa Amministrazione è stato un privilegio, il mio cuore sarà sempre con chi porta l’uniforme degli Stati Uniti”, ha detto ieri Rumsfeld, visibilmente commosso.”.
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