A Beit Hanoun un tragico errore, non un'azione deliberata Elena Loewenthal intervista David Grossman
Testata: La Stampa Data: 09 novembre 2006 Pagina: 7 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «Grossman: stop alla spirale di violenza»
Dalla STAMPA del 9 novembre 2006:
Si guarda intorno nello studio televisivo del «L’infedele» di Gad Lerner tappezzato di grandi immagini a colori, con un misto di smarrimento e familiarità: sulle pareti trova Rabin, gli amici Oz e Yehoshua, trova anche tante atroci scene di guerra. Scene di oggi. Poi vede se stesso in posa meditabonda – «non mi piace quella foto...» - e David Grossman sfodera di nuovo quel sorriso di adolescente saggio che temevamo di non trovare mai più sul suo volto, dopo che il 13 agosto scorso ha perso in guerra il figlio Uri. E’ diventato più lento, quel sorriso, come un adagio modulato dalle sue parole il 4 novembre scorso in piazza Rabin a Tel Aviv: «Provo più dolore che rabbia. Non so se le tragedie come quella capitata a me che piango un figlio sappiano insegnare qualche cosa. Certamente aiutano a riconoscere e distinguere le cose importanti da quelle che non contano». «Non posso permettermi il lusso della disperazione. Questo è il mio modo per provare a cambiare le cose», risponde oggi all’inevitabile domanda sullo spazio di ottimismo che il futuro riserva, anche all’ombra dei morti di ieri a Beit Hanun. Che cosa può dire di quel che è successo ieri nei Territori Palestinesi? Della morte di tanti civili uccisi? «Debbo dire per prima cosa che ho apprezzato le parole di scusa del governo israeliano. Del ribadire che si tratta di un tragico errore e non un’azione deliberata. Ma è una cosa tragica e dolorosa, espressione della via imboccata dal governo israeliano da circa un anno a questa parte. Finché noi israeliani continueremo a collaborare in qualche modo con questa dinamica della violenza, le cose non potranno cambiare. Invece si dovrebbe tentare, a parer mio, l’azzardo di andare oltre questa dinamica. Usare, paradossalmente, più coraggio. Bisognerebbe provare a parlare, “oltre la testa”, di Hamas. Rivolgerci ai palestinesi moderati. Stanarli, e renderli più forti con il solo fatto di parlare a loro invece che alla dirigenza. Così, invece, è Hamas che si rafforza». Non trova assurdo un conflitto in cui da una parte esiste uno Stato, che commette certamente errori politici e militari. Ma dall’altra c’è un avversario che non è disposto ancora nemmeno a riconoscere l’esistenza di questo Stato, per di più occupante. Dove sta il possibile punto di equilibrio di una situazione tale? «E’ folle, questo trovarsi davanti un nemico – un avversario – che dichiara di non riconoscerti e di desiderare come prima cosa quella di cancellarti dalla faccia della terra, anche se non ti riconosce, cioè non ti vede. Per questo dico che bisogna andare oltre, trasgredire alle regole della politica e della (mancata) diplomazia. I sondaggi dicono che una larga maggioranza di israeliani e di palestinesi è disposta a spartire la terra: in altre parole, a scendere a patti con una coesistenza. Magari non felice, eppure tale. La dirigenza, invece, da una parte così come dall’altra, è molto meno coraggiosa. Si tiene ancora attaccatta a quella dinamica distorta che genera continua violenza. Bisogna andare oltre. Oltre l’oltranzismo. Oltre, perché no, il legame politico che unisce Iran e Siria e provare, noi, a cercare le voci moderate che potrebbero essere in ascolto anche a Damasco. Scavalcando l’odio e la violenza a catena. In fondo, noi ebrei israeliani, carichi come siamo del confronto con una storia pesante, dolorosa, non vediamo l’ora di radicarci nel nostro presente. Di essere riconosciuti come una realtà, e non come la fiacca traccia di un lungo passato, quello della sofferenza ebraica».
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