Lunga cronaca di Michele Giorgio, intervista al portavoce dell'Open House: Il MANIFESTO dell'8 novembre 2006 dedica un'intera pagina al gay pride a Gerusalemme e alle proeteste degli ebrei ultraortodossi.
Il tentativo di dipingere Israele come una teocrazia omofobica si scontra con la realtà di uno Stato di diritto che di garantisce al movimento omosessuale il diritto di condurre le sue battaglie.
Al quotidiano comunista cerca di ricordalo anche il portavoce di Open House.
Quando poi dichiara che «La strada per i nostri diritti in Israele è ancora lunga» (frase che il quotidiano comunista ha immediatamente scelto per il titolo dell'intervista) fa un'affermazione che va intesa in senso relativo: in Israele gay e lesbiche non sono perseguitati e godono dei diritti fondamentali, ma, come in ogni altro paese, la lotta contro la discriminazione e il pregiudizio non può dirsi conclusa.
Che il MANIFESTO sposi la causa degli omossessuali israeliani tornerebbe a suo onore, non fosse per il silenzio che riserva alla situazione ben più grave degli omosessuali palestinesi (che vengono uccisi e cercano rifugio in Israele) e di tutto il mondo islamico (sono recenti le impiccaggioni di omosessuali in Iran).
Silenzio che rende evidente che il quotidiano comunista non è realmente interessato ai diritti degli omossessuali, ma solo alla denigrazione di Israele.
Alla denigrazione cioè della società più libera del Medio Oriente, anche per gli omosessuali.
La ragione di questa ostilità, evidentemente, non può stare nei difetti di Israele, che pure esistono.
Se così fosse si vedrebbero e si denuncerebbero anche quelli ben più gravi dei nemici di Israele.
No, Israele non è odiata dal quotidiano comunista o dagli islamisti per i suoi difetti, ma per i suoi pregi.
E' odiata dai totalitarsiti di ogni colore perché è una società fondamentalmente libera e decente, a dispetto dei progressi che potrebbe ancora realizzare.
Ecco la cronaca di Giorgio:
Dopo violente manifestazioni notturne e scontri con la polizia, ora contro gli organizzatori della gay parade di Gerusalemme potrebbe essere pronunciata anche la pulsa denura (in aramaico «frusta di fuoco»), la maledizione che, nelle intenzioni dei rabbini più fanatici, dovrebbe causare la morte del destinatario entro un anno, come accadde al primo ministro Yitzhak Rabin assassinato da un estremista di destra 11 anni fa. Ma il rabbino Shmuel Papenheim e gli ultraortodossi di Eda Haredit, schierati contro gay e lesbiche che chiedono di tenere il 10 novembre la loro marcia, non avranno bisogno di invocare gli «angeli della distruzione» affinché non perdonino i peccati del maledetto - la Open House di Gerusalemme - e scatenino su di lui tutte le disgrazie menzionate nella Torah. Gli oppositori, sempre più numerosi, della marcia dell'orgoglio gay di fatto hanno già vinto. Quello che doveva essere il World Gay pride si è ridimensionato fino a diventare una marcia locale alla quale prenderanno parte solo poche migliaia di persone. Ed è una magra consolazione il fatto che accanto a gay e lesbiche ci saranno tante altre persone che temono questa ulteriore virata a destra, sotto la spinta del fondamentalismo ebraico, fatta dalla società israeliana.
Non solo. La polizia (che impiegherà 12 mila uomini) ha concordato - in realtà ha imposto - ad Open House un nuovo tracciato per la gay parade che sarà totalmente all'interno della zona dei ministeri, dove non ci sono rioni residenziali. Ma il Ko definitivo potrebbe giungere oggi se l'Alta Corte accoglierà una petizione contro la marcia presentata dal vicepremier Eli Yishai (Shas, ultraortodossi sefarditi) ribaltando il via libera dato due giorni fa dall'Avvocato dello stato Menachem Mazuz. Tacciono nel frattempo il «laico» primo ministro Olmert e il «socialista» ministro della difesa Amir Peretz, preoccupati di non urtare i potenti vertici religiosi. E in silenzio sono rimasti anche alcuni dei più osannati (anche in Italia) intellettuali di Israele, come gli scrittori Abraham Yehoshua e Amos Oz, pronti a scendere in campo lo scorso luglio per benedire «la guerra giusta» contro il Libano e invece muti mentre i fondamentalisti ebrei fanno il bello e il cattivo tempo a Gerusalemme.
Il World Gay pride era previsto già ad agosto del 2005, ma la coincidenza con l'evacuazione di coloni e soldati israeliani dalla Striscia di Gaza aveva indotto la Open House a rinviare di un anno la marcia, alla quale avrebbero dovuto prendere parte omosessuali di angolo del pianeta. Quest'anno, come molti si attendevano, i problemi sono cominciati all'inizio dell'estate. A meno di un mese dal grande raduno internazionale a Gerusalemme, i rabbini (con il sostegno indiretto di religiosi cristiani e musulmani) hanno cominciato a moltiplicare gli sforzi per impedire la «profanazione di massa» della Città Santa, fino ad arrivare alla distribuzione nei rioni ortodossi ebraici di Mea Shearim e di Gheula di volantini in cui si proponeva addirittura una ricompensa di 20 mila shekel (quasi 4.000 euro) a chi «avrebbe provocato la morte di quanti vengono da Sodoma e Gomorra». «Trecentomila animali corrotti, noti peccatori della comunità di Sodoma, vogliono invadere la nostra Città Santa e corrompere i nostri figli», si leggeva nei comunicati firmati dal gruppo «La Mano rossa per la salvazione». Altri volantini riportavano istruzioni su come preparare bottiglie incendiarie «Schlissel-Special», dedicate a Yishai Schlissel, l'estremista ebreo che qualche anno fa si era lanciato a testa bassa con un coltello contro una marcia di omosessuali nel centro di Gerusalemme, ferendo in modo grave uno dei partecipanti. Pochi giorni dopo illustri rabbini, fra cui il centenario Elyashiv e la guida spirituale di Shas, Ovadia Yossef, hanno ordinato ai loro seguaci di scendere nelle strade per impedire con la propria presenza la «marcia disgustosa». Simile il giudizio del sindaco di Gerusalemme, Uri Lupoliansky, un ebreo ortodosso, contrario alla marcia gay ma privo degli strumenti legali per impedirla.
Di fronte ad oppositori tanto importanti, gli organizzatori due mesi fa avevano chiesto alla polizia il permesso di sfilare a Gerusalemme il 21 settembre, ottenendo però ancora una volta una risposta negativa poiché la data era «troppo vicina» al Capodanno ebraico. Dopo negoziati estenuanti e il giudizio favorevole della Corte Suprema, la polizia aveva accettato di spostare la gay parade al 10 novembre, ma giunti alla fine di ottobre le minacce agli organizzatori si sono fatte più gravi e insistenti. Due esponenti della destra estrema israeliana, Baruch Marzel e Hillel Weiss (portavoce del Nuovo Sinedrio, una congregazione di 70 rabbini che si propongono come alternativa alle istituzioni civili) hanno esortato a lanciare una «guerra santa» con ogni mezzo contro gli omosessuali per impedire loro di «profanare» la Città Santa. Un appello prontamente raccolto da migliaia di ebrei ultraortodossi. Nelle ultime notti le strade di Mea Shearim sono state invase da zeloti anti-parade, che hanno bruciato cassonetti dell'immondizia e attaccato le forze di polizia. I rappresentanti di Open House hanno provato a resistere a questa offensiva fondamentalista che, fatto significativo, lascia indifferente la maggioranza della popolazione israeliana. «Quella di venerdì sarà una manifestazione per i diritti civili e la libertà di espressione, la comunità gay non sarà soffocata dalle minacce. Continueremo a lottare per una società migliore», ha assicurato Noa Satat, una dirigente della comunità omolesbica di Gerusalemme, Noa Satat. Ma il potere dei rabbini ha avuto il sopravvento sui diritti. Gay e lesbiche di Israele non solo hanno dovuto rinunciare al World pride ma dovranno accontentarsi di una marcia di profilo molto basso che eviterà totalmente il centro cittadino e rimarrà confinata in un'area non residenziale, piena di uffici ministeriali che venerdì saranno vuoti.
Eppure gli omosessuali israeliani possono considerarsi fortunati. La loro protesta almeno ha trovato spazio sulle pagine dei giornali, mentre non è accaduto lo stesso alla manifestazione dei falasha, gli ebrei etiopici . Due giorni fa in centinaia sono scesi in strada per denunciare lo stato di discriminazione in cui si trovano, ma la polizia ha bloccato il loro corteo con la forza perché «illegale». All'origine della tensione è una inchiesta televisiva da cui, la settimana scorsa, è emerso che le donazioni di sangue degli ebrei etiopici non vengono utilizzate a causa dell'assurdo timore di malattie molto diffuse in Africa, prime fra tutte l'aids. I donatori originari dell'Etiopia non vengono informati che il loro sangue viene congelato e che difficilmente sarà utilizzato. Già dieci anni fa migliaia di ebrei etiopici si scontrarono per giorni con la polizia dopo aver scoperto che le loro donazioni di sangue venivano gettate. «In questi dieci anni non abbiamo fatto alcun progresso», ha commentato con amarezza l'ex deputato laburista Adisso Massala, nato in Etiopia. Protestano anche i leader religiosi della comunità falasha, che si sentono discriminati rispetto ai rabbini ortodossi ashkenaziti e sefarditi.
E l'intervista al portavoce di Open House:
Gay e lesbiche di Israele in questi ultimi mesi hanno avuto non poche delusioni, addolcite solo dal semaforo verde dato alla loro marcia a Gerusalemme dall'Avvocato dello stato Menachem Mazuz. Il colpo più basso non sono state tanto le manifestazioni violente degli ebrei ultraortodossi - l'«intifada degli zeloti» - e le minacce subite, quanto l'impossibilità di tenere la marcia nelle vie del centro della zona ebraica (ovest) di Gerusalemme, come accadeva fino a qualche anno fa. Venerdì prossimo poche migliaia di omosessuali e lesbiche, contro le decine di migliaia che si attendevano per l'iniziale World Gay pride, sfileranno in zone periferiche fino all'ateneo di Givat Ram, rimanendo a distanza dalle aree residenziali della città. Ne abbiamo discusso con Reluca Gana, portavoce di Open House, l'associazione di Gerusalemme che assiste gay e lesbiche e che in questi giorni ha condotto le trattative con la polizia.
Se non ci saranno sorprese dall'Alta Corte di Giustizia, venerdì finalmente si svolgerà la vostra parade. Ritenete che il bicchiere sia mezzo vuoto o mezzo pieno dopo questa estenuante maratona di negoziati con la polizia e di battaglie legali?
Mi piace guardare a questi ultimi avvenimenti in modo positivo e pertanto il bicchiere è a mio avviso mezzo pieno. Lo dico perché istituzioni importanti come l'Avvocato dello stato Menachem Mazuz e la Corte suprema hanno sancito la piena legalità della nostra richiesta. Sappiamo che esiste ancora uno stato di diritto e questo ci tranquillizza.
Fino ad un certo punto però. La vostra marcia da World Gay parade si è trasformata in una sfilata di modeste dimensioni che dovrà essere protetta da migliaia di poliziotti. Inoltre le proteste degli ebrei ultraortodossi non hanno scosso o fatto indignare la maggior parte della popolazione israeliana e ciò è una battuta di arresto per chi mira proprio a cambiare la società.
Senza dubbio il quadro della situazione può anche essere letto in questa maniera ma, come sottolineavo in precedenza, preferiamo guardare le cose con ottimismo: se le violenze degli ebrei haredim (ultraortodossi) non hanno provocato indignazione, è altrettanto vero che la maggior parte della gente non si oppone alla nostra marcia. La verità è che la strada che porta ai diritti e alla tutela di gay e lesbiche in Israele è ancora molto lunga. E' una campagna impegnativa che inevitabilmente prevede stop dolorosi lungo il percorso. Non nascondo che fino a qualche mese fa eravamo sicuri di poter tenere a Gerusalemme il World Gay pride e non è stato facile dover rinunciare a un appuntamento tanto rilevante che, ne siamo certi, avrebbe aiutato l'opinione pubblica a capire meglio le nostre rivendicazioni. Eppure andiamo avanti e Open House sa di essere diventata un punto di riferimento importante nella società civile israeliana.
Venerdì sarà una giornata di forte tensione, gli ortodossi ebrei stanno organizzando manifestazioni di protesta non solo a Gerusalemme ma anche in altre città. Vi aspettate incidenti, vi sentite in pericolo?
Il capo della polizia di Gerusalemme ci ha assicurato il massimo della protezione e abbiamo sentito che verranno schierati più di 10 mila agenti. La marcia inoltre non passerà accanto ai quartieri dove vivono i religiosi, quindi ci sentiamo tranquilli. Invito tuttavia gli ebrei ultraortodossi a riconsiderare le loro azioni, una società pluralista si costruisce sulla tolleranza, un bene comune che favorisce anche loro e non solo gay e lesbiche.
Infine, un articolo che fa precipitare l'intera pagina nel baratro del ridicolo.
Dovendo comporre un centone sui difetti della società israeliana, i raffinati redattori del MANIFESTO hanno pensato bene di affiancare all'omofobia l'irresponsabilità dei padri separati.
Ecco il testo:
Padri israeliani poco responsabili verso i figli e madri costrette a sobbarcarsi tutte le spese per mandare avanti la famiglia. E' questa la denuncia-condanna del quotidiano Haaretz rivolta ai padri, in particolare quelli divorziati, che fanno di tutto dopo la separazione per sottrarsi al mantenimento dei propri figli. Il giornale domenica scorsa ha riferito che raggiunge i 20 miliardi di shekel (circa 4 miliardi di euro) il mancato versamento da parte di migliaia di genitori della quota mensile di mantenimento dei figli. A ciò si aggiungono significativi costi sociali: 2,5 miliardi di shekel (quasi 500 milioni di euro) che l'Istituto per la previdenza nazionale versa alle madri rimaste da sole ad accudire i figli. Le denunce sono oltre 100 mila e ogni anno se ne aggiungono altre 10 mila senza che governo e parlamento stabiliscano strumenti legali efficaci per costringere tanti padri a comportarsi in modo responsabile. Haaretz sottolinea che la polizia non sembra avere la volontà di affrontare il fenomeno e ciò gioca a vantaggio dei padri scellerati che, persino nei casi più gravi, riescono quasi sempre ad evitare l'arresto. Haaretz suggerisce la creazione di agenzie con l'incarico di risolvere questo problema sociale di ampie proporzioni.
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