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Nietzsche e Sion. Motivi nietzschiani nella cultura ebraica dell’Ottocento Jacob Golom a cura di Vincenzo Pinto Casa Editrice: Giuntina Euro 28,00 Nietzsche il filosofo della superiorità ariana. Nietzsche l’esteta della violenza, il cantore della “bestia bionda”. Nietzsche che ha predicato la volontà di potere e il dominio del superuomo sul mondo. Nietzsche che ha seminato nella cultura tedesca la mala pianta del nazismo….Il pensiero di Nietzsche che sembra irrimediabilmente antitetico al fato ebraico del Novecento. Almeno dal 1933 grava su Nietzsche una sorta di damnatio memoriae, che ne fa il simbolo della lunga malattia antigiudaica dell’Europa. Ma se è vero che la sorella del filosofo vide in Hitler la personificazione del sogno del superuomo e i nazisti cercarono di appropriarsi delle sue idee, il continente Nietzsche è ben più esteso degli stereotipi che lo oscurarono. La tragedia delle persecuzioni ha fatto dimenticare l’enorme influsso che tra la fine dell’Otto e gli inizi del Novecento il pensatore esercitò sugli intellettuali ebrei del vecchio continente. Il un libro provocatorio e intelligente, Jacob Golomb dell’Università Ebraica di Gerusalemme riapre il dossier del rapporto tra Nietzsche e il giudaismo. La posta in gioco è in realtà alta. Non si tratta infatti soltanto di un’indagine accademica di storia della filosofia ma piuttosto dell’esplorazione di una fase cruciale della vicenda collettiva del popolo ebraico. La tesi di Golomb è infatti che Nietzsche sia uno dei padri occulti del sionismo. Espressa in questi termini, l’affermazione è quanto meno ardimentosa, ma il paziente lavoro filologico, che si snoda per quattrocento pagine, riesce a far breccia nello scetticismo del lettore. Golomb mostra – carte alla mano –come l’ermeneutica nietzschiana contribuisca al nucleo utopico e paradossale del progetto sionista. Non è una semplice questione di Zeitgeist, di “spirito dell’epoca”, ma di una essenziale affinità tra l’inquietudine dei padri fondatori del sionismo e quella del filosofo tedesco. Da Theodor Herzl a Micha Josef Berdichevski, da Hillel Zeitlin a Martin Buber, alcuni dei maggiori protagonisti del sionismo lessero e annotarono con passione le opere nietzschiane. I volumi di Nietzsche in costose legature di pelle troneggiavano per esempio nella biblioteca di Herzl, che era imbevuto dello stile oracolare del maestro Zarathustra. E che dire poi di Berdichevski, che lo definì “rabbi Nietzsche”, o di Buber che lottò a lungo per liberarsi da una sorta di “intossicazione” nietzschiana. Rabdomante impareggiabile della crisi del moderno, Nietzsche attirava questi ebrei in cerca di una via di riscatto innanzitutto personale. E’ questo il punto su cui fa leva Golomb, ovvero sulla genesi individuale del movimento che prese poi il nome di sionismo. Quello che Herzl e i suoi compagni di ventura volevano realizzare era infatti in primo luogo una cura per le proprie anime lacerate e per la propria condizione di marginalità. Nella seconda metà dell’Ottocento era divenuto evidente che le promesse dell’Illuminismo sarebbero rimaste incompiute. Agli ebrei erano stati riconosciuti, è vero, i diritti politici, ma alla libertà e all’eguaglianza formale non si affiancava certo la fraternità; rimanevano ospiti scomodi nelle compagini nazionali europee, stranieri agli altri e a se stessi. Inseguendo il richiamo dell’assimilazione, gli intellettuali di punta avevano così abbandonato la tradizione e scontavano ora una doppia estraneità. Invisibili o male accetti per la maggioranza cristiana, non si sentivano più di condividere il passato della diaspora e la secolare disciplina della diversità religiosa. Ecco perché abbracciarono con entusiasmo il faticoso cammino di auto superamento tracciato da Nietzsche. Cercare il proprio sé e realizzarlo come un’opera d’arte era il messaggio nietzschiano, che richiamava gli ebrei “afflitti dalla sindrome di marginalità”. Le opere del filosofo si trasformarono in manuali su “come si diventa ciò che si è”,ovvero sul metodo per far nascere dalle rovine del giudaismo la consapevolezza del “nuovo ebreo”. Nietzsche insegnava che per “costruire un tempio è necessario distruggerne un altro”, e così i futuri sionisti si misero all’opera per demolire il santuario del giudaismo rabbinico, passivo e apollineo, in modo da far posto all’ebraismo eroico e dionisiaco da realizzarsi in Terra d’Israele, la nuova patria. Da questa rilettura del sionismo si comprende quanto ci sia di nietzschiano in quel salto all’indietro per raggiungere il passato monumentale che libera dal torpore della diaspora. L’utopia sionista si nutre infatti del mito dell’antico Israele, forte e combattivo, e volge in questo modo le spalle alla lenta disciplina dei rabbi. Come Nietzsch, Herzl e compagni vollero pensare inattualmente, e proprio dall’inattualità nacque il sogno di una risalita perigliosa lungo il fiume della storia. Certo, non tutto nel sionismo è nietzschiano, poiché è evidente che il lievito del movimento nazionale ebraico è una solidarietà di gruppo assai lontana dall’individualismo del filosofo tedesco. Eppure è fuor di dubbio che la “negazione della negazione”, con cui i primi sionisti vollero riguadagnare la terra perduta delle loro anime, nacque anche dal tormento di “rabbi Nietzsche”. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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