Il CORRIERE della SERA del 6 novembre 2006 pubblica a pagina 6 un articolo sui giudizi di storici e studiosi sul processo a Saddam Hussein.
Segnaliamo in particolare le affermazioni di Danilo Zolo, così palesemente accecato dal pregiudizio antiamericano da rifiutare di riconoscere, nella condanna di Saddam, il desiderio di giustizia di un popolo vittima di una feroce dittattura e dei suoi strascichi terroristici.
A Zolo rispondono efficacemente le dichiarazioni di Massimo Teodori.
Ecco il testo:
Vi sono delitti così enormi che è impossibile perdonarli, ma è molto difficile anche punirli in modo equo. È il dilemma di Norimberga, ora riproposto dalla condanna di Saddam Hussein. «Purtroppo, sessant'anni dopo, siamo ancora alla giustizia dei vincitori — commenta Frediano Sessi, studioso della Shoah — che non è realmente di monito ai criminali perché non opera nel senso di sradicare la cultura della violenza. Lo disse con chiarezza Primo Levi: la vendetta non è una soluzione civile. Ma che i gerarchi nazisti dovessero sottostare al giudizio di chi li aveva sconfitti era inevitabile. Che oggi accada lo stesso, dopo tanti sforzi per affermare i diritti umani a livello mondiale, non è buon segno».
Più drastico Danilo Zolo, autore del libro La giustizia dei vincitori (Laterza), secondo il quale il processo di Bagdad è molto peggio rispetto a Norimberga: «In quel caso quattro potenze si accordarono per creare la corte, la qualità dei magistrati era alta, c'erano garanzie per gli imputati. Senza contare che i capi nazisti erano gli aggressori, così come i militari giapponesi condannati più tardi a Tokio, mentre Saddam è l'ex tiranno di un Paese invaso. Qui non è neanche giustizia dei vincitori, perché non è affatto sicuro che gli Stati Uniti usciranno vittoriosi dall'Iraq. Il processo è stato voluto da Washington, sulla base di uno statuto redatto da giuristi americani, e manca di ogni legittimazione sulla base del diritto internazionale come dell'ordinamento iracheno. È solo uno strumento per giustificare una guerra preventiva motivata con evidenti imposture».
Lo storico Massimo Teodori spazza il campo dalle sottigliezze giuridiche: «È un'astrazione voler regolamentare in termini di diritto la fine di dittature criminali. I processi ai responsabili di delitti contro l'umanità rispondono sempre a criteri di opportunità politica. Con il giudizio di Norimberga si diede una risposta in termini internazionali agli orrori della Seconda guerra mondiale, mentre mi è parso corretto affidare a una corte irachena il compito di processare Saddam Hussein, responsabile in primo luogo di aver massacrato il suo stesso popolo».
Sessi la pensa diversamente: «Forse è un'utopia, ma io credo che i crimini contro l'umanità debbano essere puniti da una corte internazionale, con requisiti d'imparzialità. In questo senso il processo al serbo Slobodan Milosevic è stato un passo avanti rispetto a Norimberga, mentre con Saddam siamo tornati indietro, quasi al livello della condanna sommaria inflitta al dittatore romeno Nicolae Ceausescu».
«Il caso di Ceausescu — nota Zolo — ricorda un po' quello di Mussolini, anche perché venne fucilato insieme alla moglie. Quanto a Milosevic, era un despota, ma non certo sanguinario come Saddam: del resto gli stessi americani lo avevano coinvolto nella pace di Dayton che pose fine alla guerra in Bosnia. La corte dell'Aja che doveva giudicarlo, prima che morisse per cause naturali, era di gran lunga superiore, per dignità e competenza dei giudici, al tribunale di Bagdad. Però anche i processi per i crimini nella ex Jugoslavia non sono stati equi: basta pensare che il procuratore Carla Del Ponte rifiutò d'indagare sulle atrocità compiute dalle forze della Nato».
Teodori è anch'egli scettico sui tribunali internazionali, ma ritiene che a Bagdad il problema sia un altro: «Sarebbe stato meglio che Saddam non fosse stato catturato vivo o avesse fatto la fine di Ceausescu. Allestire un lungo processo, in cui il raìs a volte è apparso come una vittima, è stato un errore. Tanto più che Saddam è stato portato alla sbarra per uno solo degli innumerevoli eccidi compiuti: in teoria bisognerebbe giudicarlo un'infinità di volte. Mi sembra però innegabile che la sua condanna risponda alle aspettative di giustizia della grande maggioranza del popolo iracheno».
Di seguito, riportiamo l'intervista Noah Feldman, docente di giurisprudenza alla New York University, che smaschera molte ipocrisie sul processo a Saddam:
NEW YORK — «Anche se ritengo che la pena capitale non sia una punizione adeguata né equa per gli ordinari omicidi commessi negli Stati Uniti, ritengo che essa sia legittima se applicata ad individui giudicati colpevoli di crimini contro l'umanità su larga scala. Come appunto Saddam Hussein».
Noah Feldman, docente di giurisprudenza alla New York University, e autore di libri sull'Iraq quali What We Owe Iraq: War and the Ethics of Nation building
(Cosa dobbiamo all'Iraq: guerra ed etica nella costruzione di una nazione) e After Jihad: America and the Struggle for Islamic Democracy (Dopo la Jihad: l'America e la lotta per la democrazia islamica), conosce forse meglio di qualunque altro la Costituzione irachena. Alla cui stesura ha contribuito nel 2003, quando fu eletto primo consigliere Usa in Iraq durante il governo provvisorio di Paul Bremer. «Saddam è come Eichmann, Milosevich, Pol Pot e i carnefici del Ruanda», spiega al Corriere Feldman, che parla perfettamente l'arabo e ha studiato per anni le culture islamiche. «Le vittime del raìs erano quasi esclusivamente irachene ed è stato processato di fronte a un tribunale iracheno. Aggiungerei purtroppo».
Perché purtroppo?
«I leader europei che oggi criticano tanto il processo dovrebbero fare un onesto "mea culpa". Dozzine dei loro bravissimi avvocati, inclusi tanti italiani, hanno chiesto e ottenuto di essere esonerati dal processo contro Saddam cui erano stati invitati perché rigidamente contrari alla pena di morte. Un errore spaventoso perché per essere davvero legittimo e credibile di fronte al mondo, quel processo aveva bisogno dell' aiuto della comunità internazionale».
L'obiezione di coscienza su una questione fondamentale come il patibolo non le sembra un diritto sacrosanto?
«Vedo molta ipocrisia. Mi chiedo cosa direbbero tanti leader italiani o spagnoli se la pena di morte fosse stata assegnata a qualcuno responsabile della morte di centinaia di migliaia di italiani o di spagnoli. Dubito che certi primi ministri che oggi si dicono contrari alla pena capitale farebbero gli stessi discorsi se il sangue versato fosse quello del proprio popolo».
Un'accusa molto pesante.
«Le ricordo che nessuno ha fiatato quando i criminali di guerra responsabili della morte di milioni di europei durante la Seconda guerra mondiale sono stati giustiziati. E mi pare che nei sondaggi la maggior parte degli italiani non dissenta dal modo in cui Mussolini è stato ucciso».
Non teme che giustiziare Saddam possa trasformarlo in un martire?
«È un problema che riguarda gli iracheni. E francamente i leader di tante capitali europee che non hanno partecipato al processo per liberare l'Iraq da Saddam farebbero meglio a stare zitti. Con quale autorità adesso vanno a dire agli iracheni come comportarsi e di cosa avere paura?».
Quale consiglio darebbe, lei, agli iracheni?
«Uno solo: non commettete il gravissimo errore di giustiziare Saddam adesso. Bisogna assolutamente consentire al sistema giudiziario iracheno di celebrare gli altri processi a suo carico: il massacro dei curdi e l'eccidio di civili sciiti, di cui ho visitato le agghiaccianti fosse comuni. Le stime parlano di centinaia di migliaia di morti. L'Iraq e la comunità internazionale debbono sapere tutta la verità. È imperativo che Saddam sia processato per tutti i suoi crimini».
Che cosa succederà adesso?
«Il presidente dell'Iraq Talabani ha detto di essere contrario alla pena capitale. Tocca a lui firmare la richiesta ufficiale di morte e francamente dubito che voglia intralciare il sentimento popolare. Credo piuttosto che aspetterà fin dopo il compimento degli altri processi. La giustizia farà il suo corso. Vorrei precisare, conoscendola bene, che la Costituzione irachena non è molto diversa da quelle occidentali, americana ed europee, e garantisce tutti i diritti umani e libertà basilari».
Che lezione si può trarre da questa vicenda?
«La prima è che se la comunità internazionale fosse davvero rappresentata e guidata dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu non si sarebbe mai arrivati a questo processo perché avremmo evitato il genocidio di centinaia di migliaia di civili innocenti. La seconda è che un vero Tribunale internazionale può esistere e funzionare solo se disposto a includere in via eccezionale la pena capitale. Fino a quando questi tribunali saranno dominati da Paesi europei contrari al patibolo, i processi come quello di Saddam saranno celebrati dalle corti sbagliate».
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