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La Stampa Rassegna Stampa
06.11.2006 La storia (manipolata) di Rachel Corrie diffonde l'odio contro Israele
una complice recensione di Mario Vargas Llosa

Testata: La Stampa
Data: 06 novembre 2006
Pagina: 7
Autore: Mario Vargas LlOsa
Titolo: «Rachel va in teatro Non si uccidono così le giovani pacifiste»

La STAMPA del 6 novembre 2006 pubblica un articolo di Mario Vargas LLosa sulla rappresentazione della piéce "Il mio nome e Rachel Corrie, sull'attivista dell'International Solidarity Movement morta in un'incidente mentre tentava di impedire la demolizione di  una casa palestinese durante un'azione antiterroristica dell'esercito israeliano.
L'articolo di Vargas LLosa é un tipico esempio di faziosità antisraeliana: sposa la tesi, indimostrara, secondo la quale la Corrie sarebbe stata deliberatamente travolta dal conducente del buldozer, si sofferma sulle condizioni di vita dei palestinesi nei campi profughi senza indicare le responsabilità di chi ha voluto che esse si perpetuassero per quasi 60 anni allo scopo di mantenere un serbatoio di odio contro Israele, deifinisce il terrorismo come una somma di "crimini individuali, come se non vi fossero dietro di esso, organizzazioni, propaganda e consenso sociale.
Inoltre, non riferisce che le case delle famiglie terroristi suicide palestinesi vengono distrutte quando i famigliari sapevano dell'intenzione criminale dei loro congiunti.
Non vi è dunque una "punizione collettiva", così come la sospensione dei visti per i lavoratori  palestinesi va interpretata come una ovvia misura di sicurezza.
Infine, Vargas LLosa tace della vera natura dell'International Solidaity Movement, che non è un'organizzazione pacifista, ma un gruppo antisraeliano, antiamericano e filo-terrorista.
Ecco il testo dell'articolo: 


SE passate per New York, dimenticate i sontuosi musical di Broadway e cercate invece di ottenere un biglietto in un piccolo teatro caldo e sgangherato, il Minetta Lane Theatre, sito nella strada dello stesso nome, giusto tra Greenwich Village e Soho. Se ci riuscite e vedete la pièce che lí si rappresenta, «Il mio nome è Rachel Corrie», scoprirete come possa essere commovente uno spettacolo teatrale quando affonda le sue radici in una problematica d'attualità e, senza pregiudizi e con talento e verità, rappresenti sul palcoscenico una storia che, per novanta minuti, ci catapulta nell'orrore contemporaneo per via di una ragazza che, nella sua corta vita, giammai avrebbe potuto sognare che avrebbe fatto tanto discutere e svegliato tante polemiche e sarebbe stata oggetto di tanta riverenza e amore, cosí come di tante calunnie.
La pièce è stata rappresentata per la prima volta l'anno scorso nel Royal Court Theatre, a Londra, e ha dovuto superare grandi ostacoli per arrivare a Manhattan. Le pressioni delle organizzazioni estremiste filo-istraeliane hanno ottenuto che il suo primo produttore, il New York Theatre Workshop, desistesse dal montarla, fatto che ha causato manifesti e proteste a cui parteciparono artisti e intelletuali di fama, tra cui Tony Kushner. Finalmente, lo spirito liberal e tollerante di questa città si è imposto e adesso l'opera, che ha meritato eccellenti recensioni, va a gonfie vele. Il testo è un monologo della protagonista, impersonata da una giovane attrice con grande talento, Megan Dodds, elaborato da Alan Rickman e Katharine Vine con i diari, le lettere ai genitori e agli amici e altri scritti personali di Rachel Corrie. Nessuno direbbe che una pièce così ben strutturata e che scorre in modo tanto naturale, senza il minimo intoppo, non sia stata concepita come un testo organico da un drammaturgo professionista, bensí fatta solo con citazioni rammendate tra loro.
Rachel è nata a Olympia, un paese nello stato di Washington e, per quel che se ne sa, era abituata sin da bambina a dialogare con sé stessa scrivendo testi che mostrano, in modo fresco e a volte allegro, la vita provinciale di una ragazza che arriva all'adolescenza, come tante altre della sua generazione negli Stati Uniti, piena di inquietudine e confusione contro la sua vita privilegiata e il suo ristretto orizzonte da paese in cui scorre. Sospira la vaga intenzione di essere poetessa più avanti, quando crescerà e si sentirà capace di emulare quegli autori i cui versi legge senza tregua e memorizza. Non c'è nulla di eccezionale in lei, piuttosto le previsibili esperienze di una ragazzina di classe media, normale e corrente, sconcertata davanti al mondo che va scoprendo, i suoi entusiasmi per le canzoni e i cantanti trendy, le effimere civetterie con i campagni di scuola, e, questo sí, una insoddisfazione costante, inespressa, la ricerca di un qualcosa che, come la fede per i credenti - lei lo è solo a metà e comunque la sua esperienza religiosa non riempe quel vuoto che a volte la tormenta - dia di colpo alla sua vita un'orientamento, un senso, qualcosa che la impregni di entusiasmo.
Questa parte della storia di Rachel Corrie non è meno intensa né interessante della seconda, quantunque meno drammatica. La cosa singolare, vista la sua storia, è che tra tutte le inquietudini che testimoniano i suoi scritti personali, non figuri affatto la politica, fatto che riflette benissimo una condizione generazionale. Trenta anni fa, i giovani statunitensi canalizzavano la loro ribellione e la loro inquietudine con comportamenti, look, hobby o gesti, tutto ció avvolto a volte da un discreto anarchismo individualista, o, al contrario, con una militanza osservante, ma la politica era solita meritare la indifferenza più assoluta, se non il più palese disprezzo. Nella rappresentazione teatrale, forse perché quel momento critico della sua vita non è rimasto documentato nei suoi testi, c'è una grande parentesi, il periodo che porta la ragazzina provinciale che aspira a essere un gorno poetessa a compiere una scelta cosí audace da offrirsi, all'inizio del 2003, volontaria per andare a lottare pacificamente nella Striscia di Gaza contro la demolizione, da parte dell'esercito di Israele, delle case dei vicini imparentati o in rapporto con i palestinesi accusati di terrorismo.
In un primo momento ho pensato che Rachel Corrie fosse andata a lavorare con il mio amico Mair Margalit, uno degli israeliani che più ammiro, nel suo «Comitato di Israele contro la demolizione delle case», di cui ho già parlato nei miei articoli. Macché, Rachel si è iscritta al «Movimento Internazionale di Solidarietà», composto soprattutto da giovani inglesi, statunitensi e canadesi che nei Territori occupati, andando a vivere nelle abitazioni minacciate, cercano di impedire - inutile dirlo, senza molto sucecsso - un'azione moralmente e giuridicamente inaccettabile, visto che parte dal presupposto di una colpa collettiva, di una popolazione civile che deve essere castigata nel suo insieme per crimini di individui isolati.
Le lettere che Rachel scrive da Rafath, a Sud di Gaza, rivelano una progressiva presa di coscienza di una giovane che scopre, condividendole, la miseria, l'abbandono, la fame e la sete di una umanità senza speranza, emarginata in case precarie, minacciata da sparatorie, retate, espulsioni, dove la morte imminente è l'unica certezza per bambini e anziani. Rachel, sebbene dorma per terra come le famiglie palestinesi che la ospitano, o si alimenti con le stesse magre razioni, si vergogna delle cure e dell'affetto che riceve, di essere comunque una privilegiata perché lei se ne può andare in qualsiasi momento e fuggire da quella asfissia e, in cambio, loro..... Ció che più l'affligge è l'indifferenza, l'incoscenza di tanti milioni di essere umani, nel mondo intero, che non fanno niente né vogliono sapere della sorte ignomignosa di questo popolo in cui adesso lei è immersa.
Era una giovane idealista e pura, vaccinata contro l'ideologia e l'odio che di solito provocano, per la pulizia dei suoi sentimenti e la sua generosità, che si riflettono in ogni riga delle lettere che scrive a sua madre, spiegandole come, nonostante la sofferenza che vede nei sui dintorni - i bambini che muoiono nelle incursioni israeliane, i pozzi d'acqua distrutti che lasciano assetati interi isolati, la proibizione di andare a lavorare che va affondando nella morte lenta migliaia di persone, il panico notturno con le sirene dei carri armati o i voli rasanti degli elicotteri - constati improvvisamente, nelle feste per una nascita, un matrimonio o un compleanno, esplosioni d'allegria, che è come se si aprisse il cielo tempestoso perché si intraveda là, lontanissimo, un cielo di un azzurro splendente, pieno di sole.
Per qualsiasi persona non accecata dal fanatismo, la testimonianza di Rachel Corrie su una delle più grandi ingiustizie della storia moderna - la condizione degli uomini e delle donne nei campi dei rifugiati palestinesi dove la vita è pura agonia - è, oltre che impressionante, un'attestazione d'umanità e compassione che giungono all'anima (o come si chiami quel residuo di decenza che tutti possediamo). Per coloro che, come me, abbiano visto da vicino quell'orrore, la voce di Rachel Corrie è un coltello che apre una piaga e la rimuove.
La fine della storia accade fuori dalla pièce, in un episodio su cui Rachel non ha avuto il tempo di testimoniare. Domenica 16 marzo 2003, con sette compagni del Movimento Internazionale di Solidarietà - ragazzi inglesi e statunitensi - Rachel si piantò davanti a un bulldozer dell'esercito israeliano che stava per buttar giù la casa di un medico palestinese di Rafah. Il bulldozer la travolse, spappolandole il cranio, le gambe e tutte le ossa della colonna vertebrale. É morta nel taxi che la portava all'ospedale di Rafah. Aveva 23 anni. Nell'ultima lettera alla madre, Rachel Corrie le aveva vergato: «Tutto questo deve finire. Dobbiamo abbandonare il resto e dedicare le nostre vite per far sì che tutto ciò finisca. Non credo che ci sia niente di più urgente. Voglio poter ballare, avere amici e innamorati e disegnare comics per i miei compagni. Ma, prima, voglio che tutto questo finisca. Ció che provo si chiama incredulità e orrore. Delusione. Mi deprime pensare che questa è la realtà fondamentale del nostro mondo e che, di fatto, tutti partecipiamo in ció che succede. Non era questo che io volevo quando mi fecero nascere. Non era questo ció che sperava la gente di qui quando venne al mondo. Questo non è il mondo in cui tu e il mio papà volevate che io vivessi quando avete deciso di concepirmi».
copyright El País
(traduzione  di Gian Antonio Orighi)

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