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Il Foglio Rassegna Stampa
04.11.2006 Terroristi di Hamas fuggono grazie a un "corteo" di donne
una cronaca corretta

Testata: Il Foglio
Data: 04 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: Rolla Scolari
Titolo: «Hamas si fa scudo con le donne. Raid israeliani. Quasi guerra civile a Gaza»
Dal FOGLIO del 4 novembre 2006:

Gerusalemme. Dopo 19 ore d’assedio, ieri mattina, più di una decina di uomini armati appartenenti a diverse fazioni palestinesi sono riusciti a sfuggire all’esercito israeliano, che li asserragliava in una moschea di Beit Hanun, nella Striscia di Gaza, coperti da una protesta di donne. I morti sono stati dodici. Otto uccisi nell’assedio. 24 da mercoledì. Ieri sera c’è stato un raid aereo. Il tetto dell’edificio è caduto durante gli scontri e testimoni oculari dicono che un muro della moschea sia stato raso al suolo da un bulldozer dell’esercito israeliano. Poche ore prima, una radio di Hamas, scrivono i giornali di Gerusalemme, aveva lanciato un appello alla popolazione femminile affinché si precipitasse alla moschea per fare da scudi umani ai miliziani. Due di loro, su una sessantina che hanno risposto all’appello, sono rimaste uccise durante la fuga degli uomini armati.
Ieri era il terzo giorno dell’operazione di Tsahal “Nuvole d’Autunno”. Il suo scopo è prevenire il lancio di razzi Qassam. Eppure, ancora ieri, ne sono caduti due nel Negev. Sei giovedì. Non hanno causato vittime. Nelle stesse ore, un razzo dell’Idf ha colpito un’automobile con a bordo quattro membri di Hamas, uccidendoli; un militante del Jihad islamico è morto dopo uno scontro con l’esercito a Beit Hanun. Parlano di negoziati tra Hamas e Fatah, partito del rais Abu Mazen, per un governo di unità nazionale. Dicono che sembra esserci un accordo di massima. Poi negano, tornano a discutere di esecutivo tecnico e della minaccia del presidente dell’Autorità di andare a elezioni anticipate nel giro di due settimane. Nulla accade, però, in questo clima di guerra civile strisciante. Abu Mazen non vuole andare allo scontro frontale. Sono giorni, ormai, che la stampa israeliana, palestinese e internazionale pubblica una scadenza sempre diversa per il rilascio del caporale Ghilad Shalit, rapito dal braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedine al Qassam, a giugno. Membri del gruppo di resistenza islamico sono volati pochi giorni fa in Egitto, per un ennesimo incontro sul tema. Poi, l’ambasciatore israeliano all’Onu, Dan Gillerman, ha accusato l’Iran di aver pagato cinquanta milioni di dollari a Hamas per trattenere il prigioniero. I soldi sarebbero andati al grande assente del Cairo, Khaled Meshaal, leader del movimento in esilio a Damasco. Teheran naturalmente smentisce.

I calci all’auto del premier Haniye
In attesa di elezioni, di un referendum sulle elezioni, di un governo di unità nazionale o di un esecutivo tecnico, la situazione della sicurezza si deteriora ogni ora di più, non soltanto nella Striscia di Gaza, dove ormai manca da mesi. Contagia anche la Cisgiordania. A Nablus è stato ucciso un membro del braccio armato di Fatah, le Brigate dei martiri di al Aqsa; a Betlemme una donna è morta per essersi trovata nel mezzo di scontri a fuoco tra polizia israeliana e uomini del Jihad islamico, e un ministro di Hamas, Abdel Rahman Zidan, è stato arrestato a Ramallah.
Manca la sicurezza, a Gaza, perché mancano i soldi per pagare i salari di parte dei funzionari pubblici, tra cui gli agenti (alcuni, come i sanitari, ricevono un mensile dall’Unione europea). Manca, per diversi motivi, anche la volontà politica di fare ordine. Fatah, ex partito di maggioranza, oggi disorganizzata opposizione, ha usato il malcontento sociale e ha pilotato a suo favore i ripetuti scioperi dei dipendenti pubblici, dei poliziotti che bloccano una volta alla settimana le strade di Gaza con bidoni della spazzatura e copertoni in fiamme, prendono a calci la macchina del primo ministro Ismail Haniye, uomo di Hamas, quando si avvicina al palazzo del Parlamento. Se Abu Mazen avesse soldi residui nelle sue casse – dicono i maligni che vedono oro nei suoi forzieri – sicuramente non farebbe il favore di passarli ai colleghi di Hamas: vuole mostrare all’elettorato che il governo ha fallito.
La situazione umanitaria è al collasso, nella Striscia. “A casa si aspetta”, raccontava Rami, 23 anni, a Gaza, pochi giorni fa al Foglio. Si aspetta che il padre, funzionario pubblico, riceva lo stipendio. E ci si stupisce che il malcontento non esploda con maggiore violenza.
Un negozio su tre, a Gaza, è chiuso, sbarrato, perché nessuno compra. Il pil nei Territori è sceso nell’ultimo anno da 4,04 miliardi di dollari a 2,9. Il 28 per cento in meno, scrive l’egiziano al Ahram. Gli investimenti, quelli che gli entusiasti uomini d’affari di Gaza si auguravano di attirare il giorno dopo il ritiro israeliano dalla Striscia, sono calati del 60 per cento, da un miliardo di dollari a 400 milioni. Il prezzo dello zucchero, scrive l’ultimo bollettino della Croce rossa internazionale, è aumentato. E’ sceso in compenso quello delle armi, a Gaza, tanto è facile trovarne, grazie all’aumento del contrabbando (anche di droga) lungo il confine con l’Egitto. In Cisgiordania la situazione è diversa: la domanda di armi è maggiore, il giro d’affari minore, quindi i prezzi salgono. Oltre alla mancanza di soldi per pagare i funzionari pubblici, c’è il problema del blocco imposto dagli israeliani, disposti però a usare le rimesse delle tasse per ospedali e medicine. “A Gaza non entra e non esce neppure uno spillo”, ha detto al Foglio Diane Buttu, ex consigliere di Abu Mazen ed ex legale di Mohammed Dahlan. Si riferiva a beni di consumo e persone, non ad armi. Conferma il rapporto della Croce rossa: è quasi impossibile, di questi tempi, che beni e persone, palestinesi, transitino fuori e dentro la Striscia.
La chiusura, assieme al blocco degli aiuti internazionali imposto al governo di Hamas da parte della comunità internazionale, ha forti ripercussioni sulla vita quotidiana della Cisgiordania (dove i check point sono aumentati negli ultimi mesi fino a 528) ma soprattutto di Gaza. Critica, assieme alla situazione umanitaria, è la sicurezza. A nord della Striscia si danno battaglia le fazioni armate palestinesi, a nord e a sud è in corso l’operazione militare israeliana. L’instabilità cresce con l’aumento dei giorni che gli agenti di polizia passano senza stipendio. L’assenteismo delle forze armate palestinesi ha creato uno spazio senza legge in cui si muovono i clan e le grandi famiglie tribali della Striscia, scrive in un informato reportage Mark MacKinnon del canadese Globe and Mail, che attribuisce gli ultimi mesi di caos agli scontri tra tribù. C’è chi comanda a Gaza City, chi a Beit Hanun, chi a Rafah; ogni singola strada è il feudo di un gruppo diverso. Senza forze di polizia i clan sono liberi di darsi battaglia. Non ci sono soltanto Hamas e Fatah: spesso si spara a causa di faide tra famiglie.
Nulla è cambiato sul terreno e nelle cancellerie. Abu Mazen, al termine del mese del digiuno islamico di Ramadan, aveva promesso l’invio di 20 mila uomini nella Striscia. Il generale Keith Dayton, coordinatore americano per la Sicurezza nei Territori, ha promesso un aiuto logistico e di addestramento (e 26 milioni di dollari) alla forza presidenziale, in vista di un possibile confronto con Hamas. Il gruppo islamico, infatti, si starebbe attrezzando. Allarmato, il capo del comando sud dell’esercito israeliano, Yoav Galant, ha paragonato la preparazione del gruppo (che avrebbe addestrato 10 mila uomini) a quella di Hezbollah, aggiungendo che informazioni di intelligence assicurano l’arrivo nella Striscia di missili anticarro e armi più sofisticate dei soliti Qassam. Da usare contro Israele o nell’eventualità contro le forze di Fatah. Per giorni, i mass media hanno parlato di una prossima guerra civile a Gaza. Strisciante c’è già. Quella vera, i palestinesi cercano di scongiurarla. Come sta facendo Abu Mazen, procrastinando ogni decisione politica, rimandando lo scontro che scaturirebbe dall’annuncio di elezioni anticipate. Hamas non ha nascosto che all’eventualità reagirà con la forza. Forse Abu Mazen sa di non poterla vincere una guerra contro un gruppo ben armato, anche se le forze israeliane appoggiano il rais, indebolendo le milizie di Hamas con la nuova operazione. Moustafa Barghouti, deputato indipendente che media tra le parti, dice al Foglio che nessuno, né Hamas né Fatah, vuole arrivare a un punto di rottura, dal quale non uscirebbe alcun vincitore.

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