Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Nella società palestinese l'aids è un tabù il dramma di un malato raccontato da Davide Frattini
Testata: Corriere della Sera Data: 01 novembre 2006 Pagina: 12 Autore: Davide Frattini Titolo: «Palestinese, ha l'Aids. «Non si deve sapere»»
Dal CORRIERE della SERA del 1 novembre 2006:
HEBRON (Cisgiordania) — K. sta male e nessuno dei vicini lo deve sapere. K. sta male e si preoccupa per il matrimonio dei sette figli. Il più grande ha solo sedici anni, il più piccolo sedici mesi, rischiano di non potersi mai sposare. K. è malato di Aids e preferisce non usare la parola, perché i sacchi di plastica sulle finestre faticano a tener fuori il vento e certo non fermano il rumore delle voci. «E nessuno deve sapere», ripete. Nessuno deve sapere quello che lui ha scoperto da un anno, quando è svenuto mentre lavorava in un cantiere e l'hanno portato all'ospedale Alia di Hebron. Non vuole che la sua casa diventi come quella stanza: isolata dal mondo, sigillata, dove pure le infermiere e i dottori entravano controvoglia, senza mai toccarlo. «Io non sapevo che cosa fosse questa malattia e loro non sapevano come trattarla. Mi hanno lasciato al buio, semi- incosciente. Mi sono risvegliato all'ospedale Hadassah di Gerusalemme e mi hanno detto che ci stavo già da dodici giorni». Quando torna in Cisgiordania dopo un mese, pesa quaranta chili. I medici israeliani lo hanno rimandato a casa con una lista di farmaci da prendere, istruzioni per altri trattamenti. Funzionano, K. migliora, non è più lo scheletro che il fratello ha preso in braccio per riportarlo nel villaggio tra le colline a sud di Hebron. «Mi hanno salvato la vita», ringrazia. Ringrazia e si scusa. «Non ho fatto niente di male, non me ne sono andato in giro a... Capisce? Questa malattia me l'ha mandata dio». La moglie, 33 anni, lo guarda con dolcezza, anche se quella malattia è pure la sua condanna: è sieropositiva, il marito l'ha contagiata. I figli sono invece risultati negativi ai test. I medici hanno ricostruito che K., 41 anni, avrebbe contratto il virus Hiv nel 1993, quando ha ricevuto dieci trasfusioni di sangue infetto all'ospedale Alia e in un altro di Gerusalemme Est. «All'epoca il plasma — spiega Suliman Eid, che dirige il centro Aman a Gaza — veniva importato soprattutto dai Paesi del Golfo e i controlli non venivano ancora eseguiti. La maggior parte dei sieropositivi nei territori palestinesi ha preso la malattia con una trasfusione». O comunque è quello che tutti raccontano. «Lo stigma sociale è troppo forte — continua Eid —, l'Aids è considerato una punizione di dio, in qualunque modo tu l'abbia beccato. E qui la gente pensa subito che sei un drogato, un omosessuale o sei andato a letto con le prostitute. Al tabù della malattia si aggiunge quello di comportamenti considerati inaccettabili dalla società». Così è difficile ottenere le cifre precise sul numero di malati tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Il ministero della Sanità palestinese ha registrato 57 casi dal 1987, quando venne scoperto il primo. Di questi, 24-25 persone sarebbero ancora vive. I volontari parlano di 200-300 infettati: «Nei territori ci sono 8.000 tossicodipendenti, è inevitabile che i numeri siano più grandi». «Nei Paesi arabi le statistiche ufficiali non sono accurate — spiega Omar Hadi, un arabo israeliano che ha fondato ad Acco l'Associazione per la lotta all'Aids — perché i governi tengono le informazioni segrete. Negli ospedali palestinesi non ci sono reparti specializzati. Riad Zanoun, il precedente ministro della Sanità, mi ripeteva che tra i palestinesi l'Aids non esiste, come se parlassimo di angeli». K. e gli altri malati si ritrovano intrappolati tra il pericolo di essere respinti dalla società e la burocrazia della sicurezza che lo Shin Bet israeliano impone anche su di loro. Da marzo K. non riesce a ottenere il permesso per andare a Gerusalemme, perché ha fatto qualche mese in carcere nel 1985 e nel 1989 («ero un membro del del Fatah»). Un altro paziente è bloccato a Gaza, nonostante Physicians for Human Rights, organizzazione di Tel Aviv, abbia portato il suo caso alla Corte Suprema. «I servizi segreti temono che i malati di Aids — spiegano i volontari — vengano ricattati dagli estremisti e costretti a partecipare in attacchi suicidi». E i palestinesi, se scoprono che qualcuno è malato, lo accusano di essere un collaborazionista, perché in passato lo Shin Bet ha cercato informatori tra gli omosessuali e i tossicodipendenti. La crisi economica, dovuta al boicottaggio contro il governo di Hamas, ha reso ancora più complicato recuperare le medicine per i trattamenti. Il premier Ismail Haniyeh ha lanciato una campagna per bloccare i trasferimenti in ospedali israeliani o stranieri. «Abbiamo risparmiato 19 milioni di dollari — ha annunciato agli inizi di ottobre — tagliando il 54 per cento delle cure all'estero. Questa gente dice di andare in clinica, poi nessuno sa che cosa faccia davvero». I 40 mila shekels (oltre 7.300 euro) per i ricoveri di K. a Gerusalemme sono stati pagati dall'Autorità Palestinese. Adesso, anche se dovesse ottenere il via libera, sarà difficile trovare il finanziamento. «Il ministero della Sanità ha tanti altri problemi — spiega Suleiman Eid — e deve concentrare le spese su altre emergenze». Per lasciarlo uscire dalla Cisgiordania alla fine di febbraio, lo Shin Bet ha richiesto che K. assumesse due guardie del corpo israeliane (2 mila shekels, pagati da Physicians for Human Rights). «Erano armati, con i giubbotti antiproiettili. Ma avevano paura che gli tossissi addosso».
Sempre dal CORRIERE, riportiamo una breve notizia, in realtà ancora allo stadio di mera ipotesi, di politca interna israeliana:
GERUSALEMME — Potrebbe tornare al governo in Israele l'ex premier Ehud Barak. Dopo l'uscita di scena del ministro di Cultura, Scienza e Sport Ophir Paz-Pines, che lunedì ha rassegnato le dimissioni in protesta per l'ingresso nell'esecutivo del leader ultra-nazionalista Avigdor Lieberman, sono in tanti fra i laburisti a puntare sulla candidatura dell'ex leader del partito. Secondo quanto riporta il quotidiano Jerusalem Post, il generale che fece uscire Israele dal Libano Sud nel 2000 avrebbe recuperato consensi, superando la crisi di popolarità dopo il fallimento delle trattative di pace con Arafat. All'interno del governo, Barak potrebbe contare sul sostegno del ministro delle Infrastrutture Binyamin Ben-Eliezer, di quello dell'Agricoltura Shalom Simhon, dell'Educazione Yuli Tamir, del Turismo Isaac Herzog. Il diretto interessato, che si trova negli Stati Uniti, al momento non rilascia commenti. Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera lettere@corriere.it