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La Stampa Rassegna Stampa
29.10.2006 Le domande che Carla Reschia non ha fatto
su Hezbollah e sull'Unifil

Testata: La Stampa
Data: 29 ottobre 2006
Pagina: 11
Autore: Carla Reschia
Titolo: «L’uomo dell’Onu: pronti a reagire»
Carla Reschia intervista per La STAMPA il vicesegretario delle Nazioni unite Jean-Marie Guéhenno sulla missione Unifil in Libano.
Alcune domande spiccano per la loro assenza.
Perché la Reschia, non menziona il rifornimento di armi a Hezbollah che continua attraverso il confine siro-libanese,  mentre chiede delle "violazioni" israeliane dello spazio aereo libanese, volte proprio a monitorare quei traffici?
Perché non chiede se l'Unifil intende procedere al disarmo di Hezbollah come chiede la risoluzione 1701?
Perché, ricordando le pressioni di Hezbollah per una "maggiore rappresentanza nel governo" libanese non menziona almeno la recente incriminazione dell'organizzazion terroristica per la strage antisemita del 1994 a Buenos Aires, compiuta su commissione dell'allora presidente iraniano Rafsanjani,  nella quale persero la vita 85 persone e 300 furono ferite ?

Ecco il testo:

«Ci sono tutti i presupposti perché il nostro impegno abbia buon esito». Jean-Marie Guéhenno, Vice Segretario delle Nazioni Unite per le operazioni di peacekeeping e membro del World political Forum che si è concluso ieri a Bosco Marengo, mette la sordina alle inquietudini che in questi giorni agitano la sua patria francese sul futuro della missione libanese.
Lei aveva detto: «L’Unifil non si lascerà arruolare nè da Hezbollah nè dall’esercito israeliano». È realistico?
«Disponiamo di una forza totale di 15 mila uomini su un’area di operazioni relativamente piccola, c’è una significativa presenza europea e una grande capacità militare. Insomma, abbiamo tutti i requisiti per non farci umiliare e onorare il nostro mandato».
Ci sono state ripetute violazioni dello spazio aereo libanese.
«Si è agito a tutti i livelli, diplomatici e non, per indurre Israele a cessare i sorvoli, cosa che del resto è nel suo stesso interesse. Mi pare che l’obiettivo sia stato raggiunto».
Sull’altra parte del fronte, Hezbollah sembra deciso sia a tenersi le armi sia a non perdere il controllo del territorio.
«Abbiamo tutti i mezzi per farci valere, la forza e la capacità di rispondere e lo faremo, se si renderà necessario. Ovviamente le regole d’ingaggio ci impongono di agire solo in caso di attacco, per legittima difesa, e così sarà. Ma questo vincola le parti a non tenere comportamenti che possano essere interpretati come atti ostili e che potrebbero risolversi in gravi incidenti».
Su cosa fonda il suo ottimismo?
«Per molto tempo il governo libanese non è potuto intervenire nel Sud, non ha avuto la disponibilità e il controllo del proprio territorio. Quest’estate ha preso una decisione di portata storica, mandando l’esercito oltre il fiume Litani e ora Unifil può agire d’intesa con l’esercito libanese. Questo è molto importante. Il ritorno delle truppe europee nelle forze di peacekeeping, dopo il ritiro negli Anni ‘90, è un altro segnale politico forte. Testimonia il rinnovato impegno dell’Europa. Ed è anche una prova di fiducia nella possibilità di un successo».
Non si potrà andare avanti all’infinito a presidiare il Libano.
«Chiaramente questo segnale deve essere accompagnato da un disegno politico, da un’azione a livello internazionale e regionale. Il triangolo Libano, Siria, Israele è cruciale. Lì deve nascere e svilupparsi un’intesa».
Pochi giorni fa fonti militari francesi hanno evocato lo spettro dei Balcani, dove i caschi blu sono stati tenuti in scacco da un pugno di miliziani. È un paragone realistico?
«Non occorre evocare i Balcani, il Libano ha già vissuto una guerra civile lunga e feroce. È un Paese che è stato profondamente ferito e ancora ne risente. Ma ne è uscito. E ora il dialogo tra le diverse componenti è aperto e proficuo; le relazioni si stanno via via consolidando. Mi pare una situazione diversa. Certo, qui interviene la comunità internazionale, che deve essere presente ma con cautela e con molto tatto perché queste ferite non si riaprano. E per accompagnare il Paese nel suo percorso».
Quale percorso vede?
«La risoluzione 1701 indica un percorso chiarissimo per uscire dalla crisi, basta seguirlo. Per il futuro del Paese si tratta, come ho detto, di mettere in opera strumenti politici su vasta scala e a lungo termine, coinvolgendo l’area regionale. Senza dimneticare gli aspetti economici».
Ma Hezbollah, forte della sua «vittoria», preme per una maggior rappresentanza nel governo, anzi, per un’ unità nazionale che, di fatto, sarebbe il «partito di Dio» a guidare.
«Hezbollah è già rappresentato nell’attuale governo. La stabilità di quest’ultimo dipende, anche, da quanta fiducia e appoggio riceverà dalla comunità internazionale».
Lei nel 1993 ha scritto «La fine della democrazia» (tradotto in Italia da Garzanti n.d.r.), dove parla con un certo pessimismo dei pericoli dell' «età imperiale», «un’età di violenza diffusa e continua. I barbari sono nell’impero e l’impero secerne i propri barbari».
«Il pessimismo è anche un modo per reagire. Eravamo alla fine della Guerra fredda, un equilibrio di decenni si era rotto. Ora la situazione resta molto fragile, ma vedo un rinnovato coinvolgimento della comunità internazionale, una volontà di costruire, di realizzare. È un sentiero stretto ma dobbiamo percorrerlo».
In che modo?
«Le esperienze di questi anni, penso all’Afghanistan, dimostrano come la strategia militare da sola non basti. La sfida è politica, richiede un impegno comune e deve andare di pari passo con l’impegno economico, un significativo impegno economico, per lo sviluppo».

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