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La Stampa Rassegna Stampa
28.10.2006 "Dialogo" con i talebani, inamovibilità delle dittature che sostengono il terrorismo
i pessimi consigli di Lakdar Brahimi, inviato speciale di Kofi Annan

Testata: La Stampa
Data: 28 ottobre 2006
Pagina: 9
Autore: Carla Reschia
Titolo: «Lakdar Brahimi: «Aprire il dialogo anche con i taleban»»

Trattare con i talebani, non "invadere mai un paese", nemmeno se è una dittatura e ci minaccia, nemmeno se sostiene il terrorismo.
Lakdar Brahimi, rappresentante speciale di Kofi Annan, ha un'utile consiglio all'Occidente impegnato nella guerra al terrorismo islamista.
Lo si può sintetizzare così: "arrendetevi subito"
Ecco il testo dell'acritica intervista di Carla Reschia pubblicata dalla STAMPA del 28 ottobre 2006:

«Sono sempre sconvolto, quando sento parlare di vittime civili. Ma che cosa ci si deve aspettare, bombardando da centinaia di metri d’altezza? E’ impossibile capire chi, che cosa si colpisce. Sono i terribili limiti dell’intervento militare». Dal World Political Forum voluto da Gorbaciov, Lakdar Brahimi, rappresentante speciale di Kofi Annan e diplomatico Onu di lungo corso in mille crisi, dall’Afghanistan all’Iraq, al Sud Africa, commenta così la notizia della strage afghana, che proprio ieri è stata ammessa dalla Nato, e il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jaap de Hoop Scheffer ha definito la morte di almeno 12 civili «una tragedia». Brahimi ne approfitta per rilanciare la sua tesi di sempre, dialogo, dialogo, dialogo, a oltranza. Sono un peacekeeper, un uomo di pace, sottolinea, non potrei parlare diversamente.
Lei ha detto che le strategie corrette sono quelle che non propongono modelli da esportare, ma definiscono programmi diversi per ciascun Paese. Formule magiche come «exit strategy» o «elezioni» rivelano invece la loro debolezza progettuale e politica. Ne trova conferma nella situazione attuale?
«Certo, ne sono convinto. Servono strategie efficaci, pazienti, realiste e soprattutto a lungo termine. In Afghanistan sono state fatte molte cose negli ultimi 5 anni, anche buone. Ma ora lì c’è un problema molto serio, che non può essere risolto con la forza militare, solo su una base politica, sociale ed economica. Il governo afghano e la comunità internazionale devono prestare molta attenzione in questa fase, è un momento delicatissimo».
Si aspettava questa involuzione?
«Quando ero in Afghanistan la situazione era migliore. Ma anche allora dicevo che ciò che stavamo facendo non bastava. Fin dal 2002 ho detto che bisognava cercare il dialogo anche con i taleban, ho provato ad avviarlo. Purtroppo non ho trovato ascolto».
E ora?
«Ora bisogna lavorare per una migliore collaborazione fra Pakistan e Afghanistan. Il ruolo di Islamabad è cruciale, il suo coinvolgimento è innegabile, bisogna tenerne conto. E occorrono investimenti a lungo termine, anche economici, da parte della comunità internazionale».
In Italia si parla di disimpegno, in modo sempre più insistente. Che ne pensa?
«E’ una questione interna, ma c’è una riflessione da fare. L’Afghanistan è un Paese che da 25 anni conosce solo distruzioni, invasioni, guerre civili. Come si può pensare di risolvere la situazione in 25 mesi? Per aiutarlo davvero bisogna capire questo, e investire senza aspettarsi risultati immediati».
Afghanistan, Iraq, Darfur. Tre crisi internazionali che lei ha seguito personalmente e che continuano a dominare la scena internazionale. Che lezione possiamo trarne?
«Lezioni diverse, perché sono Paesi diversi, ma con qualche tratto comune, come la ricerca del confronto. Nel Darfur occorre intanto pensare alla sopravvivenza della popolazione, aiutare sul piano pratico. Dovrebbe cambiare l’approccio, sotto molti aspetti. Ad esempio, è inutile continuare a parlare di intervento militare quando si sa benissimo che non s’interverrà. Nessuno manderà soldati nel Darfur. Ed è sbagliato dividere i buoni e i cattivi: governo cattivo al 100 per cento, ribelli buoni al 100 per cento. Il nostro compito non è distribuire attestati di merito, ma favorire la comprensione reciproca, cercare il dialogo. Mantenere l’imparzialità è indispensabile, non si deve diventare paladini di una sola parte».
L’Iraq?
«L’Iraq ci ha dato una grande indimenticabile lezione. Non bisogna mai invadere un Paese, mai cercare di cambiare il corso della sua storia con la forza. Soprattutto quando non si ha idea di come andare avanti dopo».
Vede ancora possibile un’evoluzione positiva?
«Lo spero, ma c’è un peccato originale, ed è l’occupazione. Sono stati commessi troppi errori, non si può costruire distruggendo. Credo che l’amministrazione Bush debba ripensare la sua strategia, rivederla profondamente: si deve preparare il terreno, favorire il processo di evoluzione, accompagnarlo».
Ma in questo momento è in atto quella che ormai tutti definiscono una guerra civile.
«Occorre un processo politico, è un problema complesso, con tempi lunghi. Ma oggi si deve avere chiaro, in ogni caso, che l’alternativa all’Iraq unito non sono tre Stati autonomi, è il caos. Nel Paese e nell’intera regione. Partendo da questo occorre, ancora una volta, il dialogo. Ho sempre pensato che escludere i baathisti fosse un errore. E’ sempre un errore rifiutare il confronto».
L’Onu potrebbe avere un ruolo in questo processo?
«Stando così le cose assolutamente no. Ma se gli Usa cambiassero strategia, allora sì».

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