Le ragioni di sicurezza addotte da Israele per il mancato rilascio di visti a uomini d'affari americani di origine palestinese sono naturalmente, per Michele Giorgio, autore di una cronaca pubblicata dal MANIFESTO del 27 ottobre 2006, false.
Dal momento però che a vedersi rifiutato l'ingresso nei territori sono dei "capitalisti" Israele risulta colpevole anche per averli in passato concessi, quei visti.
Leggiamo così frasi di questo genere: "Guidato da sentimenti patriottici o, più probabilmente, dalla intuizione che sfruttando il lavoro a basso costo dei suoi connazionali avrebbe realizzato enormi profitti, Khoury lasciò una vita agiata negli Usa per trasferirsi a Ramallah", oppure "che Khoury sia un capitalista senza scrupoli oppure un benefattore che ha creato posti di lavoro, a Israele va bene. A Tel Aviv pensano che con lo stomaco pieno e qualche soldo in tasca, i palestinesi facciano meno attenzione alla loro condizione di prigionieri nella loro terra" (cioè si dedichino alla costruzione di un loro Stato e ad accrescere la propria prosperità anziché al tentativo di distruggere Israele e sterminare gli ebrei che vi vivono?)
Indeciso tra anticapitalismo e antisionismo, Giorgio opta per entrambi.
Perciò Israele è colpevole, appunto, sia per avere dato il visto a Khoury per promuovere lo sviluppo economico dell'Autorità palestinese, sia per averglielo tolto, per motivi di sicurezza, dopo anni di violenta offensiva terroiristica.
Ecco il testo:
Dopo una vita passata tra Stati Uniti, Libano, il Golfo, Germania e Sud America, dieci anni fa Zahi Khouri decise di tornare in Palestina. Erano gli anni della pace (artificiale) di Oslo e gli uomini d'affari palestinesi erano inseguiti da Yasser Arafat e incoraggiati, anche da Israele, a «partecipare allo sviluppo economico di Cisgiordania e Gaza». Guidato da sentimenti patriottici o, più probabilmente, dalla intuizione che sfruttando il lavoro a basso costo dei suoi connazionali avrebbe realizzato enormi profitti, Khoury lasciò una vita agiata negli Usa per trasferirsi a Ramallah dove poco dopo avrebbe fondato la «National Beverage Company», azienda partner della Coca Cola nei Territori occupati. «Per dieci anni non ho avuto problemi al valico di Allenby (con la Giordania, controllato da Israele, ndr) e il fatto di dover risiedere in Cisgiordania solo con un visto turistico (valido tre mesi, ndr) non mi è mai pesato troppo», racconta Khouri. D'altronde perché avrebbe dovuto preoccuparsi. Vip come lui vengono trattati con i guanti di velluto dalle forze di occupazione e inoltre che Khoury sia un capitalista senza scrupoli oppure un benefattore che ha creato posti di lavoro, a Israele va bene. A Tel Aviv pensano che con lo stomaco pieno e qualche soldo in tasca, i palestinesi facciano meno attenzione alla loro condizione di prigionieri nella loro terra. Pensavano, per la precisione, perché ora anche gli uomini d'affari palestinesi più in vista, compresi quelli con il passaporto statunitense, non vanno più bene. Sono sempre di più infatti quelli che vengono respinti, per ragioni ignote, ai valichi di frontiera. Il numero è divenuto così significativo che Washington è intervenuta per chiedere spiegazioni al governo Olmert. Le autorità israeliane, riportava qualche giorno fa il quotidiano Ha'aretz, hanno risposto che dietro questi provvedimenti restrittivi ci sono ragioni di sicurezza. Zahi Khoury, il re delle bevande analcoliche, è un pericolo per la sicurezza di Israele? Davvero difficile crederlo. Non possono neppure accusarlo di finanziare segretamente la guerra santa islamica perche è un cristiano.
Per negare le motivazioni di sicurezza di Israele Giorgio afferma quello che ha sempre negato: che i gruppi terroristici palestinesi conducono una guerra santa islamista.
E' vero, ma è anche vero che vi sono anche dei cristiani arabi ad appoggiarla.
«L'ultima volta che sono rientrato a Ramallah dalla Giordania, la polizia israeliana al valico di Allenby mi ha concesso un visto turistico di appena sette giorni e temo che alla prossima occasione non mi verrà più permesso di tornare in Cisgiordania», racconta Khoury riferendo di diversi suoi amici e colleghi con passaporto Usa rispediti al mittente senza alcun motivo. «Cosa vuole il governo Olmert, che i palestinesi vengano ridotti alla fame oppure espellerci tutti dalla nostra terra? Ma ciò non farà mai gli interessi di sicurezza di Israele», avverte l'uomo d'affari, aggiungendo di aver scritto una lettera di denuncia al Segretario di stato Condoleezza Rice. Peggio è andata ad un'altro pezzo da novanta del capitalismo palestinese, Sam Bahour. «Tredici anni fa ho lasciato gli States per investire nella mia terra credendo nella pace e nella nascita di uno Stato palestinese accanto a Israele - ha scritto in un articolo apparso sul New York Times -. Sono perciò tornato ad al-Bireh, dove la mia famiglia ha vissuto per secoli, e ho partecipato alla costituzione di una azienda di telefonia mobile (la Jawwal, ndr) che oggi vale oltre 100 milioni di dollari e ha 2.000 dipendenti, ho costruito uno shopping center che impiega 220 persone e ho trovato anche il tempo per studiare e conseguire un master all'Università di Tel Aviv. Ora le autorità israeliane hanno deciso di non farmi più entrare in Cisgiordania».
Bahour non può più vivere con la sua famiglia come altri 70mila palestinesi ai quali, secondo dati del centro per i diritti umani Betselem, negli ultimi anni le autorità di occupazione hanno negato la riunificazione familiare. Israele infatti ha il controllo del registro della popolazione dei Territori occupati e l'Autorità nazionale palestinese non può emettere un solo documento di identità o approvare un cambio di residenza senza l'approvazione dell'esercito israeliano. Ciò vale anche a Gaza da cui lo Stato ebraico ha ritirato coloni e soldati lo scorso anno. Ma le restrizioni colpiscono anche i cittadini stranieri. Alle centinaia di volontari, cooperanti e pacifisti espulsi o ai quali è stato impedito di passare la frontiera, si sono aggiunti anche numerosi professori e insegnanti diretti per motivi di lavoro in Cisgiordania e Gaza.
Javier Solana, secondo il quotidiano comunista avrebbe compiuto "una missione in ginocchio" in Israele.
Dalla breve cronaca della visita dell' dell'Alto Rappresentante dell'Ue per la politica estera è significativamente assente questa notizia che riprendiamo da israele.net:
“Nonostante l'attuale governo Hamas alla testa del Autorità Palestinese, l'Unione Europea ha versato ai palestinesi più fondi nel 2006 che nel 2005”. Lo ha detto giovedì sera l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della UE Javier Solana durante la conferenza stampa con Mahmoud Abbas (Abu Mazen) alla Mukata di Ramallah.
Meglio che non si sappia: qualcuno potrebbe chiedere conto di questi finanziamenti e soprattutto
il gioco del presentare i palestinesi come vittime dell'indifferenza e dell'ostilità del mondo intero (quando godono nella comunità internazionale di sostegni e indulgenze del tutto eccezionali) sarebbe messo a rischio.
Ecco il testo dell'articolo del Manifesto:
Una missione in ginocchio. Solo così si può descrivere la visita in Israele dell'Alto Rappresentante dell'Ue per la politica estera, Javier Solana. Gli incontri di ieri con i dirigenti israeliani erano stati preceduti dal colloquio con Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu, una formazione politica che propone l'espulsione di 1,3 milioni di cittadini arabi da Israele. Solana, che si tiene a distanza da qualsiasi ministro palestinese rispettando il boicottaggio europeo dell'Anp controllata da Hamas, trova legittimo incontrare il leader di un partito che nell'Ue sarebbe dichiarato fascista e illegale. Ieri Solana ha chiesto al governo di Tel Aviv di sradicare tutti gli avamposti d'insediamenti (un centinaio di micro colonie che si sommano ai 120 insediamenti veri e propri), facendo ripartire la road map. e ha implorato il ministro degli esteri Tzipi Livni e il vicepremier Shimon Peres di autorizzare la riapertura dei valichi di confine con Gaza e della frontiera palestinese di Rafah, dove operano gli osservatori europei. I rappresentanti israeliani gli hanno sbattuto in faccia un secco «no», anzi la Livni ha notato che comincia a dare i primi frutti la linea del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) di boicottaggio dell'Anp.
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