I palestinesi votano Hamas per paura d'Israele? un'analisi che parte da presupposti falsi
Testata: Avvenire Data: 25 ottobre 2006 Pagina: 2 Autore: Fulvio Scaglione Titolo: «Plestinesi lacerati, la pace più lontana»
Il "pragmatismo" di Al Fatah presupposto dall'analisi di Fulvio Scaglione pubblicata da AVVENIRE del25 ottobre 2006 non è in realtà nè unanime nè egemone nel gruppo terroristico palestinese. Se Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, ha maturato da anni la convinzione che i palestinesi non possano sconfiggere Israele con il terrorismo, ma non è finora risucito a tradurla in una politica efficace e in una indispensabile lotta ai gruppi che continuano a scegliere la violenza, a Faruk Kaddumi, capo di Al Fatah, al terrorismo e alla distruzione di Israele non ha mai rinunciato. Rivaleggia semplicemente sullo stesso terreno con Hamas.
Errato è anche il paragone tra l'"estremismo" di Hamas e quello di Lieberman. Si può pensare quello che si vuole del leader di Ysrael Beitenu, ma è un dato di fatto che nella sua agenda politica c'è spazio per un compromesso territoriale con i palestinesi. Nell'agenda di Hamas c'è spazio solo per la distruzione di Israle.
Molto dubbia è anche l'idea che i palestinesi "vogliano la pace", ma abbiano mandato Hamas al governo perché "hanno paura" d'Israele.
Hamas non promette sicurezza da una minaccia israeliana che non è mai esistita (dato che è sempre stato il terrorismo palestinese ad aggredire Israele e non viceversa), ma la prosecuzione della guerra, il "martirio", l'uccisione degli ebrei, la distruzione di Israele.
Diamo credito ai palestinesi della capacità di capire un messaggio molto chiaro ed esplicito (sempre in arabo, e spesso, nel caso del gruppo islamista, anche in inglese) e riconosciamo che hanno votato esattamente per queste parole d'ordine.
Ecco il testo:
L'ultima bordata è partita da un sito Internet vicino ad Hamas, che accusa il presidente Abu Mazen (esponente della vecchia guardia di al-Fatah) di preparare un colpo di mano politico (scioglimento del governo controllato da Hamas) e militare (occupazione dei ministeri con reparti delle forze di sicurezza). Il tutto dopo una lunga serie di bordate assai più micidiali che hanno fatto decine di morti a base di agguati, sparatorie e scontri di strada tra miliziani delle diverse fazioni. Ogni tanto, l'ultima volta una decina di giorni fa, il premier Haniyeh e il presidente Abu Mazen siglano un accordo in nome della sospirata "unità dei palestinesi", e poi la guerriglia a Gaza ricomincia come prima. Una convulsione sanguinosa che va seguita con attenzione, perché è l'espressione del più profondo e lancinante dilemma della società palestinese: perseguire la distruzione di Israele o dialogare con il nemico di sempre? Normalizzare, magari a costo di ammainare qualche vecchia bandiera, o restare nel guado dei senza terra e dei senza Stato, esuli nell'algido inferno della guerra permanente? Anche il disastro di Gaza (dove ieri è stato anche rapito un reporter spagnolo) è il prodotto inevitabile del contrasto tra chi vede nella Striscia l'avamposto delle campagne contro Israele (Hamas), quasi una gigantesca piazzola di lancio di missili, e chi invece (al-Fatah) vorrebbe farne un uso "civile" e produttivo e trasformarla nella prima frontiera del dialogo. Complica le cose l'animo diviso dei palestinesi, che hanno fame e sete di pace ma insieme temono Israele, un timore che li ha spinti a votare in massa per Hamas nelle ultime elezioni. Anche la politica è divisa. Hamas non ha bisogno della pace perché riceve fondi e sostegno dall'estero (Iran, Siria), al-Fatah desidera una vera trattativa con Israele perché lo vuole ma anche perché ne ha bisogno, avendo perso molte delle fonti di finanziamento (quattrini europei compresi) a causa del radicalismo politico del governo di Hamas. È difficile prevedere come potrà essere sciolto, se mai lo sarà, il dilemma che oggi paralizza l'intera questione palestinese. Giudicando sulla base dell'interesse della gente, la pace e il dialogo con Israele (la cui distruzione è, al di là di ogni altra considerazione, semplicemente impossibile) non hanno alternative. Si conferma, però, una delle maledizioni del popolo palestinese: avere il proprio destino determinato quasi sempre da altri. Oggi tocca all'Iran la parte che, in passato, fu di volta in volta dell'Egitto, della Giordania, del Libano, della Siria, del Kuwait, cioè quella di sfruttarlo per i propri fini. Da un lato spingendolo, attraverso Hezbollah e Hamas, a una guerra senza uscita. Dall'altro costringendolo a fare i conti con un Israele che le minacce rendono, come sempre, ancora più determinato e agguerrito, in primo luogo con i palestinesi che restano il bersaglio più facile e più vicino. Lo dimostrano il raid a Beit Hanuin contro i miliziani dei Comitati di resistenza popolare ma soprattutto la cooptazione nel governo di Ehud Olmert del "falco" Avigdor Liebermann, leader del partito russofono Israel Beitenu, che avrà il rango di vice-premier e il compito di seguire le minacce strategiche contro Israele. La nomina è la migliore dimostrazione della confusione politica che la spedizione in Libano ha provocato a Gerusalemme. Ma i palestinesi faranno meglio a capire che, se le teorie del "falco" Liebermann dovesser prendere piede, saranno loro a subirle, non l'Iran.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione di Avvenire