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La Repubblica Rassegna Stampa
22.10.2006 Velo islamico: un dossier deludente
non affronta il ruolo dell'ideologia fondamentalista e le contraddizioni del "politicamente corretto"

Testata: La Repubblica
Data: 22 ottobre 2006
Pagina: 35
Autore: Guido Rampoldi - Tahar Ben Jelloun - Nadia Fusini
Titolo: «Il velo che arriva dall´Europa - Madri in jeans, figlie col foulard - Le libere musulmane di Londra»
Deludente dossier sul velo islamico sulla REPUBBLICA di sabato 22 ottobre 2006.
Il reportage di Guido Rampoldi dalla Tunisia attribuisce tanto per cambiare all'Europa e all'Occidente la responsabilità del dilagare del fondamentalismo nel mondo islamico, Tahar Ben Jelloun e Nadia Fusini concordano nel vedere nel velo, in definitiva, un'espressione di libertà, per quanto sgradevole o unilaterale possa apparire.

Non ci si chiede quale sia il ruolo delle costrizioni e dei ricatti comunitari, anche a Londra, a Parigi o a Roma, e quale quello della penetrazione ideologica del fondamentalismo.

Un dossier, in sostanza, che rifiuta di affrontare le contraddizioni dell'ideologia progressista, che cerca di essere contemporaneamente "multiculturalista" e "femminista", scontrandosi però con la realtà dell'islamismo.

Ecco il testo di Rampoldi:


Sul litorale a nord di Tunisi quella strana pudicizia modaiola si manifestò intorno all´anno 2000, quando alcune ragazze presero a indossare braghette da ciclista sopra il bikini. L´anno seguente le braghette nere erano ancora popolari; allora si diffuse l´abitudine di fare il bagno con quelle e con una T-shirt abbastanza corta da lasciar vedere l´ombelico. Poi comparve il foulard, bianco e stretto come una cuffietta da nuotatore. L´estate scorsa, nei giorni della guerra del Libano, a braghette, t-shirt e cuffietta s´è aggiunto un velo nero, il nero adesso di gran moda, il "nero Hezbollah". L´ombelico è ancora conteso tra l´eros e la morale, ma in una spiaggia dove dieci anni fa tutte le ragazze portavano il due-pezzi, in agosto Leila e le sue amiche erano le uniche a resistere, attruppate come un plotone sul punto di soccombere. Altrove l´avversario è numericamente esiguo: nel centro di Tunisi raramente vedi una donna con il capo coperto, e da una settimana la polizia è tornata a sorvegliare che il velo non entri in uffici pubblici, ospedali, scuole e università.
m a non saranno misure repressive a bloccare un cambio d´atmosfera per il quale anche la Tunisia si sta allineando alla tendenza islamizzante. I più misurano il dilagare di questi costumi giovanili al tempo stesso spensierati e penitenziali, civettuoli e bigotti, con le foto ingiallite del presidente Bourghiba mentre aiuta una tunisina a togliersi il velo: per sempre, si pensava allora. La nazione era nata, nel 1956, secolare e socialista. Oggi si discute se fuori dalla capitale le ragazze velate siano ormai maggioranza.
Quando si domanda cosa sia accaduto in questo mezzo secolo al suo Paese, tuttora la più laica tra le nazioni arabe, ma sempre meno diversa da quelle, Leila cerca risposte negli eventi successivi all´11 settembre: la guerra in Iraq, Gaza, la crisi dell´Olp che affonda il laicismo arabo, l´ascesa di Hamas e di Hezbollah, adesso il Libano… ma più spesso Leila trova spiegazioni sull´altra sponda del Mediterraneo, nel continente che fornisce alla Tunisia nuove braghette e nuove frustrazioni, foulard e rabbia, veli e islam in varia foggia: la nostra Europa.
Siamo nel centro di Tunisi, a due passi da piazza dell´Indipendenza, dove la cattedrale cattolica e la statua del filosofo musulmano Ibn Khaldoum convivono serenamente sotto un cielo oggi molto tunisino, d´un azzurro così acceso da sembrare verniciato di fresco. In strada un altoparlante inarrestabile fiotta versetti del Corano sul viavai di teste davanti alla stazione centrale. «Un anno fa non c´era, adesso non tace neppure di notte», dice Leila chiudendo la finestra. Poi torna a raccontare di quell´islam nuovo che arriva in Tunisia ogni estate. Arriva durante le vacanze, con gli emigranti che tornano dalle periferie francesi e tedesche, da un´Europa in cui non riescono a trovare un avvenire. Sono giovani e incolti. La fede dolorosa che portano come un cilicio, la religione appresa dai missionari islamici nelle aspre terre dell´emigrazione, insegna che «tutto è peccato», dunque la vita è amara, il piacere indebito, il male ovunque e l´inferno sempre in agguato. Quell´islam cupo attecchisce rapidamente nelle città tunisine, colonizza luoghi di culto, snatura la tradizione, stravolge la dottrina. Così il padre di Leila, che pure è molto pio, non va più in moschea. «Non riesce più a riconoscere la sua fede in quella religione della paura, della durezza e della proibizione». Tutte controllate dalla polizia, le moschee non osano incitare le donne a mettere il velo. A questo provvedono reti di beghine. Avvicinano le ragazze e le invitano a coprirsi perché così vogliono, ammoniscono, la religione e il decoro. «Nei villaggi e nei quartieri dove in maggioranza le donne sono velate chi decide di resistere alla pressione sociale deve mettere nel conto d´essere molestata dai maschi, segnata a dito. Non è facile».
Più spesso sono decisivi fratelli e fidanzati. Leila insegna in una facoltà della Manoubà, la più cosmopolita università tunisina, e un terzo delle sue studentesse portano il velo islamico, in genere drappeggiato secondo la moda del momento. Quando Leila le prende da parte e chiede perché, perché da un anno all´altro siano passate dalla minigonna all´uniforme islamica, di solito quelle premettono: nessuno m´ha costretta. «Quasi sempre è la prova del contrario». Più raro che a obbligarle siano i padri. «Con le giovanissime accade l´opposto: mettono il velo per contestare i genitori, che invece lo rifiutano. Per l´ultima generazione il velo sta diventando ovvio come i blue-jeans». Poi influisce la televisione. Le grandi tv satellitari. Le soap-opera egiziane con le attrici velate. E i telepredicatori, innanzitutto l´egiziano Amr Khaled, un teologo incravattato come un piazzista che ipnotizza i ceti medi col suo pietismo perbenista. Ma soprattutto pesa, dice Leila, «la stupidità, mi scusi, di voi europei». «Al di là di ogni limite», s´incupisce una sua collega, anche lei docente universitaria a Tunisi. Cosa abbiamo combinato? «Quel vostro modo grossolano di discutere del velo: allucinante. A me il velo ripugna, ci vedo qualcosa di fascista. Ma se in Europa lo proibite nel modo più rozzo e punitivo, ne fate inevitabilmente un simbolo dell´identità araba: a quel punto metterlo diventa un punto d´onore, non metterlo una viltà. Per vietarlo finirete per imporlo ad un´intera generazione d´immigrate».
Avremo pure qualche attenuante. Da quasi venti secoli il velo è una faccenda molto complicata. Coinvolge l´assoluto. I conflitti tra culture, come si dice adesso. E molto più la politica, i conflitti tra classi e tra generazioni. Perché durante l´impero le prime cristiane cominciarono a coprirsi la testa, proprio su questi litorali? Per manifestare contro un´oligarchia corrotta e unirsi per scalzarla, lo stesso motivo per cui molti secoli dopo s´è velata la piccola borghesia egiziana ostile a Mubarak? Per distinguersi dalle scarmigliate contadine, così come in seguito le borghesi tunisine si misero il velo bianco poi abolito da Bourghiba? Per devozione? Per rivendicare un´identità etnica, latina, contro i berberi nativi? Perché convinte da santi predicatori? Per paura della Chiesa e dei suoi ulema tonanti?
Comunque sia andata, nel settimo secolo, quando apparve Maometto, le donne delle terre oggi arabe erano già intabarrate: dunque l´islam non inventò il velo, lo ereditò. E con quello ereditò una tricomachia, o guerra delle chiome, in cui s´erano distinti alcuni grandi teologi cristiani. Innanzitutto Tertulliano, che studiò e forse insegnò proprio qui a Tunisi quando questo era il secondo porto dell´impero (si chiamava Cartagine, la Cartagine ricostruita da Augusto sulle rovine di quella rasa al suolo da Scipione). A cavallo tra il secondo e il terzo secolo, Tertulliano scrisse parole roventi sulle scostumate che mostrano il viso agli sconosciuti. Invitò soprattutto le sposate a rigar dritto. «Noi vi ammoniamo… a non deviare dalla disciplina del velo, neppure un attimo, perché non potete rifiutarlo… a giudicarvi saranno le donne dell´Arabia (la penisola arabica, all´epoca pagana, cristiana o giudaica) che coprono non solo la testa, ma anche la faccia, così interamente che preferiscono guardare con un occhio solo che prostituire l´intera faccia. Una donna dovrebbe guardare piuttosto che essere guardata». E sul fatto che le vergini non dovessero mostrarsi in giro: «L´essere esposte allo sguardo altrui… è come uno stupro… e anzi la violenza carnale è meno malvagia perché è naturale».
Tertulliano era così arcigno perché non solo la morale del tempo, ma soprattutto le Scritture, da Timoteo alle Lettere ai Corinzi, negavano alle donne gli stessi diritti dell´uomo; e i suoi precetti («ad una donna non è permesso parlare in una chiesa, né insegnare, né battezzare, né officiare») sono tuttora nella dottrina cattolica. Dunque non ha tutti i torti Islamonline, il sito-web che perfidamente ripropone i brani di Tertulliano (in inglese) con lo scopo di dimostrare che il velo è nel solco d´una tradizione né araba né musulmana. Più complicato risulta all´islamismo cibernetico convincere le internaute a coprirsi il capo. Su Islamonline motivazioni a iosa, ma tutte acrobatiche. Il velo proteggerebbe diritti cui le occidentali rinuncerebbero rendendosi schiave delle mode, del trucco, del parrucchiere, del loro corpo. Segnalerebbe il rifiuto di «valori inaccettabili all´islam, che invece eleva le donne alla posizione di onore e rispetto». E soprattutto sarebbe lo stendardo della propria «civiltà». Ma qual è la «civiltà» della Tunisia?
L´università dove Leila insegna, La Manoubà, è nota, tra l´altro, per il suo "Laboratorio di storia plurale", dove docenti e alunni possono smontare l´identità nazionale negli elementi che l´hanno composta: la Tunisia è stata punica, romana, ebrea, berbera, araba, turca, francese (e mai pienamente tunisina, aggiunse uno storico). A questo deve la sua preziosa diversità. Ma il Laboratorio oggi rischia di diventare un perditempo, una bizzarria. Come infatti l´Europa tende a chiudersi in un´identità "cristiana" o "giudaico-cristiana", impoverendo una storia ben più ricca, così la Tunisia si sta calando dentro un´identità "arabo-islamica" che oscura volutamente il resto.
È una tendenza cui alcuni resistono, come si ricava dai forum ospitati da internet, cui i laici affidano le proprie apprensioni. L´arabo-islamité è «il cimitero della nostra cultura», scrive uno. E un altro: «Quando le truppe arabe sono arrivate in Tunisia, hanno trovato o no una popolazione autoctona, berbera? E dunque, perché dovremmo sentirci arabi?». Ma questi appelli a evadere dalla prigione dell´arabo-islamité sono minoritari. Comunque non hanno più fortuna di quanta ne ebbe Bourghiba quando tentò di proporsi come il nuovo Giugurta, il re numida che condusse una guerriglia tenace contro l´impero romano. La metafora non-islamica lasciò freddi i tunisini e Bourghiba l´abbandonò.
Secondo Leila la Tunisia plurale cominciò a perdere la partita con l´arabo-islamité negli anni Ottanta, quando, per effetto d´una arabizzazione dell´insegnamento necessaria ma condotta in modo imprevidente, gli insegnanti di filosofia, in genere francofoni, furono sostituiti da teologi che conoscevano bene l´arabo: inevitabilmente islamizzarono il pensiero tunisino. Però decisivi furono gli eventi successivi. Con uno stato di polizia tra i più occhiuti il presidente Ben Ali, che nel 1987 depose Bourghiba, ha represso l´islamismo ed evitato al Paese una catastrofe algerina: ma allo stesso tempo ha impedito un´evoluzione verso uno stato di diritto trasparente. Ufficialmente vince ogni elezione con percentuali tra il 94 e il 99 per cento ma nella realtà non è riuscito a fermare il lavorio dell´islamismo. Ora s´affida alla circolare 108 contro il velo che aveva promulgato nel 1990, l´anno della caccia ai fondamentalisti, e in seguito dimenticato nei cassetti, al punto che tre anni fa una sua figlia era apparsa velata in tv. Ripristina quella proibizione adesso per impedire che il "nero Hezbollah" dilaghi, o per segnalare ai governi europei che la sua Tunisia è dalla loro parte.
Ma non è più uno stato laico che difende la propria identità. Piuttosto, comincia a somigliare all´ennesimo regime "moderato" in ritirata che per sopravvivere cerca di strappare la bandiera dell´"islam autentico" dalle mani degli islamisti. Così mentre Ben Ali soffiava via la polvere dal decreto 108 confermando «il nostro attaccamento alla sublime religione islamica», la sua censura vietava Corpi in ostaggio, una pièce teatrale che racconta il percorso classico d´una tunisina dalla sinistra rivoluzionaria all´uniforme islamista, in quanto «attenta alla morale e alla religione». È assai dubbio che Tunisia ed Europa riescano a fermare il "nero Hezbollah" con queste misure. Soprattutto se nel frattempo continueranno a velare la verità con gli antichi drappi delle religioni e delle "civiltà". 

Quello di Ben Jelloun:

N el giro di una ventina d´anni le cose sono cambiate parecchio. Quando ero all´università di Rabat, nel 1965, nessuna studentessa si metteva il velo o si vestiva con la djellaba. La promiscuità nell´ambiente studentesco era naturale e ragazzi e ragazze si frequentavano senza esibirsi in modo oltraggioso: stando ai film del neorealismo, direi che era un po´ come nell´Italia degli anni Cinquanta. Oggi il panorama è cambiato. Metà delle mie cugine va all´università in jeans e l´altra metà ci va con tuniconi larghi e un velo intorno alla testa. Non è più una questione di tradizione, ma un atteggiamento, un modo di sottolineare la propria identità culturale. Un atteggiamento di rifiuto.
L´altr´anno mi trovavo in Tunisia per un giro di conferenze nei licei e nelle università. Nessuna ragazza era velata. Alla fine del mio intervento, due ragazze vennero a parlarmi abbassando la voce per timore d´essere sentite da orecchi indiscreti: «Non è una questione di libertà e di scelta individuale, vestirsi secondo le proprie convinzioni? Qui, noi vorremmo portare il velo ma ce lo vietano: non c´è un testo di riferimento o una legge, ma ci sospettano di essere all´opposizione». Una professoressa sulla cinquantina, vestita all´europea, mi cita a testimone: «Una volta lottavamo con le nostre madri per uscire in abiti attillati e pantaloni, oggi lotto contro mia figlia perché vuole portare il velo e coprirsi dalla testa ai piedi. È il mondo alla rovescia».
La Tunisia ha fatto una guerra spietata agli estremisti islamici. Il Marocco ha voluto giocare la carta della tradizione e della modernità allo stesso tempo. Il paesaggio è variegato e non si può affermare che «il Marocco è sempre più islamizzato», come ha fatto recentemente un giornalista americano vedendo che molte donne marocchine portano il velo. Ma il fanatismo non ha più bisogno di nascondersi dietro alla barba o al velo. Con l´aiuto della segretaria di un amico medico, anch´essa velata, ho steso un elenco delle diverse ragioni che attualmente spingono le donne marocchine a portare il velo: per convinzione religiosa (la religione sta riempiendo il vuoto culturale del Paese); per moda (ci sono veli elegantissimi e una sorta di erotismo discreto); per precauzione e per mostrare di essere persone serie quando si fa un colloquio di lavoro o ci si presenta a un esame; per essere lasciate in pace dagli uomini che importunano le donne per strada, partendo dal presupposto che siano tutte puttane; per obbedire ai genitori; per affermare un´identità diversa da quella europea; per timore dei pettegolezzi dei vicini, etc. Per velo s´intende qui un foulard che copre i capelli ma non il viso. Le donne velate dalla testa ai piedi con un burqa nero, quelle chiamate "Fantomas", sono davvero rarissime.
La società marocchina non è mai stata permissiva. Ha sempre tenuto a salvare le apparenze. Detto questo, in Marocco non c´è mai stato il delitto d´onore come in Giordania, in Libia o in certe zone della Turchia. Ci si arrabbia con le donne, magari si impone loro il velo, ma non si uccidono.
Quello che sta succedendo in Marocco è una sorta di conferma dell´identità. Il fallimento delle ideologie politiche di sinistra, il vuoto creato dalla miseria culturale, l´indebolimento dell´autorità parentale e di alcuni valori spingono le ragazze a preferire il velo, che offre loro tranquillità e forse anche una certa felicità. Sulla scena pubblica marocchina è attualmente impossibile invocare la laicità. I credenti percepiscono la separazione tra islam e stato come un´aggressione nei confronti delle loro convinzioni, come un tradimento delle origini. Nel frattempo, le televisioni satellitari del Golfo riversano tonnellate di documentari religiosi fatti da uomini barbuti o donne velate e, a forza di sentirle ripetere che «la nostra identità è nell´islam», più nessuno osa affermare qualcosa di diverso.
Infine, per una famiglia marocchina, l´ideale è andare a passare questo mese di Ramadan alla Mecca e a Medina. Questo viaggio si chiama la Omra (il piccolo pellegrinaggio). Quest´anno decine di migliaia di coppie sono partite per andare a digiunare laggiù: è un modo per essere in pace con se stessi e mettere al bando tutte le angosce del mondo, ben più efficace di qualsiasi antidepressivo. Anche questa è una questione di libertà. Aspettiamo che questa libertà smetta di essere a senso unico e che sia tollerato chi fa altre scelte di vita. La comparsa sempre più frequente del velo significa che per il momento a dominare sono i credenti.

E quello della Fusini:

Ci hanno colpito tutti le parole di Jack Straw, l´ex-ministro britannico, il quale giorni fa ha dichiarato sinceramente che sì, è vero, lo mettono a disagio quelle donne che gli si presentano "velate". E intendeva le donne che indossano il niqab, il pieno velo, da cui emergono solo gli occhi. Non si riferiva al hijab, che sarebbe quel foulard che copre i capelli, ma appunto al velo quasi totale con cui gli si presentano certe donne islamiche che vivono a Blackburn. Con sincerità, senza disprezzo, ha confessato che a lui quel velo dà una certa angoscia.
È quello che capita a me di provare camminando in certe strade di Londra. Dunque, ho capito che cosa intendeva dire Straw, non il politico, ma l´uomo che vive e lavora in un paese dove i volti sono per lo più scoperti. Per noi che viviamo in questa parte di mondo e ne usiamo i differenti linguaggi, tutti sprigionanti da una stessa radice, o ceppo linguistico, per noi che parliamo italiano, inglese, spagnolo e così via, l´incontro faccia a faccia ha un significato speciale. In molte frasi idiomatiche il viso, il volto, la faccia trasfigurano in metafore del coraggio, della sincerità. A volto scoperto il valoroso affronta la morte, faccia a faccia il coraggioso dice la verità. La sincerità trionfa nel viso che non si nasconde. Al contrario, il volto coperto, incappucciato, suggerisce paura: il bandito si nasconde, l´assassino camuffa con una calza i propri lineamenti.
Il volto non è il nome proprio, ma un che di più essenziale forse del nome stesso; è il segno umano per eccellenza. Del corpo umano è forse la parte più animata, più mobile. Aperto, scoperto, ridente, il volto affronta il mondo. Coperto, suggerisce ombre, trame, raggiri, segreti, esclusioni...
Forse per questo le donne velate nei loro niqab o hijab o burqa o chador angosciano me, come Straw. Ne ho incontrate in Iran, in Afghanistan, in Pakistan. Qui a Londra. Nei loro paesi di origine mi hanno fatto una grande pena. Perché vedevo nel velo il segno drammatico della loro oppressione. La stragrande maggioranza delle donne che in quei paesi indossano il velo nelle sue varie forme di certo non lo scelgono. Ma qui a Londra, mi sono chiesta, perché? Sono forse ancora vittime dell´oppressione familiare, paterna?
Poi l´altra sera in televisione ho visto coi miei occhi e sentito con le mie orecchie giovani donne islamiche che in questo paese sono nate e ne parlano perfettamente la lingua, le quali donne avvolte nei loro niqab e chador argomentavano in perfetto stile retorico occidentale la loro scelta. Erano donne istruite, ripeto; parlavano un ottimo inglese, e rivendicavano il principio fondamentale del free-will. Nessuno le obbligava, loro volevano, fortemente volevano, portare quel velo. Il free-will non è la pietra angolare della grande cultura anglosassone? E dunque?
Non si può non dare loro ragione. Sarà anche, come qualcuno ha detto, un narcisismo banale, il "narcisismo delle piccole differenze", ma chi può proibire a qualcuno di mettersi in testa quella cosa lì, piuttosto che un´altra? Sarà pure, la loro, l´ostentazione quasi sacrilega di un simbolo, ma si può, in nome della propria insofferenza, del proprio disagio e malessere, proibire a un altro un gesto, solo perché appunto a noi provoca quel sentimento?
A me, che insegno all´università, danno un lieve senso di vertigine le molte ragazze che si presentano a fare l´esame con l´orecchino infilzato nella lingua, un altro nel sopracciglio e un tatuaggio sull´orecchio. Anche in quel caso trovo che il volto sia manipolato in modo sconveniente. Ma non mi sono mai rifiutata di ascoltarle. E se sono preparate, alla fine non importa.
È più o meno quel che sostenevano le donne muslim in televisione: dovete accettare le nostre scelte, perché sono scelte. E a questo vocabolario - della scelta, della libertà personale - non potete opporre la sensibilità dell´apparato emotivo. Straw o chi per lui dovrà farsi passare il tremito e lo sconcerto e accettarci come noi ci vogliamo, dicevano quelle donne. A parlare così erano donne velate, ma occidentali, ripeto. E io occidentale quanto loro non posso certo rinunciare a un principio che tutela la mia libertà per attaccare in loro un costume che non approvo.
Però a quelle donne una domanda io l´avrei fatta: quando vi mettete il burqa o il niqab o il chador come fosse un´acconciatura che vi aggrada più di altre, o che vi serve per distinguervi dalle altre, che saremmo noi, le donne occidentali che fanno a meno di una protezione così invasiva del pudore, alle donne muslim come voi, che vivono in Pakistan, in Iran, non ci pensate?

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