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Il Foglio Rassegna Stampa
20.10.2006 L'America perse la guerra del Vietnam sul fronte interno
la stessa cosa, effettivamente, potrebbe accadere in Iraq

Testata: Il Foglio
Data: 20 ottobre 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Bush riconosce che l’Iraq è un po’ come il Vietnam.Vero»
Dal FOGLIO del 20 ottobre 2006:

Roma. Quando il presidente americano, George W. Bush, mercoledì sera in televisione, ha accettato un paragone tra la violenza dei combattimenti in corso in Iraq e la guerra del Vietnam, su alcuni media americani e internazionali è cominciata la salivazione da riflesso condizionato. Anche Bush lo ammette, infine: il "quagmire" iracheno è il film che abbiamo tutti già visto, è la disfatta torrida dell’esercito mandato dal Pentagono allora tra le risaie del Mekong oggi tra le viuzze delle cittadelle sunnite di al Ambar. E’andata così in tv? No, è andata diversamente. L’intervistatore dell’Abc, George Stephanopoulos, ha citato un editoriale del New York Times scritto da Thomas Friedman: "Quello a cui stiamo assistendo sembra essere l’equivalente jihadista dell’offensiva del Tet in Vietnam". E ha citato anche la risposta del press secretary della Casa Bianca, Tony Snow, che ha detto che potrebbe essere un paragone valido. Bush ha acconsentito: "Potrebbe avere ragione. Certamente c’è un incremento nel livello della violenza, e stiamo andando verso elezioni". L’editoriale di Friedman cita il Vietnam e l’offensiva del Tet per avvertire: i jihadisti sanno perfettamente che con attacchi coordinati e dimostrazioni di potenza al momento giusto possono influenzare l’elettorato e quindi la politica americana. E in effetti era difficile pensare a un paragone che calzasse meglio dell’offensiva del Tet. Nel 1968 la guerriglia vietcong insieme con le divisioni dell’esercito popolare del Vietnam del nord lanciò di colpo un’offensiva su larga scala per cogliere gli americani impreparati. L’operazione prese il via nella notte tra il 30 e il 31 gennaio, durante le tradizionali celebrazioni per l’inizio del nuovo anno lunare. Sul piano militare, per i guerriglieri fu una disfatta. Non uno dei loro obiettivi fu raggiunto. La popolazione del Vietnam del sud non li accolse con alcuna ansia insurrezionale, come invece loro si aspettavano, e non si unì a loro. Il mito della rivoluzione popolare si infranse. I vietcong esasperati, nelle zone che riuscirono a occupare per breve tempo prima di essere ricacciati indietro, si macchiarono di esecuzioni di massa contro la popolazione civile: i morti furono migliaia. Molte delle loro unità più forti furono distrutte completamente in battaglia dalle forze americane assieme all’esercito sudvietnamita. Gli agitatori vietcong, che si nascondevano tra la popolazione e che al momento dell’attacco erano balzati fuori e avevano scoperto la loro identità, furono tutti uccisi o catturati. E i soldati del Vietnam del sud riportarono rapidamente tutto il paese sotto l’autorità del governo di Saigon. Dopo l’offensiva del Tet, i vietcong erano così malconci che non sarebbero mai più riusciti a rimettersi abbastanza in forze per vincere da soli. E infatti dovettero aspettare sette anni per arrivare a Saigon, degradati a semplici passeggeri dell’esercito regolare del Vietnam del nord, che li accompagnò alla vittoria nel 1975 senza operazioni di guerriglia ma con un’invasione militare in piena regola. L’offensiva del Tet – più che una storia d’armi piuttosto scontata, un esercito regolare meglio organizzato e meglio attestato spazza via il nemico irregolare – è però una storia esemplare di stampa incattivita e di consenso perduto. I vietcong riuscirono a trionfare subito sull’unico campo di battaglia dove gli Stati Uniti perdono con mansuetudine: quello interno, dei circoli elitari e liberal dei media e della politica. Sebbene i sondaggi mostrassero all’epoca che l’appoggio degli americani alla guerra era aumentato, come sempre succede quando l’esercito è percepito in pericolo e sotto attacco, i giornalisti scrissero che l’illusione di poter battere i comunisti in breve tempo era tramontata e che con l’attacco all’ambasciata americana di Saigon, non riuscito, i vietcong "erano penetrati nel cuore del potere americano in Vietnam". Quando il New York Times, il 10 marzo 1968, fece trapelare la notizia che il generale Westmoreland chiedeva 200 mila uomini di rinforzo, la situazione precipitò. Lui li voleva per approfittare del buon momento, inseguire i nemici in rotta e chiudere la partita. I giornali cominciarono a battere il tamburo dei "rinforzi per evitare la disfatta". Venti giorni dopo, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, il presidente Lyndon Johnson annunciava che non avrebbe corso per il secondo mandato.

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