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Il Foglio Rassegna Stampa
19.10.2006 I danni del "politicamente corretto" superano di gran lunga i vantaggi
Giorgio Israel risponde a Bernard Henry Lévy

Testata: Il Foglio
Data: 19 ottobre 2006
Pagina: 4
Autore: Giorgio Israel
Titolo: «Il politicamente corretto non è solo igiene del linguaggio. Israel vs Levy»

Dal FOGLIO del 19/10/2006, un articolo di Giorgio Israel che critica la rivalutazione del "politicamente corretto" proposta da Bernard Henry Lévy.
Ecco il testo:

Bernard-Henry Lévy si è prodotto in una discutibile rivalutazione del “politicamente corretto”. Riconoscere al “politicamente corretto” il merito di aver combattuto il linguaggio offensivo e razzista è troppo ovvio per non essere banale: il “politicamente corretto” è molto molto di più, ed è questo di più che ha prodotto gli effetti che sono oggi alla radice della disgregazione dell’occidente. Dice un personaggio di “Vita e destino” di Vassilij Grossman: “Non credo al bene, credo alla bontà”. Aggiungerei: non bisogna credere neppure al buonismo. Il “politicamente corretto” trasforma l’invito a operare bene nella concretezza, in un manifesto ideologico e astratto del bene e della bontà che vuol rifondare dalle radici il comportamento e il linguaggio degli uomini. E’ un programma di igiene radicale e assoluta che non si ferma di fronte a nulla: magari demonizzando, senza tema del ridicolo, termini come “history” perché nasconderebbe “his-story”, la storia di “lui” e non anche di “lei”. Il “politicamente corretto” non ha soltanto predicato di non dire più “sporco negro”, ma anche di non dire “cieco”. E’ un’ipocrisia colossale che rende impresentabili parole innocue e così svela il vero movente: la vergogna per tutto ciò che non è sano, prestante e bello. E’ la vergogna della malattia, delle infermità e della morte, autentica piaga della nostra società. Ma c’è di peggio. Questo peggio accade quando si imbocca la via delle ricostruzioni globali, delle rivoluzioni, non accettando l’uomo per quel che è, e il paziente compito di correggerlo; e ci si propone invece di azzerare totalmente comportamenti e linguaggi. Quando si imbocca il sentiero della palingenesi rivoluzionaria si incontra un noto figuro: l’odio di sé, che spinge a censurare e riscrivere interi brani di letteratura, gettare alle ortiche la quasi totalità della letteratura occidentale, vista tutta come razzista, maschilista, nemica dell’“altro”. Ci vorrebbe molto spazio per descrivere come questa ideologia sia nata in Europa, trovando alimento nelle teorie decostruzioniste dei Foucault e dei Derrida, e abbia colonizzato il mondo accademico e culturale anglosassone. Nel suo ultimo libro “Umanesimo e democrazia”, Edward Said ha descritto in modo illuminante come sia avvenuto il processo (di cui egli è stato un protagonista) di distruzione della cultura umanistica un tempo dominante nelle grandi università americane e che era centrata attorno ai grandi classici greci, latini ed europei, da Omero a Eschilo, da Platone alla Bibbia, da Virgilio a Dante da Shakespeare a Cervantes e Dostoevskij. Oggi tutti marginalizzati o epurati da un nuovo “umanesimo” politicamente corretto e terzomondista che rigetta il razzismo “orientalista” di cui sarebbe intrisa quella cultura. La Columbia University rifondata da Said è l’emblema di questo “politicamente corretto” fondato sull’odio di sé dell’occidente, che è ferocemente intransigente contro ogni sua minima “colpa” e massimamente tollerante nei confronti delle trasgressioni degli “altri”, degli “esclusi”, che sono per definizione “buoni”. Qui è la chiave dell’attuale processo di disgregazione morale dell’occidente. Si decreta per legge che è perseguibile chi nega il genocidio degli armeni e si mette in galera Irving, mentre uomini politici e università dell’occidente accolgono calorosamente quell’Ahmadinejad che proclama che la Shoah non è mai avvenuta e che si dà come programma la realizzazione del secondo terzo dello sterminio dell’ebraismo mondiale. Si critica il discorso del Papa a Ratisbona, in quanto scorretto nei confronti dell’islam e ci si scaglia contro le vignette danesi su Maometto, ma all’“altro” è consentita ogni derisione dei simboli del cristianesimo (“il crocefisso come disgustoso cadaverino appeso”). Si possono diffondere edizioni del Corano con commenti che definiscono gli ebrei come scimmie e maiali (con compiacenti introduzioni di noti intellettuali), ma si rischia la cacciata da certe università se non si chiamano gli indiani “native americans” (espressione di ridicola ignoranza). Lévy dice che a lui basterebbe una Costituzione europea con un solo articolo: “Mai più Auschwitz”. Gliela potrebbero concedere in nome della prassi per cui nel Giorno della Memoria questa formula viene recitata religiosamente come alibi per condannare gli ebrei vivi in quanto nuovi nazisti. A fronte dei disastri del politicamente corretto, vantarne i meriti per l’igiene del linguaggio, è come vantare l’efficacia della bomba ai neutroni per curare l’influenza.

Di seguito, riportiamo l'articolo di Stefano Montefiori (pubblicato dal CORRIERE della SERA il 17 ottobre che riporta le dichiarazioni di Bernard Henry Lévy  alle quali fa riferimento la critica di Giorgio Israel

«Nell'epoca in cui è di moda ridicolizzare il politicamente corretto, io lo difendo. La lingua è la memoria dell'infelicità degli uomini, le parole sono come le cicatrici dell'umiliazione, portano con sé il ricordo della schiavitù, dell'obbrobrio, dell'oppressione. Bisogna esercitare un controllo su questa memoria nera della lingua». Bernard-Henri Lévy a sorpresa: scrive articoli a favore della libertà di espressione e del politicamente scorretto professor Redeker (minacciato per aver criticato la violenza dell'Islam), e poi va contro il tic culturale del momento, che prevede l'obbligo di farsi beffe del linguaggio antidiscriminatorio. Alla vigilia della conferenza «Politically Un-correct» organizzata oggi a Milano da Pubblicità Progresso, il filosofo francese anticipa il senso della sua relazione controcorrente.
«Soprattutto in America, si è cercato di far riflettere l'opinione pubblica sul peso d'infelicità contenuto in certe parole. Il movimento del politicamente corretto (abbreviato in Pc) ha fatto parte della battaglia per i diritti civili e della grande rivoluzione americana degli anni Sessanta, fino a culminare nelle prese di posizione degli anni Settanta e Ottanta. Ci sono stati naturalmente degli eccessi, degli aspetti ridicoli — riconosce Lévy — ormai famosi : femministe studiose di storia hanno preteso di aggiungere una her-story accanto a
his-tory, i sette nani di Biancaneve sono spariti, si è provato a riscrivere la Bibbia per passare da un Dio padre a un'entità madre-padre, in omaggio alla parità dei sessi». Sono questi i passi falsi che hanno fatto scatenare i detrattori. Michel Houellebecq anni fa è sbottato protestando che «non si può più dire nulla: oggi Nietzsche, Schopenhauer o Spinoza non sarebbero ammessi, il politicamente corretto rende inaccettabile la quasi totalità della filosofia occidentale». E il critico d'arte australiano Robert Hughes, con il famoso La cultura del piagnisteo (Adelphi, 1994), ha scritto il pamphlet definitivo contro il Pc chiedendo: «L'invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ai tempi dell'amministrazione Carter ha deciso che lui è ufficialmente un "ipocinetico"?».
«Troppo facile — ribatte Lévy —, gli aspetti più buffi sono solo la schiuma del fenomeno. Il nocciolo della questione è che negli Stati Uniti oggi è molto più difficile pronunciare certi insulti. Il razzismo e l'antisemitismo, il maschilismo e le volgarità contro le donne nel linguaggio comune sono diminuiti, e questo è un bene. Lo ritengo un progresso della civiltà». Resta il problema della tentazione di proibire il pensiero, della difficoltà di esprimere opinioni che non siano comunemente accettabili, e della pericolosa tendenza, in particolare in Francia, a disciplinare la storiografia per via giuridica. L'ultima novità, in ordine di tempo, è la legge dell'Assemblea nazionale che prescrive il carcere a chi nega il genocidio degli armeni. A questo proposito due giorni fa, sul Corriere, Angelo Panebianco ha scritto che «allo zelo censorio nei confronti delle opinioni politicamente scorrette si accompagna il silenzio sulle vere aggressioni che sono oggi in atto contro la libertà». «Sono d'accordo — dice Lévy —, il punto è che il tema del politicamente corretto si articola su tre livelli.
Educare le persone al fatto che la lingua non è un veicolo neutro ma è carica di senso, di violenza: questo è sacrosanto. Dopo c'è un secondo livello, quello che fa cadere certe frasi sotto la scure della legge: qui Panebianco ha ragione, il legislatore non deve immischiarsi. Salvo nei casi di espliciti incitamenti all'omicidio o all'odio». E il terzo livello? «A chi dice cose politicamente scorrette può capitare di essere minacciato di morte, e questo mi indigna. Qui rispunta l'affare Redeker, il professore che ha osato criticare aspramente l'Islam, e che io ho difeso anche sul Corriere.
Ma, come vedete, i temi si intrecciano ed occorre essere molto attenti, non ci si può accontentare di irridere il politicamente corretto tout court.
Bisogna spiegare ai bambini che le barzellette razziste, per esempio in Francia quelle sui belgi, non sono frasi anodine, vanno evitate. Questo è un altro discorso rispetto al punire le frasi politicamente scorrette con la legge, o peggio ancora minacciando di morte chi le pronuncia, come hanno fatto gli estremisti islamici con Redeker».
L'attenzione per il linguaggio tutela le minoranze ma non rischia di rafforzarne l'arroganza? «Io sostengo la necessità di un atteggiamento più sottile, che sfugga all'opposizione tra chi sostiene la repressione giuridica e chi considera la parola sempre "innocente". La parola non è affatto innocente. Porre ad analisi critica alcuni aspetti dell'Islam, perché no? Lo si fa anche con la Bibbia o il Vangelo. Insultare i musulmani nella vita quotidiana è un'altra cosa, è inaccettabile. Detto questo, se qualcuno sostiene che nel Corano ci sono passaggi che disprezzano la donna, è la verità. E affermare che il Corano è intrinsecamente ostile alle donne (io non lo penso) non è né giusto né sbagliato, è materia di una discussione legittima».
Il Pc è ormai molto connotato, è diventato uno strumento nelle mani della destra per accusare la sinistra di essere ipocrita e fumosa, di badare alla forma perdendo di vista la sostanza. «Per me il politicamente corretto è l'altro nome della cortesia, del rispetto dell'altro, dell'ospitalità fatta all'altro nella mia lingua. E questi valori di cortesia, rispetto e ospitalità non sono né di destra né di sinistra».

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