Con una colta rievocazione di Hannah Arendt e di una sua polemica con Gershom Scholem, Barbara Spinelli, sulla STAMPA di giovedì 19 ottobre 2006 mira evidentemente a criticare Israele, in quanto incapace di mettersi in causa e di criticarsi, e chi lo sostiene sulla base di pericolosi e sentimenti di "amore" che ne offuscano il giudizio e la ragione.
In realtà, ci sembra, non è necessario l'"amore" per riconoscere che Israele è aggredito e che ha il diritto di difendersi, che ha tentato la via della pace e si è trovato di fronte al muro dell'odio e alla violenza terrorista: bastano una preci sa conoscenza dei fatti e un po' di senso della giustizia, facoltà che richiederà pure il vibrare di una qualche passione, ma che resta eminentemente razionale.
Nessun sentimentalismo è necessario per decidere di schierarsi con Israele contro i progetti genocidi di Hamas, di Hezbollah, dell'Iran.
Piuttosto, necessari sono il rifiuto delle illusioni (sulla "disponibilità al dialogo" di chi lancia proclami di distruzione e demonizza il nemico, sul "pragmatismo" di chi è guidato da visioni religiose apocalittiche, ecc.) e la capacità di opporsi al male, dopo averlo riconosciuto .
Ecco il testo, con alcuni altri nostri commenti:
Il rapporto che Hannah Arendt ebbe con l’ebraismo non è uno dei tanti capitoli della sua vita, e delle sue opere. Con l’andare del tempo si intrecciò con le fondamenta del suo pensiero attorno al potere, alla politica, al pensare razionale. Tra Arendt e l’ebraismo politico fu conflitto, sempre, perché lo spazio che a suo parere doveva esser preso dalla ragione le sembrava spesso sommerso dal sentimentalismo, dalla forza profondamente impolitica che emana dal cuore. Una forza che la scrittrice riteneva sommamente perniciosa, per gli ebrei in diaspora e per Israele.
Introdurre la ragione nel rapporto tra popoli significava per lei estromettere dalla politica gli affetti indefiniti che portano il nome di amore, compassione, pietà. Soprattutto il paria, l’emarginato che per secoli è stato impersonato dall’ebreo, ha bisogno di questo spazio dove i sentimenti non entrano. A questi temi Arendt ha dedicato varie opere, ma l’ebraismo è come se li contenesse tutti. L’ebraismo è stato per lei il criterio, il canone che permette di distinguere, di giudicare, di fare storia anziché subirla.
Cosa cercava Arendt, pensando l’ebraismo e la sua principale espressione politica che è stato il sionismo? Cercava di capire in cosa consista la convivenza tra gli uomini, e nel caso d’Israele quale fosse la via razionale da percorrere, per evitare che la catastrofe si abbattesse ancora una volta sugli ebrei, circondati in Palestina da genti ostili. La razionalità è per lei una via concreta, non astratta: consiste nel negoziare fra punti di vista diversi, senza dogmi; nel vedere le persone che si hanno davanti e non nell’immaginare al loro posto un grumo d’inestinguibile ostilità. In Palestina significava vedere gli arabi che abitavano quelle terre, e non come sostenevano i sionisti attratti dalla sovranità nazionale assoluta nel constatare l’esistenza di «una terra senza popoli per un popolo senza terra».
La Spinelli cita una frase pronunciata una volta, e subito ripudiata, da un sionista, Israel Zangwill.
La dirigenza sionista ha sempre ricercato il compromesso con gli arabi, non ottenendolo perché erano questi ultimi a rifiutarlo, attratti dalla "sovranita assoluta" (nazionale e religiosa, islamica)
Ragionare in politica è persuadere e argomentare in vista d’un compromesso. E al tempo stesso è l’attitudine che ciascuno dovrebbe possedere a entrare in conflitto con se stesso. C’è un passaggio, nelle Confessioni di Sant’Agostino, che la scrittrice citò spesso: «Mihi quaestio factus sum, et ipse est languor meus» «Sono diventato a me stesso una questione, e qui è il mio male». Questo male è ciò che salva, aprendo spazi alla ragione. A suo parere Israele si sarebbe salvato solo se diveniva, a se stesso, una questione. Se non si lasciava inondare da sentimenti che in politica devono essere irrilevanti.
I sentimenti forti, intimi, hanno una straordinaria grandezza nella vita dell’individuo, ma quando vengono trasferiti nella politica possono sfociare in morte. È un trasferimento che avviene spesso, nel rapporto che gli ebrei hanno con sé e col mondo: odio e amore diventano le due sole vie, e la tirannide dell’intimità s’installa. Arendt chiarì la sua posizione in un carteggio con Gershom Scholem, il grande studioso del misticismo ebraico, quando uscì il libro sul processo Eichmann nel ‘63 (La Banalità del male Eichmann a Gerusalemme). Scholem l’accusò di durezza, di non-amore: «Mi offende quel tono di insensibilità \ così le scrive il 23 giugno ‘63 Nella tradizione ebraica c’è un concetto, difficile da definire e tuttavia abbastanza concreto, che conosciamo come Ahabath Israel: “l’amore per il popolo ebraico”. In te, cara Hannah, come in tanti intellettuali che provengono dalla sinistra tedesca, non ne trovo traccia».
Proprio qui per la Arendt va cercato il criterio per pensare più nitidamente la realtà. L¹amore è una passione individuale, che non conosce confini e può esser assoluto. In nessun modo esso deve guidare i giudizi sui popoli. «Hai perfettamente ragione risponde dunque a Scholem non sono animata da nessun “amore” di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività \ Io amo “solo” i miei amici e la sola specie di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone.
Si potrebbe osservare che questa delegittimazione di ogni amore per una collettività si basa su di una riduzione estrema e assai poco giustificabile del significato del termine "amore".
Accanto all'amore "per gli amici" esistono nell'esperienza umana molti altri amori. L'amore per per la buona tavola, per esempio, l'amore per la conoscenza e la cultura, o l'amore per l'arte, per la natura, per le tradizioni,
Perché non dovrebbe esistere anche l'amore per una collettività umana?
Sono forse illegittimi il desiderio di preservare o custodire una tradizione e un'identità collettiva (propria o altrui) e la partecipazione solidale alle aspirazioni e al destino di un gruppo?
Non è naturale chiamare "amore" queste e altre analoghe attitudini umane?
Ed esse violano forse qualche legge della logica o dell'etica?
In secondo luogo, questo “amore per gli ebrei” mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale delle mia persona».
Stupisce che tra quanti citano questa affermazione della Arendt nessuno sembri coglierne il carattere tutt'altro che pacifico, e anzi piuttosto straordinario.
Per quale motivo sarebbe impossibile "amare se stessi" o "una parte essenziale di se stessi"?
A differenza di Gesù di Nazaret, che faceva dell'amore verso se stessi il termine di paragone oggettivo dell'amore verso gli altri, e dunque ne riconosceva la legittimità e la necessità, la Arendt propone in queste righe una morale autopersecutoria; una morale, per usare un termine che la Spinelli liquida come manipolazione ideologica, dell'"odio di sè".
Il sentimentalismo in politica è tema ricorrente nelle sue opere. Nello stesso anno in cui scrive su Eichmann, è uscito un saggio, Sulla Rivoluzione, che denuncia lo spazio abnorme, deleterio, che a partire dalla Rivoluzione francese l’intimità ha preso in politica. L¹amore, la pietà, lo zelo compassionevole sono passioni esaltate da Rousseau e poi dal Terrore di Robespierre. La bontà assoluta cui la rivoluzione anela mette il cuore al centro, con i suoi insolubili dilemmi, e per forza non riesce a creare istituzioni pacifiche. Non solo, la tirannide dell’amore genera sterminato sospetto: il sospetto che l’altro non ami sino in fondo, che sia un ipocrita. Nell’ebraismo politico moderno si ha uno sviluppo simile: chi critica è sospettato di non-amore, e se è ebreo di «odio di sé». L’amore, come la compassione o la felicità, diventa virtù pubblica. Sospettata da Scholem di non avere Herzenstakt, tatto del cuore, Arendt replica:
«Generalmente parlando, il ruolo del “cuore” in politica mi sembra assolutamente discutibile».
La commistione fra sentimenti intimi e sfera pubblica abolisce le distanze che devono esistere fra uomini perché ci sia varietà, e perché essa sia garantita da istituzioni durevoli. «Amare» il popolo ebraico come collettivo è un postulato della religione, dell’intimità. Trasportato nella politica impedisce quel mettersi in questione di cui parla Agostino: una messa in causa che non esiste solo nel cristianesimo. L’altra stella polare scelta da Arendt è il Selbstdenken di Lessing, illuminista ebreo tedesco: il pensare da sé, pensare da soli.
Colorare di passioni i collettivi porta a introdurre la religiosità nella convivenza sociale, e anche su questo punto l¹ebraismo deve, secondo Arendt, fare chiarezza. Ci sono ebrei, scrive a Scholem, che dicono di non credere in Dio ma di credere nel proprio popolo. È una cosa che la lascia stupefatta: nulla di buono può venir fuori da questo credere in sé che prende il posto dell’amore di Dio. Possono venirne fuori nazionalismo, razzismo. L’ebreo è ebreo anche quando non ama il popolo ebraico: «Io non amo gli ebrei, né credo in loro: sono semplicemente una di loro».
Il rapporto degli ebrei col male discende da queste passioni. La sofferenza subìta si trasforma in perenne giustificazione,
Perché si possa dire che "la sofferenza si trasforma in eterna giustificazione" dovrebbero esserci dei crimini (collettivi?) da giustificare. La realtà è invece che Israele, pur non essendo uno Stato perfetto, è odiato e attaccato per il fatto stesso che esiste e molto spesso più per i suoi pregi (la libertà, la democrazia) che per i suoi difetti.
Non c'è alcun bisogno di evocare sofferenze passate per "giustificare" la sua lotta per l'esistenza.
l’antisemitismo è visto come eterno.
Il problema non è se l'antisemitismo sia o meno eterno, ma riconoscere che oggi l'antisemitismo esiste ancora, che assume prevalentemente la forma dell'antisionismo, che salda pericolosamente fondamentalismo islamico, estrema sinistra ed estrema destra nel comune odio per Israele.
Forse è per questo che Arendt cambia la sua idea del male, negli anni in cui scrive su Eichmann: contrariamente a quel che lei stessa aveva scritto nelle Origini del Totalitarismo, «il male non è mai radicale, ma soltanto estremo». Esso può «invadere e devastare il mondo intero» espandendosi sulla sua superficie come un fungo, ma in realtà «non possiede né profondità né una dimensione demoniaca». Esso «sfida» il pensiero, «perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può esser radicale». Questo apprese Hannah Arendt, divenendo a se stessa una questione. Studiando Eichmann, aveva scoperto un male ancora più micidiale, perché ordinario. Il male che ciascuno di noi può fare agli altri e a se stesso per sbadataggine, ottusità e anche sentimentalismo.
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