Dal sito della Fondazione Magna Carta:
Le notizie provenienti dal Libano mettono in cattiva luce l’operato dell’UNIFIL. La Risoluzione 1701 che ne aggiorna il mandato prescrive a chiare lettere la creazione di una fascia di sicurezza tra la Blue Line e il fiume Litani “free of any armed personnel, assets and weapons other than those of the Government of Lebanon and of UNIFIL”. Perché, allora, l’UNIFIL ha assistito inerte al reinsediamento di Hezbollah nelle postazioni da dove, nel conflitto di luglio-agosto, venivano lanciati i missili contro Israele?
La risposta l’ha data il generale francese Pellegrini, capo della missione ONU, in un’intervista al Jerusalem Post del 22 settembre: «We first will observe and then inform the Lebanese army […]. If we see something dangerous we will inform the Lebanese army and it will decide whether it will act independently or consider having a joint reaction together with us». Significa che il compito della forza multinazionale consiste non nel prevenire possibili azioni ostili di Hezbollah, quanto nello stare a guardare ciò che accade e segnalarlo all’esercito libanese, il quale a sua volta rimetterà ogni decisione al vertice politico. L’esegesi della Risoluzione 1701 formulata da Pellegrini appare, tuttavia, più diplomatica che letterale. A conti fatti, il Partito di Dio ha rioccupato i suoi avamposti territoriali alla faccia dell’UNIFIL e con l’accondiscendenza dei militari e del governo del Libano, ma il verificarsi di tale scempio è imputabile al profilo basso (nel senso di meschino) assunto dai responsabili politici dei contingenti sin qui schierati, tra cui l’italiano è il più numeroso, e non al mancato potenziamento delle regole d’ingaggio, che invece c’è stato, finalmente, sebbene viste le circostanze solo sulla carta. Tante chiacchiere e belle parole, come d’abitudine, senza sporcarsi le mani per non urtare la sensibilità della piazza. È questo il multilateralismo? Come dovrà comportarsi Israele, secondo la Farnesina, nel caso di future e prevedibili incursioni delle milizie sciite oltre la Blue Line e l’UNIFIL non dovesse intervenire? Sarà onesto biasimare nuovamente Tsahal per una reazione «sproporzionata»? Quando arriveranno i cinesi, gli indonesiani e i bengalesi con i tappeti rossi per Hezbollah?
Al momento le unità sul campo sono poco più di un terzo delle 15 mila previste dal Consiglio di Sicurezza, mentre quelle libanesi, di cui si richiede un uguale ammontare, sono anche meno. Il grave ritardo nel dispiegamento dei soldati pregiudica il controllo dell’entroterra e Hezbollah ne approfitta per proseguire liberamente nei soliti traffici. Un rapporto dell’intelligence militare israeliano ha dimostrato con prove inconfutabili la cadenza quotidiana delle consegne di armi ai guerriglieri, che dal nord della Siria giungono a destinazione nel sudovest del Libano. Assad, il presidente siriano, spalleggiato da Russia e Cina, si è opposto allo schieramento delle truppe ONU lungo la frontiera e per i soli libanesi è impresa ardua presidiare i 375 km di confine. Eppure, Pellegrini nega l’esistenza del problema («This border is airtight and hermetically closed by the Lebanese army») e intanto l’UNIFIL, sul Corriere della Sera dell’11 ottobre, prende ordini da Nabil Kaouk, uno dei leader più vicini a Nasrallah («Se l’Unifil nei suoi pattugliamenti sul territorio dovesse vedere convogli di armi potrebbe allora segnalare all’esercito libanese di requisirle. Ma, ne sono certo, nessuno vedrà mai le nostre armi. Queste al momento sono le regole sul campo»)e ne subisce le intimidazioni («Guai se i contingenti internazionali in Libano dovessero venire usati per isolare o condizionare l’Hezbollah»). La premiata ditta Damasco-Teheran, insomma, non incontra ostacoli e riuscirà a rimpinguare il già nutrito arsenale dei guerriglieri prima che l’UNIFIL e l’esercito di Beirut avranno conseguito la piena operatività.
Sul punto più caldo, il disarmo di Hezbollah, Pellegrini ha precisato che rientra nei compiti dei libanesi; i caschi blu offriranno semplicemente assistenza, fedeli alla linea di rimanere alla larga dai miliziani in “un quieto modus vivendi” (Toni Capuozzo, Il Foglio, 6 ottobre). Il capo dell’UNIFIL, in sostanza, ha rassicurato gli uomini di Nasrallah che non verrà torto loro neppure un capello. L’esercito regolare non ha la forza di disarmarli e nemmeno la volontà: il Partito di Dio riscuote forti simpatie all’interno della sua componente maggioritaria sciita e molti generali sono anti-israeliani e fedeli al presidente Lahud, filosiriano. Come se non bastasse, la tenuta istituzionale e sociale del Libano è estremamente fragile e a perenne rischio di disgregazione. Il premier Siniora guida un esecutivo privo di autorevolezza, che nonostante il ritiro militare di Damasco soffre tuttora delle ingerenze siriane e non è in grado di sfidare Hezbollah in un gioco a somma zero qual è il disarmo. Si vocifera, infatti, di un accordo informale tra il governo ed emissari di Nasrallah che permette alla guerriglia, in violazione della Risoluzione 1701, di conservare le armi purché non le mostri in pubblico e le tenga nascoste nei depositi sotterranei a ridosso d’Israele, nella Valle della Bekaa, nei sobborghi delle città e nei campi profughi palestinesi, luoghi proibiti per l’esercito libanese e per l’UNIFIL, dove accade l’inimmaginabile. «Le vostre armi sono anche nelle zone controllate dall’Unifil a sud del fiume Litani?», Nabil Kaouk conferma: «Senza dubbio. Ma sono nascoste bene, nessuno può vederle. E non sta all’Unifil venirle a cercare o spiare i nostri movimenti».
Sulla questione del disarmo è l’intera comunità internazionale a muoversi con grande cautela. Hezbollah non accetterà mai di deporre le armi: sarebbe la fine di quel colossale imbroglio che è la resistenza antisraeliana e l’organizzazione perderebbe la ragione di esistere. Messa sotto pressione potrebbe radicalizzare le sue posizioni verso gli «imbelli» - stando alla dicitura di Nasrallah - che governano il Libano, col rischio di mettere in moto un processo destabilizzante anticamera del ritorno alla guerra civile. Ma è proprio in tal senso che si dirige la proposta, avanzata da Siniora, d’integrare i miliziani nell’esercito allo scopo di contenerli cooptandoli: non tutti i militari accetterebbero l’istituzionalizzazione della resistenza e un eventuale sfaldamento delle forze armate su base confessionale ricondurrebbe il Libano alla conflittualità interreligiosa dei tempi passati, un supplizio ingiusto per un paese martoriato dalle vicende storiche, che all’epoca della preminenza cristiana era indubbiamente il più moderno e avanzato del mondo arabo.
Israele, nel 2000, ritirandosi dalla zona occupata, aveva creato le condizioni affinché Beirut potesse estendere al sud la sua sovranità territoriale: la stessa logica alla base della Risoluzione 1701. Purtroppo, a colmare il vuoto lasciato da Gerusalemme non è stato l’esercito regolare bensì Hezbollah, che ha dato inizio allo stillicidio di provocazioni durato sei anni che Tsahal, invano, ha cercato di stroncare con le operazioni militari di luglio-agosto. Beirut, sprecando un’occasione forse irripetibile, non è stata allora capace di garantire la sicurezza d’Israele e lo è tanto meno adesso. Le responsabilità di cui la Risoluzione 1701 investe il governo Siniora rientrano nell’ordine degli auspici e delle buone intenzioni. Non va dimenticato che già la Risoluzione 1559 del settembre 2004 stabiliva il disarmo del movimento sciita e lo schieramento dell’esercito nel sud del Libano. Siniora non ha alcuna influenza su Hezbollah, che oltretutto vanta tre ministri nell’esecutivo e trentacinque parlamentari, e anzi deve temerne l’ascesa sull’onda della crescente popolarità. La combinazione di forza politica e militare, moltiplicata per l’alleanza organica con Iran e Siria, autorizza la sua leadership a puntare ai massimi traguardi, magari riuscendo a imporre un governo di unità nazionale e una modifica della costituzione che consenta agli sciiti di esprimere il capo del governo, per poi andare alle elezioni e vincerle nelle vesti di partito patriottico antisraeliano. A tal fine, la propaganda incentrata sulla resistenza armata nei confronti del Piccolo Satana è un argomento ideologico irrinunciabile, seppure totalmente infondato. La rivendicazione delle fattorie di Shebaa è un mero pretesto: è innegabile che Israele le occupi, ma a detta persino dell’ONU sono territorio siriano e non libanese in quanto parte delle Alture del Golan.
La verità è che Hezbollah non è un movimento di paladini della libertà che combatte per l’autodeterminazione del proprio popolo contro uno stato oppressore, come tanto piace alla vulgata antimperialista e terzomondista italiana ed europea (la medesima, ignorante e sciocca fascinazione che induce a tifare per Hamas e a scambiare per eroe un essere immondo qual è stato Arafat). Hezbollah non ha neanche origini libanesi, è in tutto e per tutto una creatura dell’Iran trapiantata nella terra dei cedri con la funzione di combattere Israele al servizio delle ambizioni geopolitiche degli ayatollah. Grazie alle scelte inopinate di Beirut e all’abilità di Nasrallah, che Teheran continua a sponsorizzare senza risparmio, negli anni l’organizzazione si è radicata tra gli sciiti, specie al sud, dandosi un connotato politico-sociale, e ha avuto gioco facile nello scagliarne la frustrazione e il risentimento esistenziale verso il Piccolo Satana. Nasrallah ora mira più in alto, a rendere lo spirito jihadista antiebraico consustanziale all’identità libanese, così da trascendere le divisioni etniche e religiose, compattare ideologicamente il paese e volgerlo in blocco all’attacco d’Israele, seguendo le linee espansionistiche che dipartono da Teheran, attraversano Damasco, approdano a Beirut e vorrebbero spingersi fino a Gerusalemme. Se il bene del Libano e dei libanesi è vivere al fianco d’Israele in spirito di cooperazione e amicizia, Hezbollah opera per il loro male, perché vuole un Libano jihadista pedina dell’Iran, votato fisiologicamente alla distruzione dello stato ebraico; come non operano certamente per il bene l’Unione Europea, che non ha il coraggio d’iscrivere il Partito di Dio nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, e l’Italia del presente governo, «il nostro partner europeo più prossimo» (Nabil Kaouk).
Attualmente, l’unica via alternativa alla guerra davvero praticabile è il mantenimento di un costante stato di tensione caratterizzato da minacce, incidenti, atti di forza dimostrativi, che non sfoci in autentica belligeranza. Si tratta, in pratica, di ristabilire lo status quo ante bellum, finché dura. L’UNIFIL contribuirà a dilatare tale spazio di tempo, ma a beneficio di Hezbollah e a danno d’Israele. La sua presenza a ranghi completi non sarà d’ostacolo alla guerriglia islamista, che una volta riorganizzata riprenderà impunemente la campagna antisionista con la regia di Teheran, mentre lo sarà per Gerusalemme sia in quanto scudo umano alle attività dei miliziani, che ulteriore elemento di pressione politica teso a soffocare la sua sacrosanta libertà di difendersi. Pellegrini ha già dato prova di atteggiamento ostile, criticando aspramente le violazioni dello spazio aereo libanese ad opera di velivoli dell’intelligence israeliano («These violations are not justifiable with the deployment of the Lebanese army and the enhancement of UNIFIL. This is not justified any longer») e non proferendo parola sul Partito di Dio che proprio sotto il suo naso si riarma e si riappropria delle postazioni militari. Se il buon giorno si vede dal mattino, la nuova UNIFIL per spirito è identica alla vecchia. A Israele non resta che conservare l’autocontrollo e insistere perché i soldati libanesi e i contingenti multinazionali diano attuazione alle previsioni della Risoluzione 1701, altrimenti la mossa successiva potrebbe essere l’intervento diretto, con gravi complicazioni politiche e militari: come insegna l’esperienza dell’estate scorsa, l’attacco metterebbe in serio pericolo l’incolumità dei caschi blu, italiani inclusi, e i governi che partecipano alla missione potrebbero anche decidere di ritirarli di fronte a una massiccia iniziativa israeliana, sancendo il fallimento dell’UNIFIL e svelando così l’inconsistenza del loro impegno in Libano. Gerusalemme rimarrebbe isolata diplomaticamente, eccezion fatta per gli Stati Uniti, ma avrebbe l’opportunità di chiudere definitivamente il fronte settentrionale prima che l’Iran completi la fabbricazione della bomba atomica e magari la rechi in dono a Hezbollah tramite la Siria con l’UNIFIL a far da spettatore. Per Israele, inoltre, certi interlocutori è meglio perderli che averli equivicini.
Gli Stati Uniti, alla luce della drammatica situazione in Iraq, hanno accuratamente evitato di sovresporsi nella vicenda. All’inizio del conflitto hanno lasciato carta bianca a Tsahal, con la speranza che riuscisse ad affondare il colpo nei confronti di Hezbollah. Preso atto dell’insuccesso, con Gerusalemme ha optato per un congelamento della situazione giocando la carta dell’UNIFIL e lasciando sfogare l’ardore multilateralista e propagandistico di D’Alema, dal quale persino Chirac si è tenuto alla larga. Washington, tuttavia, sa che le milizie sciite se ne infischiano delle truppe ONU e che invece di disarmare si rafforzeranno. Pertanto, a salvaguardia del governo Siniora da possibili macchinazioni ispirate da Teheran e Damasco, mantiene al largo della costa libanese la Joint Task Force Lebabon, pronta a entrare in azione in caso di necessità in quello che il presidente Bush ha definito il terzo fronte della guerra al terrorismo, insieme a Iraq e Afghanistan