Lotte di potere in Iran l'ex presidente Rafsanjani contro l'ayatollah Mesbah Yazdi, mentore di Ahmadinajad
Testata: Il Foglio Data: 18 ottobre 2006 Pagina: 3 Autore: la redazione Titolo: «Lotta tra “squalo” e “coccodrillo” in Iran, mani pulite compresa»
Dal FOGLIO del 18 ottobre 2006:
Roma. I protagonisti del più atteso appuntamento elettorale iraniano dalle presidenziali sono l’ayatollah Mesbah Yazdi e l’hojatoleslam Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Si potrebbe dire che il 15 dicembre andrà in scena il secondo round tra Rafsanjani e Ahmadinejad con il principe della nomenklatura a inseguire un riscatto e il presidente la consacrazione. Ma quello in atto è anche uno scontro tra due luoghi simbolo: il seminario Haqqani di Qom, feudo di Yazdi, e il Centro di studi strategici di Teheran, cenacolo intellettuale caro a Mohammed Khatami e Hashemi Rafsanjani. E’ dall’idea di Repubblica islamica forgiata in queste istituzioni che scaturisce la guerra intestina tra i padri e i figli della rivoluzione, una lotta di classe che oppone la mullahcrazia plutocratica alla sua manovalanza, con gli ayatollah tycoon e i businessmen aghazadeh (figli di mullah, in farsi) da una parte e i puristi pasdaran dall’altra. E se si possono scomodare tante categorie è perché la posta in gioco è alta. Formato da 86 membri eletti a suffragio universale, il Consiglio degli esperti è un organo strategico e misterioso. Si riunisce a porte chiuse due volte l’anno. I suoi pronunciamenti restano perlopiù consegnati al segreto, ma il Consiglio ha una facoltà preziosa: eleggere e, se necessario, congedare il leader supremo. Un potere che non può essere lasciato nelle mani di un avversario. E non è certo un mistero che agli occhi di Yazdi, mentore e protettore di Ahmadinejad, Rafsanjani rappresenti la personificazione di una minaccia capitalista annidata nel cuore del sistema e speculare è il sospetto da parte di Rafsanjani. Ma quella tra il coccodrillo e lo squalo, come sono soprannominati Yazdi e Rafsanjani, è più che una sfida tra falchi e pragmatici. Quando il 15 dicembre gli iraniani si recheranno alle urne, il responso elettorale non determinerà solo l’esito della sfida tra due nemici, ma rappresenterà un termometro degli orientamenti dell’establishment. E se nella campagna elettorale i primi attori sono Yazdi (Ahmadinejad) e Rafsanjani, decisivo in questa contesa sarà il ruolo dei vecchi notabili. La guerra si vince al centro, conquistando i conservatori tradizionali, altrettanto scettici oggi verso il populismo di Ahmadinejad, quanto lo erano ieri dinnanzi alla “democratizzazione islamica” vaticinata dall’ex presidente Khatami. E i conservatori sono inquieti, impensieriti dalla querelle nucleare, dai venti di guerra, spaventati dall’inflazione galoppante e dallo zelo puritano del presidente. La “mani pulite” di Ahmadinejad ha già colpito “gli amici degli amici”. La magistratura ha messo il naso negli affari, il Tesoro ha fatto lo stesso, Ahmadinejad ha annunciato punizioni esemplari contro corrotti e corruttori e nell’economia è stata paralisi generale. Le prime società a finire nel mirino sono state compagnie di assicurazioni e banche. Il direttore della Parsian Bank, seconda banca iraniana legata al clan Rafsanjani, è stato liquidato su richiesta del presidente. Una circostanza che ha destato scalpore. Se c’è un principio a cui tiene un mullah tradizionalista è il concetto della proprietà privata e i goffi esercizi di potere di Ahmadinejad non fanno che alimentare il timore che queste regole decisive nel patto tra la moschea e il bazar saltino. Due mesi fa l’ayatollah Khamenei ha parlato della necessità di incoraggiare le privatizzazioni. Ancora una volta si è tornati a parlare di sviluppo e di “modello cinese”, e il paese ha gradito. Il mullah conservatore non è necessariamente un grande speculatore alla Rafsanjani, ma ama lo status quo e teme le grandi trasformazioni. Il privato, che si tratti di bazar o dell’azienda di un figlio, è il suo terreno di elezione e Ahmadinejad inizia a essere percepito come un nemico. La maggioranza parlamentare (composta di conservatori tradizionalisti e falchi) è stata sferzante nei giudizi sul governo Ahmadinejad. Ora il Parlamento in Iran conta ben poco, ma è significativo che alcuni tra gli strali più avvelenati contro il presidente siano arrivati dai conservatori. “Non c’è alcun controllo sui prezzi”, ha dichiarato il deputato Sarafraz Yazdi. “La gente ha perso ogni fiducia in Ahmadinejad. La sua politica economica è un disastro”. Critiche che hanno costretto l’ayatollah Khamenei a intervenire per chiedere ai politici di limitare i loro rilievi nell’ambito della dialettica parlamentare. Ma la stampa che agisce da cassa di risonanza nelle diatribe tra le diverse fazioni non ha mancato di registrare lo strappo. I quotidiani hanno raccontato più o meno diplomaticamente la discesa in campo, anche economica, del corpo dei sepah pasdaran che hanno diversificato e ampliato lo spettro dei loro investimenti dalle costruzioni agli accordi miliardari sull’energia. Jomhuri Eslami – giornale conservatore – è andato oltre accendendo i riflettori sul nocciolo della questione. “Quali obiettivi vogliono raggiungere coloro che attaccano i pragmatici e Rafsanjani? Dobbiamo dedurre che è in atto una strategia per estromettere dal potere il clero rivoluzionario? E se così fosse chi seguirà Rafsanjani nella lista?”. Per riconquistare potenziali elettori l’ayatollah Yazdi ha cercato nuove adesioni nei seminari e delegittimato Rafsanjani. Il Richelieu della nomenklatura è stato fischiato a Qom e il settimanale Parto-i- Sokhan ha rilanciato l’accusa cara ai teorici delle cospirazioni che lo vuole pedina degli inglesi. Ahmadinejad ha mobilitato i suoi stati generali al ministero dell’Interno e incaricato il consigliere Mojtaba Samareh di monitorare il processo elettorale alla guida di un’apposita commissione. Lo squalo ha risposto rafforzando l’intesa coi riformisti e riallacciato antiche alleanze coi conservatori tradizionali. Ha attaccato “l’irresponsabilità di chi insegue una chimera ai danni del paese” e agitato lo spettro dei brogli. Insperato è arrivato il suggello del negoziatore nucleare Ali Larijani, peso massimo dell’aristocrazia clericale che contesta l’aggressiva linea del presidente. Nessuna rimonta è garantita, Yazdi si è finora mosso bene e miete consensi nel Consiglio dei guardiani. Per Khamenei, ritirato in un ruolo da kingmaker, a distanza di sicurezza tanto dagli uni quanto dagli altri, l’insofferenza dei conservatori potrebbe segnare il momento delle scelte.
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