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Il Foglio Rassegna Stampa
14.10.2006 Intanto in Cisgiordania...
La cronaca di Rolla Scolari

Testata: Il Foglio
Data: 14 ottobre 2006
Pagina: 4
Autore: Rolla Scolari
Titolo: «Noi di Cisgiordania»

Dal FOGLIO di oggi 14/10/2006, la cronaca dalla Cisgiordania di Rolla Scolari.

Ecco l'articolo:

Roi Klein compiva 31 anni il giorno del suo funerale, in luglio. Suonava il sassofono e studiava la Torah. Viveva con la moglie Sara e i due figli, di uno e tre anni, ad Hayovel, insediamento israeliano in Cisgiordania, sulla cima di una collina senza alberi. La sua casa, dal tetto in tegole rosse, in una fila di abitazioni tutte uguali, guarda sul villaggio palestinese di Qaryut, che non dista più di poche centinaia di metri dai giardini dei settler. Per arrivare qui c’è una sola strada, che si arrampica stretta sulla collina e di notte non è illuminata. Il maggiore Roi Klein comandava il 51esimo reggimento della Brigata Golani. Durante l’estate è partito da Hayovel per andare a combattere in Libano, nel conflitto contro Hezbollah. Era a Bint Jbail, in luglio, il villaggio libanese teatro degli scontri più furiosi. stato ucciso. Dal nulla ha visto arrivare una granata e per salvare due compagni vi si è buttato addosso, gridando: “Shemà Ysrael”, ascolta o Israele, primo verso della preghiera principale che gli ebrei recitano al mattino e alla sera. Adesso, non soltanto ad Hayovel, lo ricordano come un eroe di guerra. La sua casa, assieme alle altre dell’insediamento, fa parte di blocco che il governo israeliano aveva deciso di evacuare, quando ancora – prima della guerra – si parlava piano di convergenza e ritiro da una parte della Cisgiordania. Il conflitto in Libano ha cambiato l’agenda politica. disimpegno, in Israele, non si parla più. Qualche volta si sussurra. Tuttavia, morte di Roi Klein ha scatenato una polemica mediatica e il movimento arancione degli insediamenti si chiede: “Come si può smantellare la casa di eroe di guerra? Togliere il tetto alla vedova di un soldato morto per servire patria in Libano?”. “Qui, la terra prima di noi era secca”, dice Tamer Asraf, giovane vicina casa di Roi e Sara, madre di quattro chiassosi bambini. E’ una donna religiosa, si vede da come è vestita: lunga gonna colorata, braccia coperte e capelli raccolti in un fazzoletto. Vivere qui, dice al Foglio mentre prepara la challah, profumato pane servito nei giorni di festa nella tradizione ebraica, poche ore dall’inizio di Sukkoth, la festa dei Tabernacoli, “non è un affare privato. Viviamo qui perché ci crediamo, perché non stare qui significherebbe fare del male a noi e a Israele. Guarda che cosa è successo quando abbiamo lasciato il Libano e Gaza”. Si riferisce all’operazione militare nella Striscia, a giugno, dopo il rapimento da parte del braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam, di un soldato di Tsahal e il sequestro, poche settimane dopo, di due altri militari da parte delle milizie sciite libanesi di Hezbollah, azione che ha scatenato la reazione israeliana nel sud del Libano il conflitto. Hayovel è un insediamento satellite Eli, grande centro religioso. Oggi, qui ci sono 32 famiglie. Esiste da soli nove anni. Accanto alle piccole case dal giardino curato, ci sono i container le abitazioni mobili. Si vive in attesa che il governo dia il permesso di continuare a costruire. E il governo quei permessi li ha congelati. Tamer racconta che la lista delle persone che vogliono trasferirsi su queste brulle colline a un passo dai villaggi arabi è molto lunga, ma che mancano i posti e che non esiste un mercato di nuove o vecchie case. Secondo il quotidiano liberal israeliano Haaretz, che pubblica i dati del ministero dell’Interno, la popolazione degli insediamenti della Cisgiordania due decenni è cresciuta del 5,3 per cento, molto di più rispetto ad altre zone del paese. Il Washington Post ha parlato di “revival” del movimento degli insediamenti come effetto della guerra in Libano. Il primo ministro, Ehud Olmert, ha portato il suo partito, Kadima, alla vittoria elettorale nelle elezioni di marzo dopo aver impostato campagna sulla promessa di nuovi ritiri e concessioni territoriali caratterizzate da uno stretto unilateralismo, quindi dall’assenza di negoziati con la controparte palestinese. Lo ha fatto sull’onda dell’entusiasmo per quello L’ufficio per le Costruzioni ha dato nuovi permessi, dal ministero della Difesa arrivano ordini di evacuazioni. I settler non s’illudonoche era stato vissuto da gran parte della popolazione come un successo: il disimpegno dalla Striscia di Gaza, portato a termine dall’ex premier, Ariel Sharon, oggi in coma dopo essere stato colpito da emorragia cerebrale a gennaio. Lo ha fatto perché, allora come oggi, il suo governo fatica a trovare un partner credibile sulla scena palestinese, in cui clan e fazioni armate, soprattutto nelle ultime settimane, sono in pieno scontro. Le faide intestine a Gaza, il mai cessato lancio di razzi Qassam dalla Striscia, l’operazione militare di giugno in seguito al rapimento di Gilad Shalit, il conflitto in Libano, da cui Israele si ritirò nel 2000, hanno reso impossibile, al momento, parlare di altri disimpegni. Il primo ministro Olmert sta affrontando uno a uno gli scomodi dossier relativi alla guerra con Hezbollah: le accuse sulla mala gestione dell’operazione militare; quelle relative ai suoi poco chiari affari immobiliari.immobiliari. Sta cercando di fare tutto questo mantenendo in piedi una claudicante coalizione in cui il partner di maggioranza sono i laburisti di Avoda, guidati da Amir Peretz, il ministro della Difesa ogni giorno più impopolare. L’idea del disimpegno è ancora viva, ma ha bisogno di essere rivista”, ha detto pochi giorni fa la tosta portavoce del premier, Miri Eisin. Le notizie dalla Cisgiordania sono contrastanti: l’ufficio per le Costruzioni ha dato il permesso per l’edificazione di 20 nuove case a Karmei Shmoron, a Alfei Menashe, 88 ad Ariel, tutti insediamenti in Cisgiordania. Amir Peretz, dall’altra parte, ha dato l’ordine di radere al suolo 47 outpost illegali. Poche settimane fa, Peace Now, organizzazione israeliana pacifista di sinistra, pubblicato il rapporto biennale: il movimento degli insediamenti avrebbe sfruttato la mancanza di copertura mediatica sulla Cisgiordania, causata dalladalla guerra in Libano, per accelerare la costruzione di nuove abitazioni. Il conflitto, scrive il rapporto, “ha fornito un’opportunità d’oro ai settler per stringere la loro presa sulla terra, in assenza di copertura mediatica”. Trentuno outpost illegali si sono espansi, dodici hanno aggiunto strutture permanenti a quelle mobili già esistenti proprio durante i giorni estivi del conflitto. Poi, però, il portavoce di Peace Now, Dror Etkes, al Foglio dice che non è vero: non c’è stato un incremento nell’ampliamento degli insediamenti. Gli abitanti “costruiscono sempre”. La guerra in Libano non avrebbe dunque cambiato la situazione in maniera drammatica, “i giornali hanno esagerato la questione. La crescita, in termini di popolazione e costruzioni, è rimasta uguale negli ultimi due anni”. Aliza Herbst, portavoce di Pinchas Wallerstein, sindaco del Consiglio regionale di Benyamin, un blocco di 32 insediamentiinsediamenti della Cisgiordania, spiega così il drastico cambio di posizione all’interno di Peace Now: “Sono dispiaciuti per aver detto una cosa simile che il movimento degli insediamenti abbia sfruttato la guerra – soprattutto dopo la morte di sei soldati provenienti da Benyamin (25 mila abitanti, ndr) nel conflitto”. In Israele non si parla più del ritiro. Non si vuol più sentir parlare del ritiro. Eppure, gli unici a sapere che prima o poi si tornerà a farlo sono proprio abitanti degli insediamenti. E Dror Etkes, che con il suo pickup passa giornate intere a monitorare ogni lieve trasformazione all’interno dei centri abitati israeliani in Cisgiordania e che ha contatti diretti e quotidiani, anche assai bellicosi, con i settler, è il primo confermarlo: “Fra pochi mesi vedremo ancora Olmert parlare di disimpegno”. I settler sanno di aver guadagnato un po’ di tempo, spiega. “Temono l’unilateralismol’unilateralismo più del negoziato con palestinesi. L’unilateralismo è costruito sull’interesse d’Israele e se l’interesse del governo è tagliare gli insediamenti loro sanno che lo farà. Sono certi invece che avrebbero più tempo in caso di negoziati”. Negli insediamenti credono che Olmert stia soltanto rimandando qualcosa. “L’unilateralismo adesso non è più di moda – dice Dror – ma non si sa mai cosa può accadere tra due mesi in Israele”. Aliza Herbst abita a Ofra, insediamento a una ventina di minuti da Gerusalemme. Racconta come gli abitanti sentano che il piano di ritiro del governo sia stato accantonato soltanto temporaneamente. “Nessuno vive nell’illusione che questa non sia un’area di contenzioso politico – dice – adesso non è semplicemente in agenda”. Pochi mesi dopo l’elezione di Olmert, Aliza aveva raccontato al Foglio che gli abitanti di Ofra e degli insediamenti vicini avevano reagito alla vittoria di chi prometteva, nel giro di poco, di obbligarli a lasciare le proprie abitazioni. Le persone, allora, si stavano preparando a una resistenza in stile Gush Katif: molesta ma non violenta; molti, essendo religiosi e ferventi credenti, non si preoccupavano più di tanto, s’affidano a Dio. “Anche quando piano era in agenda – spiega Aliza – le persone non pensavano che sarebbe veramente successo”. Decine di richieste arrivano ogni giorno al Consiglio regionale di Benyamin; intere famiglie vorrebbero trasferirsi a Ofra e dintorni. Non sono né diminuite né aumentate durante la guerra. “E’ un fenomeno molto interessante: la domanda non è mai influenzata dalla politica”, racconta Aliza. Nell’intero blocco, il governo ha congelato la costruzione di case; le richieste, quindi, restano insoddisfatte. Le nuove famiglie, arrivate negli ultimi mesi, sono circa 800. Alcune abitano nelle case mobili, altre in stanze subaffittate. “Sono pronti a vivere in qualsiasi condizione perché vogliono stare qui: chi per la qualità della vita, chi per un’ideologia. C’è chi crede che Dio ci abbia ordinato di vivere qui”. Il 30 per cento della popolazione del blocco di Benyamin è composto da religiosi. Ofra è un insediamento in cui vivono 550 famiglie, circa quattromila persone. Le piccole case con il tetto spiovente appartengono più a un paesaggio austriaco che mediorientale. Gli abitanti aspettano la prossima mossa del governo, senza farsi grandi illusioni. Il governo, però, ha molto altro da fare, di questi tempi, in seguito al conflitto con Hezbollah. Ha molte altre priorità, come la minaccia nucleare iraniana, spiega al Foglio Otniel Schneller, deputato di Kadima ed ex leader dello Yesha Council, l’organizzazione degli insediamenti di Giudea, Samaria e, un tempo, Gaza: la stessa istituzione che, nell’estate del 2005, organizzava le manifestazioni e le proteste del movimento arancione, contrario al ritiro dalla Striscia. Schneller vive in Samaria. E’ un settler. Tuttavia, assieme ad Ariel Sharon, prima, ed Ehud Olmert, dopo, è stato l’ingegnere del piano di ritiro e di quello cosiddetto di convergenza. “Itnatkut” significa disimpegno in ebraico. “Itkansut” convergenza. Spiega Schneller che l’idea di Sharon era quella di ritirarsi da Gaza completamente, per tornare in Israele; il piano di Olmert vuole, invece, “costruire un’alternativa” per le persone evacuate “all’interno della stessa Cisgiordania”, dove rimarranno alcuni insediamenti maggiori, come Ariel, ad esempio. Schneller ha creduto al disimpegno perché crede nella necessità “di ritrovarci, nel futuro, in due stati separati. Dobbiamo vivere con i palestinesi fianco a fianco, con normali relazioni tra paesi diversi”. Ma l’effetto del ritiro dal Libano e Gaza è stata la guerra, dice. Se questa la formula, non è quella giusta. “Dobbiamo creare un piano sul quale tutti siano d’accordo. Abbiamo bisogno anche dei settler, ora che il mondo spinge affinché noi concediamo altra terra. Non so oggi ma forse, tra qualche mese, andremo avanti. Potremmo portare termine il piano anche adesso, ma prima dobbiamo costruire alternative. Fra qualche mese, le alternative saranno pronte”.

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